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Catastrofi e spopolamento nell’opera di Corrado Alvaro

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2018 @ 00:01 In Cultura,Letture | No Comments

 Roghudi abbandonata a seguito alluvioni del 1951 e 1971 (ph. V. Teti).

Roghudi abbandonata a seguito alluvioni del 1951 e 1971 (ph. V. Teti)

di Vito Teti

«Nel sottofondo della memoria di questi abitanti della costiera e dei paesi sulle pendici dell’Aspromonte, c’è l’urlo del torrente. […] C’è nell’animo di quegli abitanti, appena le prime piogge ballano sulle tegole delle casupole senza soffitto, la paura di quello che può fare la montagna. Fra veglia e sonno, si sente l’urlo, continuo, come un cane invocante tra squilli di campane. È la corrente nel suo letto di rotolanti pietre sonore. Da vicino si sente questa sorda orchestra di pietre, a tratti squillante trionfalmente» (Corrado Alvaro, 1954). «Qui abbiamo un Dio, che quando piove ci porta a mare, e quando non piove secca il mondo. Questo anno non ha piovuto da sei mesi e siamo tutti disoccupati e in miseria» (Un contadino di Rossano a inizio Novecento, in Francesco Saverio Nitti, 1968).

«Sempre vi sono paesi che nascono e paesi che muoiono», così argomentava Antonio Marando su “Nord e Sud” (settembre 1958), il mensile diretto da Francesco Compagna, per sostenere l’abbandono e la ricostruzione lungo le coste (Africo, Casalnuovo, e poi Roghudi, Badolato) o all’interno (Natile, Careri, Canolo, Badolato, Nardodipace). Era il periodo in cui la montagna mandava immagini di isolamento e di arretratezza; era il periodo della grande fuga oltreoceano o nel triangolo industriale; era il periodo della discesa lungo le coste, prima malariche e disabitate: un processo già iniziato alla fine dei Seicento. Molti paesi resistettero, prolungarono la loro agonia; altri vennero abbandonati per sempre. Le posizioni di quanti come Umberto Zanotti Bianco dicevano che bisognava ricostruire i paesi in loco o non lontano da  dove erano sorti non vennero ascoltate.

La posizione, amara, realistica, quasi irritante di Marando – che, comunque, era preoccupato di dare un nuovo abitato agli alluvionati  – mi viene in mente spesse volte quando ormai lo spopolamento, l’abbandono, possibili soluzioni di resistenza, di ritorno, di rinascita sono all’ordine del giorno di studi, narrazioni, dibattiti, progetti, azioni dal basso. Mi interrogano mentre assistiamo al Bel Paese che, giorno dopo giorno si sfascia, si sfarina, si sgretola e non riusciamo a vedere che, dietro, tutto questo c’è una storia di lunga durata e di catastrofi, abbandoni, di errori, di scelte politiche dissennate. E così vado spesso con la mente – anche per contrastare facili narrazioni cronachistiche e sentimentali o soluzioni fantasiose – a quanti, scrittori, osservatori, meridionalisti avevano descritto l’inizio (ma si può sempre andare indietro nell’inizio) degli sfasci e dello spopolamento attuale, segnalandone cause antiche e recenti, individuando le molteplici e talvolta convergenti cause. Credo che il “ritorno” – in maniera nuova e con diversi linguaggi – alle analisi approfondite, alle inchieste e alle ricerche sul campo, a un impegno civile e politico sia una condizione necessaria per progettare ipotesi di costruzione di nuove comunità abitabili (necessariamente diverse da quelle del passato).

Corrado Alvaro a Milano, luglio 1920.

Corrado Alvaro a Milano, luglio 1920

Corrado Alvaro è certo lo scrittore che, con lucidità e passione, tra pietas e speranza, descrive la fine dell’antico mondo e la lenta chiusura dei paesi. Di recente ho riletto Alvaro per scrivere la Prefazione alla nuova edizione di Un treno nel Sud (1958; n. ed. Rubbettino, 2017), l’ultimo di una trilogia di viaggio di cui Itinerario Italiano e Roma vestita di nuovo costituiscono i primi due volumi. Sappiamo dalla giovane Cristina Campo, che fu vicino ad Alvaro negli ultimi tempi della sua malattia e lo accudì fino alla morte nel 1956, quanto Alvaro tenesse a questa sua ultima fatica  dove c’è una felice combinazione di  resoconti sentimentali, letterari, etnografici, scritti (la datazione è sempre difficile) tra la fine degli anni Quaranta (soprattutto 1948) e i primi anni Cinquanta del secolo scorso e relativi a Napoli e alla Campania, alla Puglia, alla Sicilia e soprattutto alla Calabria, non solo perché è la sua terra di origine e quella che meglio conosce, ma perché la regione assurge a metafora dei contrasti, degli eccessi, dei problemi, dell’arretratezza, delle bellezze del Sud.

Alvaro si presenta, con una sua inconfondibile cifra stilistica, grande scrittore di racconti, autore di note di viaggio, custode di memorie di un mondo sommerso, osservatore attento e puntuale, analista politico, che fa pensare a un grande etnografo, un antropologo capace di riflessioni che restano fondamentali per conoscere un universo scomparso e che nello stesso tempo rivelano una loro attualità. Lo scrittore raccoglieva e riprendeva temi che aveva trattato nei romanzi, nei racconti, nel libri di viaggio, nei diari e negli articoli di giornali. In questa sede mi limito soltanto a ricordare come lo scrittore raccontasse la grande trasformazione che il paesaggio e i paesi subivano sia per la furia distruttrice dei terremoti, delle piogge, delle alluvioni, delle frane, sia per l’incuria e le politiche dei gruppi dirigenti almeno a partire dall’unificazione italiana, sia per la fuga delle popolazioni, che sembravano anticipare e continuare la fuga di interi territori.

2L’immagine dei paesi presepi, arroccati, appesi a fragili poggi, che si sfasciano, crollano e vengono abbandonati, dei piccoli borghi che si svuotano nelle regioni del Sud, coglie senz’altro uno degli aspetti che mostrano visivamente la fine, anche materiale, anche geoantropica, dell’universo tradizionale che si avviava, per necessità e per scelta, verso una modernizzazione dalla fisionomia incerta e contraddittoria e di cui Alvaro, pur cogliendone gli aspetti positivi e le nuove possibilità concrete che offriva a popolazioni misere e affamate, non si stancò mai, anche con toni antimoderni, di indicare rischi, limiti, paradossi.

Così scrive Alvaro, in Un treno nel Sud, cogliendo il carattere di un paesaggio fatto di paesi:

«Un altro aspetto della Calabria, è quello dei paesi abbandonati e disabitati sui monti e sui colli, le finestre vuote, il campanile vuoto ancora in piedi, il castello diroccato. Non soltanto le frane ne consigliarono l’abbandono, ma la maggior sicurezza di dopo l’Unità, la creazione di centri di commercio e di centri agricoli. Le associazioni a delinquere, che qualcuno tentò di instaurarvi a limitazione della mafia, non attecchirono, e la Calabria è ancor oggi uno dei paesi più sicuri a qualunque ora in ogni sua parte solitaria; è perfino la meno infestata dalla mendicità. Dopo l’Unità, sorsero sulle marine centri commerciali dominati dapprincipio dagli intraprendenti amalfitani, che dal più lontano medioevo avevano tenuto i traffici della regione spingendosi fin nei più remoti paesi dell’interno. Erano soltanto importatori di manufatti. Alle esportazioni dei prodotti del luogo, lana, miele, seta, pelli, lino, formaggi, essenze, provvedevano mercanti erranti coi muli, poiché mancavano le strade e i centri popolosi di smercio accessibili ai villaggi primitivi».

3In Itinerario Italiano fissa il paesaggio che «si stendeva infinitamente quella sponda greca che da Crotone si prolunga fino al Capo Spartivento, col suo colore di terra antica fra i colli digradati dal balzo abissale dei monti, le crete aride, le fioriture enormi di certi poggi, le rocche medievali, gli sproni dei monti, le torri dirute, i castelli abbandonati, i paesi disertati sui colli franosi, con la luce che si affaccia alle finestre vuote dai tetti sprofondati».

E ancora in Un treno nel Sud:

«Chi attraversa la Calabria, vede sui cocuzzoli dei colli e dei monti i lontani paesi appartati dalle marine e dai traffici. Sorsero lontani dal mare in un tempo infido. La poesia popolare calabrese si ricorda sempre delle donne rapite nelle incursioni dei turchi. Nella vecchia economia della contrada, sorsero questi paesi presso i pascoli sui monti, paesi di pastori che furono la sola classe popolare forte e ricca, favorita da una legge borbonica sul pascolo. Presso il mare era la terra malsicura, e la terra del feudo; oggi la terra d’oro degli agrumi il cui prezzo raggiunge perfino i due milioni per ettaro».

In uno dei più belli e significativi racconti del Novecento europeo, tra i più noti e studiati, Il ritratto di Melusina, pubblicato nella raccolta L’amata alla finestra, Alvaro fotografa gli esiti della discesa lungo le marine, il progressivo abbandono dei paesi interni, a cominciare dalla chiesa, che era l’axis mundi degli antichi abitati, il campanile di riferimento (di demartiniana memoria) delle persone dell’antico mondo.

Senza riassumere la trama di un racconto famoso, riprendo le pagine in cui Alvaro descrive lo sfasciarsi del paese:

«Il paese abbandonato intorno si sfascia rapidamente, le piazze e le strade deserte sono amplificate dai meandri che si aprono nelle case crollanti, di dove hanno portato via le porte e le finestre, gli ammattonati e le tegole. Crollano a ogni pioggia, con un polverino minuto, i tetti e i pavimenti nelle cucine e nelle stalle. […] Da stagione a stagione, gli uomini abbandonano il paese, con le masserizie caricate sull’asino che si lagna destando gli echi delle stalle deserte. Sono fuggiti anche i cani. La fontana s’è rotta come una vena, e si vede correre il filo dell’acqua nelle èmbrici messe a canale. La chiesa è spalancata, l’altare disadorno, e qui il muro che si sfalda è pieno di dramma: sembra che qui sia un perpetuo Venerdì Santo, quando si manomettono gli altari e se ne abbattono le suppellettili. L’eco delle squille e dei canti è fuggita attraverso le rotte vetrate. Le pietre tombali ricevono il sole del soffitto squarciato».
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Cardinale, paese descritto da Alvaro, 2017 (ph. V. Teti)

Il racconto (come ho avuto modo di segnalare in diversi miei lavori) rappresenta una sorta di planctus commosso e pacato, doloroso e pietoso, per l’erosione e la scomparsa di un antico universo, come un canto di addio a un mondo che muore per le distruzioni, le devastazioni, le espropriazioni che arrivano dall’esterno, ma anche per le scelte, spesso obbligate e rassegnate, dei suoi abitatori.

Alvaro coglie e narra un processo storico in atto, fotografa il disfacimento geografico, fisico e morale dei paesi dell’interno, delinea un’antropologia dell’abbandono, coglie gli stati d’animo, le emozioni e la mentalità delle persone che vivono la dissoluzione di un mondo. Il sentimento della fine gli giunge pure da una storia e da una memoria popolare segnate dalla scomparsa, dalla cancellazione, a seguito di catastrofi naturali, di intere comunità e gli arrivano dal suo sguardo che affonda nel paesaggio e nell’anima dei luoghi. È lo sguardo che coglie lo scrittore che era andato via, non prima di avere conosciuto il carattere dei luoghi.

Nel capitolo, L’urlo del torrente, in Un treno nel Sud, Alvaro ricorda come il cielo sereno diventi immediatamente rabbuffato, la «montagna si metta a urlare, messa in allarme con mille voci» e «dai profondi burroni si leva uno scroscio alto e modulato». Il letto del torrente, asciutto qualche minuto prima, è «percorso da centinaia di rivi che si cercano e si confondono. Da tutte le parti la montagna scarica i suoi rigagnoli e i suoi canali».

 Amendolea antica. Abbandonata dopo alluvione del 1951. Castello e rovine, 5 maggio 2011 (ph. V. Teti)

Amendolea antica, abbandonata dopo alluvione del 1951. Castello e rovine, 5 maggio 2011 (ph. V. Teti)

In un istante tutto si calma, la pioggia fugge e si disperde; rimane solo lo scroscio del torrente vicino, mentre tutti gli altri canali del monte si quietano quasi di colpo. I torrenti, con un bel nome antico,  Mèsima, il Calopinace, l’Angitola, il Bonamico, il Mèlissa, l’Ancinale  invadono i paesi alti raggiungendo il livello dell’acquasantiera delle chiese, e provocando devastazioni alle culture, apprensione e terrore nelle persone, che si fermano e non possono uscire con le loro mandre. Nessun forestiero, come i commercianti che vengono da fuori, spesso a distruggere alberi e boschi, sa cosa «riserbi la montagna, nessuno sa quali distruzioni di boschi siano avvenute in montagna, né quali possano essere le conseguenze».

Nessuno sa, tranne contadini e pastori, che «il torrente in Calabria è un mostro perfido ben più presente del terremoto; frantuma i ponti come fragili gabbie, passa sopra gli agrumeti e gli uliveti, demolisce le strade a mezza costa, spacca la casupola lassù». E, dopo le alluvioni, come quelle dei primi anni Cinquanta, i paesi conoscono la loro sepoltura.

«Il paese di Cardinale, per esempio, ha la sua sepoltura pronta. L’Ancinale gli scorre davanti; dietro, la sua montagna frana. Si vede la spellatura del colle e una crepa, come fa il lievitare su una pagnotta. I boscaioli seguitano a spiantare gli alberi. Sono lavoratori che si guadagnano il pane; il disboscamento ha i permessi in regola, e intanto affretta la bara al paese. Cardinale è condannata. A tre o quattro chilometri è tracciato il piano regolatore della nuova Cardinale, su un piano cui si sale dalla rotabile per una ventina di scalini di granito. Le erbe hanno coperto la traccia del piano regolatore. Ma dei criteri urbanistici degli ordinatori è un attestato il gruppo di case già abitato. Sono tre file di lunghi edifici gialli, paralleli, monotoni, che ricordano i campi di concentramento o i padiglioni di qualche città di malati poveri. La popolazione di Cardinale esita a trasferirsi; al suo vecchio paese ha una chiesetta rustica ma col suo colore, ha qualche casuale prospettiva di vicoli, un poggiolo, una colonnina, che attestano una vita povera ma intima. Sotto la frana cullano i loro bambini; i vecchi sulla soglia, in cima alla scala esterna, guardano la luce; le donne sui poggioli filano; i bambini ruzzano, i focolari fumano. Arrivano i colpi di quelli che abbattono gli alberi. Basta che la donna col suo bambino in braccio levi la mano, per indicarvi imminente il colle che pericola. Si lagna soltanto che prima il bosco era dato dal Comune ai lavori della gente del paese, e che ora invece sia stato appaltato».

Quanto accade crea esuli e profughi all’interno del vecchio abitato o del nuovo che viene costruito, a casaccio, dove la gente non è convinta di trasferirsi, ma spesso espelle lontano interi abitati. Alvaro – e Francesco Perri, Saverio Strati, Sharo Gambino e altri – hanno narrato lo sfarinamento e la fine di diecine e diecine di antiche comunità, frazioni e tanti altri piccoli villaggi. La fuga di massa, già cominciata, diventava un vero e proprio esodo biblico: i paesi si trasferivano lungo le coste, dove rinascevano come inquietanti e perturbanti doppi, o altrove, all’estero, in Nord Italia. Storie di dispersioni, lacerazioni, ferite, lutti mai rimarginati.

Camini , frana, 1951

Camini, frana, 1951

Giovanni Russo ha raccontato in Baroni e contadini il suo incontro a Gaeta con i profughi di Gallicianò, uno dei paesi alluvionati di Calabria, e li chiamava profughi. Alvaro aggiungeva che in realtà si potrebbero chiamare «internati» nella fortezza di Gaeta, come gli altri paesani di Condofuri e Amendolea, colpiti dalla stessa calamità, che erano stati «internati» a L’Aquila.

I profughi e gli internati calabresi, aggiungeva Alvaro (1954), ricevono «dal governo il sussidio degli internati, costretti all’ozio, fuori da ogni possibilità di costruirsi una vita da uomini, e sia pure da poveri uomini, giacché Gaeta non offre molto ai suoi stessi abitanti. Se si pensa che tutta la vicenda di Africo, altro paese sinistrato, costò al Governo un miliardo e mezzo, quello che fu il campione dei paesi poveri della Calabria si sarebbe potuto costruire poco lontano dal suo vecchio luogo e nell’ambiente naturale degli abitanti. Ma le cronache meridionali sono fatte di vicende assurde come queste, cui sembra presiedere la più grottesca fantasia».

Alvaro sembra anticipare quanto poi – quasi un’ironia della storia –  sarebbe avvenuto con il recente terremoto a L’Aquila e, prima ancora, in diecine di paesi abbandonati a seguito di alluvioni e di terremoti catastrofici, di frane rovinose e di stato di isolamento. L’indifferenza nel prevenire e attenuare il rischio in Italia, a riprova di una inquietante continuità di tutti i governi che si sono succeduti, seguono ricostruzioni, delocalizzazioni, dispersioni che non hanno tenuto conto della volontà, dei bisogni, dei desideri, dei sogni della gente.

 Alluvione primi di ottobre tra Capistrano e S. Nicola da Crissa (ph. V. Teti).

Alluvione primi di ottobre tra Capistrano e S. Nicola da Crissa (ph. V. Teti)

L’assurdità, segnalata da Alvaro, in Un treno nel Sud, consiste nel fatto che quegli elementi che provocano morte di persone, abitati, culture, cose, in realtà potevano essere le risorse di terre da modernizzare in maniera intelligente. «Pensare che questi torrenti possano essere racchiusi in laghi montani, e sono diecine; che la Calabria possa diventare la più grande riserva di energia elettrica d’ Europa; che migliaia di ettari di terreno possano essere riscattati al lavoro degli uomini; che la malaria e il deserto delle spiagge possano essere vinti, è un sogno da dio».

E sempre nello stesso volume scrive:

«Chi abbia un’immagine dei torrenti della Calabria, dai letti larghi da uno a due chilometri, per l’estensione da dieci a quindici chilometri, e più tremendi sul versante colpito ultimamente, sa che impresa sia trasformarli da mostri distruttori a sorgenti di energia e di vita, ridare alle colture i greti che diverrebbero fertili piani, creare serbatoi di energia che sarebbero la fortuna di tutta l’Italia meridionale, che in alcune regioni è disperatamente e ineluttabilmente in ascesa, che fatalmente conquisterà una potenza comparabile alle migliori conquiste del Nord, e che al Nord stesso potrà presentarsi alleata delle sue migliori fortune».

Un sogno, un’utopia possibile che non risponde, però, agli interessi dei ceti dominanti, come non si stanca di ripetere nelle sue inchieste e note di viaggio e in Un treno nel Sud.

«Sulle catastrofi della Calabria, si sono formate fortune imponenti. Per dare lavoro ai disoccupati, si sono spiantati boschi che poi costano la vita a interi villaggi. La furia delle acque sul versante più spoglio, l’Jonio, allarga i letti dei torrenti d’anno in anno, divora ettari di terra di colture ricche, e questi fenomeni non si registrano fino a quando le alluvioni grandiose non compiono l’opera creando un cataclisma come quello ultimo, che mutano addirittura la configurazione del terreno, spianano monti, coprono valli, preparano il crollo dei paesi sulle pendici dei monti. Lo Stato interviene spendendo somme ingenti a fortificare i paesi pericolanti; e a distanza di pochi anni le crepe segnano i bastioni che trattengono la terra».

Terremoti, ma anche disboscamenti insensati, malaria, mancanza di acqua potabile, ricerca di nuovi spazi produttivi e di siti in prossimità della ferrovia – su cui Alvaro al pari di altri scrittori, osservatori, meridionalisti si sofferma a più riprese, anche se non è questa la sede per aprire un capitolo da trattare con altra profondità – e alluvioni dissolvono e sgretolano le comunità, ma allo stesso tempo permette la nascita di élite senza scrupoli, di classi dirigenti corrotte, la generazione di «fortune imponenti» e di pervasivi sistemi clientelari. Vale la pena riportare, per esteso, quanto leggiamo ancora in Un treno nel Sud:

«La storia delle opere pubbliche in Calabria, è anche troppo nota nella regione. Di quelle elargite dal passato regime, che nell’Italia meridionale faceva una politica stagionale di opere pubbliche come un palliativo alla disoccupazione, non resta quasi più traccia. Per la verità, s’è fatto assai più nel dopoguerra che nei ventidue anni. Ma la Calabria dà sempre l’impressione d’una terra pericolante in continua riparazione; le riparazioni appaiono puerili di fronte alla furia improvvisa degli elementi, costano molto allo Stato, da non lasciare margine alle opere fondamentali.
I lavori pubblici in Calabria sono stati sempre veduti come un rimedio alla disoccupazione stagionale, né hanno mutato stile. Concepiti come palliativo sociale, inducono imprese e lavoratori alla medesima concezione. Mezzo secolo d’una tale concezione nella destinazione del denaro dello Stato ha creato tutta una mentalità, in modo che non si sa più chi sia l’ingannato e chi l’ingannatore; lo Stato non vi ha guadagnato di prestigio, i governi non vi hanno mai acquistato solidarietà: la perdono anzi da anno ad anno. Per molto tempo la Calabria ignorò lo Stato come ne era ignorata».

Quella che è mancata, denuncia Alvaro nel suo viaggio al Sud, è stata sempre la ricerca di una soluzione definitiva, radicale.

«Non si è mai tentata una soluzione radicale. Avrebbe dovuto essere lavoro e cura di intere generazioni, di sagaci amministratori e non di fondi messi a disposizione per lavori di ripiego che danno cattivi risultati anche nella formazione morale dei lavoratori, i quali sanno che si tratta di forme larvate di sussidio, come lo sanno molte imprese. Davanti all’imponenza dei mali accumulati da ormai un secolo di cattiva o distratta amministrazione, sbigottisce l’idea che nessun bilancio di nessuno Stato basterebbe a sanare i mali prodotti nella struttura della regione».
Camini (RC) S. Nicola in processione per fare cessare la pioggia Alluvione 1951.

Camini (RC) S. Nicola in processione per fare cessare la pioggia Alluvione 1951

La soluzione venne cercata dal basso, con l’emigrazione di massa. La «fuga» è il tema della vita meridionale e calabrese, ma è anche la parola chiave e ricorrente per entrare nell’animo di questo libro. Alvaro aveva già descritto la mobilità, la fuga, le trasformazioni seguite all’unificazione nazionale, alla discesa lungo le coste e le marine, alla costruzione della ferrovia e all’emigrazione di fine Ottocento e inizio Novecento e poi alla grande guerra. L’emigrazione per Alvaro è, certo, dispersione e anche erosione dell’antico ordine, ma anche scelta di libertà e di miglioramento delle condizioni di vita. L’emigrazione dava ai calabresi una vita e speranza. Non a caso il Sud ha combattuto tutte le guerre dell’Italia, considerandole un’evasione e una breccia per l’emigrazione. Con il nuovo grande esodo, che Alvaro descrive, in presa diretta, «l’Italia meridionale tenta un’evasione interna, si inserisce dappertutto, fornisce la burocrazia e la polizia: in altri termini, meridionalizza la nazione». L’immagine suggestiva che Alvaro ci consegna è quella «d’una primitiva tribù che abbandona una terra inospite».

La fuga per cercare l’acqua

«Era la religione dell’acqua. Noi siamo di quel popolo che in guerra chiamava: Acqua Acqua, e questo grido di certe notti se lo ricordano ancora quelli che ci stavano di fronte. Chi ci vuol riconoscere, ci guardi in viaggio se ci affacciamo al finestrino per osservare un getto d’acqua, un torrente, un rivo. L’acqua corre, l’acqua è la vita» (Corrado Alvaro, Itinerario Italiano).

I paesi si svuotavano non solo per le devastazioni delle acque, ma per la mancanza di acqua. Le persone vivono nell’ansia e nell’inquietudine, sono mobili, come i luoghi in cui vivono, non solo per eccesso di acqua, per le piogge, per le frane, ma anche per cercare l’acqua, che manca proprio nei paesi che navigano sull’acqua. Nelle opere di Alvaro l’antropologia dei paesi che subiscono il tormento delle acque piovane e dei torrenti convive – a riprova di una contraddizione di una terra che si riflette anche nelle sue opere – anche un’antropologia e un’archeologia dei paesi assetati che spingono alla faticosa e quotidiana ricerca di acqua potabile e anche all’abbandono dei paesi.

L’antropologia e l’archeologia dei paesi alluvionati e assetati segnavano anche la mentalità e le pratiche “magico-religiose” della popolazione. Mi è stato detto che in occasione della recente alluvione che ha riguardato il mio paese in molte famiglie sono state accese le candele benedette il giorno della Candelora e le persone più anziane hanno ripetuto le preghiere a Santa Barbara perché facesse cessare tuoni e fulmini.  In passato, in caso di alluvioni o di siccità prolungata, le statue del Santi venivano portate in processione perché smettessero le piogge o invece perché, dopo lunga siccità, arrivasse l’acqua del cielo. In tutta la regione i folkloristi e gli studiosi locali hanno rilevato preghiere, “punizioni” ai Santi (immersione nei fiumi o nel mare; sarda salata in bocca), imprecazioni per la pioggia.

 Alluvione primi ottobre Torrente Fellà S. Nicola da Crissa (ph. V. Teti).

Alluvione primi ottobre Torrente Fellà S. Nicola da Crissa (ph. V. Teti)

La storia dell’abbandono in Calabria registra innumerevoli casi di paesi che chiudono in epoca moderna e anche recente per mancanza o insufficienza di acqua, per siccità. I racconti, i saggi, le note di viaggio dello scrittore sono popolati di gente, di donne, di ragazzi che viaggiano per cercare e prendere l’acqua. La donna che cammina con l’orcio dell’acqua appare quasi una figura archetipa e rivela una sensualità rigeneratrice. L’orcio si presenta come una sorta di oggetto sacro all’interno di una cosmogonia basata sull’acqua che genera e rigenera. L’acqua conferisce forza e sicurezza; rinsalda e ristabilisce i legami, crea comunione tra le persone. L’acqua è ricerca, desiderio, elemento distintivo delle persone in perenne viaggio. L’acqua rivela nostalgia del mondo d’origine, memoria della terra, della madre, delle donne.

Questa valenza fondante, rigeneratrice, salvifica dell’acqua deriva ad Alvaro dalla sua cultura di origine. Il ritorno, sognato, immaginato, rare volte reale (ma sempre accompagnato da delusione), nel paese o nel mondo di origine è segnalato o viene tradotto in un graduale riconoscimento e in una lenta riappropriazione della natura, dei prodotti della terra, dell’acqua. Il rapporto dell’uomo del Sud e dell’universo mediterraneo con l’acqua è stato incerto, precario, faticoso. L’acqua è stata spinta alla ricerca e al viaggio. Alvaro parla dell’archeologia dei paesi assetati e disegna la loro particolare dipendenza dall’acqua che mancava e che era faticoso avere facilmente a disposizione, come scrive in Itinerario Italiano:

«…In quel tempo si cercavano le altri fonti ai piedi della montagna che sono tante, disposte a quinte per la valle, e lontane. Gente andava vagabonda qua e là, perché i luoghi delle sorgenti cambiano di anno in anno. Sono quelli i tempi della sete improvvisa e inesorabile, e l’uomo è tutto un groviglio di radici assetate; tutto la terra sospira all’acqua, la ricordano le grosse piante e i cardi d’un verde ramarro che hanno una linfa sotterranea che li gonfia. Per tutta la contrada si scoprono le vestigia più antiche dell’acqua, come se anch’essa fosse un popolo migrante».

Parlando della Calabria (ma anche della Turchia, della Russia, dell’Agro Pontino dove compie viaggi e lascia libri indimenticabili) scrive che «noi abbiamo cercato mondo anche per l’acqua» (Alvaro, Itinerario Italiano). 

Bonamico, 2003 (ph. V. Teti).

Bonamico, 2003 (ph. V. Teti)

Tutto resta immobile e tutto è accaduto

«[...] tutto accade lentamente, o non accade mai. Perché tutto è provvisorio. Perché tutto si può aspettare all’infinito. E molte cose si riducono a favole» (Alvaro).  L’amara constatazione è che riflessioni, esplorazioni etnografiche, ricostruzioni storiche e antropologiche narrazioni, analisi, denunce, avvertenze non siano servite a nulla. Negli anni in cui la Calabria e la Sicilia, la Campania e la Sardegna, la Liguria e il Piemonte – un’Italia unita nelle disgrazie e nella distruzione del Bel Paese – , nel periodo in cui alluvioni devastanti si succedono a Crotone e a Soverato, a Cavallerizzo e a Maierato, nell’Aspromonte e nelle Serre; nei giorni in cui interi miei paesi subiscono danni inenarrabili Alvaro appare un profeta inascoltato.

Ho rivisto le fiumare nelle strade di quando ero bambino; i torrenti secchi trasformarsi il fiumi e in laghi; gli alberi, i muri, le strade schiantarsi, aprirsi, immergersi nelle profondità della terra. Sono inarrestabili, forse, e imprevedibili le alluvioni e i terremoti, ma tutti sappiamo che prima o poi, in questi territori fragili, si ripeteranno, torneranno, e nulla si fa per limitare i danni e per mettere in sicurezza strade, case, scuole. Le acque dei torrenti sono state seppellite sotto il cemento e ogni tanto vogliono tornare all’aperto. Cercano la loro via. I massi e le pietre che sono stati nascosti e occultati, improvvisamente, riprendono a rotolare, a correre, a trascinare quanto trovano sulla loro strada. E così anche piccole alluvioni si trasformano in grandi tragedie. L’abbandono della montagna e il progressivo spopolamento che conoscono le aree interne, problema di tutta l’Italia e dei Paesi del Mediterraneo, a cui paradossalmente fanno riscontro la cementificazione e l’intasamento delle marine, la nascita di paesi doppi, intasati d’estate e vuoti d’inverno, hanno spesso come conseguenza la mancata custodia delle acque, l’incuria dei letti dei fiumi e degli antichi cammini naturali delle acque, spesso la sepoltura e la cancellazione dei corsi d’acqua. Queste pratiche comportano o accompagnano o provocano frane, smottamenti, disastri, crolli di abitazioni e di paesi, scarico di detriti nei mari, le cui acque sono sempre più sporche.

Il Bel paese crolla, si sfascia, si sfarina sotto i colpi delle acque piovane, delle frane, delle cementificazioni, degli sventramenti di colline e montagne, delle costruzioni incompiute, delle mancate opere di tutela e difesa di un territorio più vasto. Gli effetti dei cambiamenti climatici planetari sono amplificati dalle recenti ferite provocate nel territorio, dall’abbandono delle zone interne, dalle grandi speculazioni legate allo sfruttamento intensivo della risorsa turistica. Le catastrofi degli ultimi anni che hanno provocato morti, lutti, dispersioni sono legate a forme violente di utilizzazione del territorio, all’incuria del paesaggio, al mancato controllo delle acque piovane, all’occultamento dei fiumi, che cercano e trovano le loro vie naturali.

 Lapide commemorativa per morti a Cardinale a seguito di straripamento Ancinale (ph. V. Teti).

Lapide commemorativa per morti a Cardinale a seguito di straripamento Ancinale (ph. V. Teti)

Dai tempi di Alvaro nessun intervento organico, mirato, risolutivo; i boschi sono stati spesso tagliati in maniera dissennata, vanificando la pure interessante opera di rimboschimento e di bonifica, i letti dei torrenti sono stati cancellati, sepolti, le case e gli edifici pubblici sono stati costruiti in zone pericolose, franose e a rischio sismico si avverte un senso di impotenza e di rassegnazione rispetto alla miopia e all’indifferenza della politica, che continua a prosperare sui disastri e sulle catastrofi, come ai tempi di Alvaro. Nessun progetto organico di messa in sicurezza del paesaggio e dei paesi, delle case e delle scuole, al più interventi a pioggia per recuperare antichi palazzi cadenti in centri storici morenti e senza prospettiva. Le opere incompiute, provvisorie, precarie, la tendenza a rinviare sempre a poi, a domani, a mai – come notava ancora Alvaro – sembra un aspetto che i ceti dominanti e politici della Calabria e dell’Italia abbiano saputo coltivare, rinverdire, amplificare attingendo a un tratto culturale, che, però, nel passato aveva una sua ragione di essere in una terra sempre precaria e mobile, per necessità.

Il paradosso è che in centri grandi e piccoli, circondati da acque e ricche di sorgenti, si debba bere l’acqua fetida e velenosa dei grandi acquedotti o si debba comprare un’acqua minerale costosa e poco affidabile. Nei luoghi delle piogge interminabili e delle acque che provocano morte, d’estate i rubinetti girano a vuoto, le persone vanno ad acqua, come in passato, alle fonti delle campagne, comprano un bene a loro disposizione a costi alti, cucinano con acque minerali. Contrasti, paradossi, inadempienze, affari di pochi. La regione italiana più ricca di sorgenti e insieme quella con la maggiore perdita di acque e con acquedotti e reti idriche in stato di degrado e di abbandono, desueti, che trasportano un liquido fetido, imbevibile, velenoso e, nello stesso tempo, con gravi perdite di acque potabili.

E intanto, ormai, a settant’anni delle pagine di Alvaro i paesi sono deserti, in chiusura. Senza che chi governa adesso possa chiamare in causa la natura, cercare alibi, nascondersi, dopo ogni catastrofe annunciata, con un «noi non sapevamo», che diventa un «non accadrà mai più», a cui ormai nessuno più crede.

Dialoghi Mediterranei, n. 34, 2018
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Vito Teti, docente ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano: Emigrazione, alimentazione e culture popolari; Emigrazione e religiosità popolare nei due volumi di Storia dell’emigrazione italiana (2000; 2001); Storia dell’acqua (2003); Il senso dei luoghi (2004); Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee (2007); La melanconia del vampiro (2007); Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2011); Maledetto Sud (2013); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandono e ritorno (2017). È componente di numerosi organismi scientifici, italiani e stranieri, e membro di Comitati Scientifici di riviste italiane e straniere. È tra l’altro responsabile dell’Icaf, la sezione italiana dell’Associazione Europea di Antropologia dell’Alimentazione. Fa parte della Deputazione di Storia Patria per la Calabria ed è nel Comitato  Scientifico della Rivista “Rogerius”.
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