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Caserta. La città indifferente

 

ritorno-alla-citta-distrattadi Mariano Fresta [*]

La città distratta

Nel 2009 la casa Editrice Einaudi ristampò, nella collana «Stile libero», un libro già uscito circa dieci anni prima, dal titolo Ritorno alla città distratta; il libro, definito in controcopertina “romanzo”, è più di un’opera narrativa, in quanto la protagonista è la città di Caserta insieme con i suoi abitanti con i loro comportamenti, la loro cultura, la loro mentalità, la loro vita. Ne è autore Antonio Pascale, nato a Napoli, ma vissuto durante la sua giovinezza a Caserta. Diventato giornalista e scrittore di opere teatrali e cinematografiche, dopo essersene allontanato per alcuni anni, torna nella città che lo aveva visto crescere; questo temporaneo rientro gli permette di svolgere sulla vita quotidiana della città e dei suoi abitanti alcune considerazioni che sono diventate materia del volume [1].

Quando uscì, a Caserta il libro piacque poco ed ancora oggi alcuni intellettuali ne parlano negativamente. In effetti, Pascale non era stato molto tenero con i suoi ex concittadini, nonostante dalle sue pagine traspiri un sentimento di affetto nei confronti della città della sua adolescenza. Ma cosa aveva scritto l’autore per essere diventato antipatico ai Casertani? In sintesi, li giudica privi del sentimento di appartenenza, perché si sentono cittadini del Comune di residenza solo a parole, né tanto meno pensano di essere cittadini di uno Stato che ai loro occhi appare molto lontano. Così, una discreta quota di commercianti e di professionisti non rilascia mai scontrini, i campi di pallacanestro sono inutilizzabili perché qualcuno ha distrutto o rubato i canestri, inoltre manca qualsiasi senso di responsabilità, singola o collettiva: «Caserta – scrive Pascale – è stata rovinata sempre da qualcosa o qualcun altro», una volta dai napoletani, un’altra dal terremoto del 1980, un’altra ancora dagli aversani (è questo l’odierno ricorrente leitmotiv). E quando qualcuno riesce a metterli alle strette portando esempi concreti sulle loro pecche, i casertani trovano il modo di uscirne con la frase: «Il problema è un altro». «È per questo – osserva Pascale – che è piena di ex: non si riesce mai a trovare qualche responsabile di qualcosa».

Il quadro che della città viene fuori dal racconto di Pascale non offre spiragli di rinascita: commercianti ed imprenditori vari continuamente aprono attività di vario genere che dopo una settimana o un mese chiudono; gli abitanti non si curano di pianificare ed organizzare la loro vita, si mostrano poco attenti alle vicende nazionali e internazionali, nel periodo delle elezioni comunali assistono inerti alla formazione di decine di liste elettorali prive di qualsiasi prospettiva politica; insomma la città appare come un terreno pronto ad accettare con grande indifferenza anche situazioni molto gravi, come per esempio quelle di avere amministrazioni comunali colluse in qualche modo con la camorra, oppure incapaci di gestire la cosa pubblica tanto da costringere ben due giunte municipali a dichiarare il dissesto finanziario.

Un terreno, dunque, dove può allignare il crimine organizzato. I Casertani non sembrano preoccupati di ciò o fanno finta di non capire; se però qualcuno li critica si sentono offesi e protestano. Probabilmente avrebbero ignorato (o fatto finta di ignorare) il libro di Pascale se nella quarta di copertina non ci fosse stato un commento di Roberto Saviano che affermava: «Senza la Città distratta non avrebbe potuto esserci Gomorra».  Nel senso che il libro di Pascale gli ha rivelato qual è l’humus adatto alla camorra e idoneo a dare alimento ad eventi come quelli narrati in Gomorra. A questo punto, il commento di Saviano ha svegliato i Casertani, ma solo per il tempo necessario perché esso e il libro si fissassero nella loro memoria come un’offesa indimenticabile.

È anche vero che, forse per la sua professione di sceneggiatore, la prosa di Pascale a volte scende a livello di “commedia all’italiana”, gigioneggia su alcuni luoghi comuni, nel complesso, però, l’immagine che dà dei Casertani è proprio quella di un popolo la cui mentalità si manifesta come ricerca del quieto vivere per i più, oppure come disinteresse per la civile convivenza e per il mancato rispetto di ogni tipo di regola per molti. Ma guai a dirlo e, soprattutto, a scriverlo.

Dall’ultima stampa del libro di Pascale sono ormai trascorsi più di dieci anni, durante i quali solo poche cose sono cambiate a Caserta, per il resto tutto è rimasto come prima se non è addirittura peggiorato. Ho avuto modo, in quasi tre lustri di permanenza, di osservare direttamente la situazione casertana e devo dire che nonostante molti aspetti siano comuni in tutta la Penisola, Caserta ha un modo tutto suo di vivere le difficoltà e la complessità della società italiana del ventunesimo secolo.

Pascale nel suo lavoro riferiva delle aperture e delle immediate chiusure di molte attività imprenditoriali, specialmente di quelle commerciali, fenomeno forse dovuto alla necessità della camorra di riciclare i soldi sporchi; adesso, se si percorre il corso Trieste, la strada principale della città che va da ovest ad est partendo dalla famosa Reggia, si ha l’impressione di essere in una città surreale, perché due negozi su tre, e forse più, sono chiusi: si cammina sui marciapiedi costeggiando serrande e porte sbarrate. Se poi ci si allontana dal centro, si assiste a continue e frenetiche aperture di bar, rosticcerie e pizzerie che, però, dopo pochi giorni chiudono senza lasciare traccia.

La crisi economica già in atto prima della pandemia si è ulteriormente aggravata: molti tentano di superarla con attività che in teoria sembrano immediatamente redditizie, come le rivendite di generi alimentari di pronto consumo o negozi di telefonini e di strumenti elettronici; ma tutte queste attività spesso durano meno di un mese. Insomma, tutto è all’insegna della precarietà, le lamentele sulla morte della città per le chiusure dei negozi caratterizzano le conversazioni, si invocano provvedimenti, ma non si riesce ad individuare chi dovrebbe provvedere e come. Intanto, però, i Casertani vanno in massa a fare spese nei due grandi centri commerciali posti a qualche chilometro fuori della città, si spingono fino alle porte di Napoli per comprare all’Ikea, e bar, stazioni di rifornimento di carburante, agenzie varie sono diventati punti di ritiro di Amazon. La città, si dice, commercialmente è morta: ma forse anche in questo caso «il problema è un altro».

Caserta, appartamenti della Reggia (ph. Mariano Fresta)

Caserta, appartamenti della Reggia (ph. Mariano Fresta)

La città dei militari e di padre Pio

Caserta come città è nata da poco e ha avuto parecchie vicissitudini amministrative: prima capoluogo di provincia, poi durante il fascismo è dipesa da Napoli mentre il suo territorio fatto a pezzi era amministrato dai capoluoghi di provincia contermini; infine è tornata capoluogo di provincia dopo il Secondo conflitto mondiale. La città si è venuta formando a partire dall’Ottocento con l’accorpamento di una ventina di villaggi originari oggi divenuti quartieri e rioni del centro principale che ha come punto di riferimento la Reggia borbonica. Furono proprio i Borboni a scegliere il luogo non solo come sede della loro villeggiatura ma anche delle forze armate, perché il territorio, abbastanza lontano dal mare, offriva una buona difesa da eventuali attacchi nemici.

La città, dunque, è stata formata oltre che dagli abitanti dei villaggi esistenti, dalle famiglie dei militari che abitavano in prossimità delle numerose caserme. Così, camminando per le vie del centro e delle periferie, visto che ancora oggi è sede molto importante di strutture militari, frequentemente ci si imbatte in cartelli gialli che avvisano: “zona militare, limite invalicabile”.  E spesso, i cartelli segnalano edifici non più utilizzati, cadenti; non solo ex caserme, ma anche opifici come quello della fabbrica di calzature militari, oppure immensi spazi, appartenenti all’Istituto del Sostentamento del Clero ma per quasi un secolo usati dall’Esercito italiano come Magazzino Centrale Ricambi Corazzati (Macrico) e centro di addestramento di carristi. Si tratta di ben 34 ettari di terreno, abbandonati nel 1984 e diventati, oltre che deposito di rifiuti tossici come l’amianto, tema di estenuanti discussioni accademiche sulla loro riutilizzazione.

Accanto ai segnali che indicano gli edifici adibiti ad uffici e caserme militari, l’altra presenza diffusa è quella delle immagini, cartacee o lapidee, di padre Pio, proclamato santo nel 2002; ma ben prima della sua canonizzazione il rude frate di Pietrelcina a Caserta aveva conquistato chiese, piazze, rioni, strade, negozi, bar, ristoranti, cortili e case di privati. Pascale nel suo libro dedica molte pagine al culto del frate e ai luoghi più disparati in cui inaspettatamente si incontra la sua icona. Se c’è un luogo in cui è possibile constatare come si manifestano in modo pervasivo l’idolatria e la superstizione, questo è Caserta.

Caserta, Reggia e Parco (ph. Mariano Fresta)

Caserta, Reggia e Parco, foto aerea  (ph. Mariano Fresta)

La città delle eccellenze

Caserta è, però, anche la città delle eccellenze: non solo quella della mozzarella di bufala, che insieme con la pizza napoletana costituisce un connubio gastronomico famoso ormai in tutto il mondo, ma anche quella di grandiosi manufatti che la storia ci ha lasciato in eredità. Per questo aspetto la città ha un enorme debito di riconoscenza nei riguardi del re Carlo di Borbone, diventato successivamente più noto come Carlo III re di Spagna, il quale, da persona intelligente e ambiziosa, incline ad ascoltare i grandi intellettuali dell’Illuminismo napoletano, volle gareggiare con gli altri sovrani europei del suo tempo per dare lustro al suo regno. Fa progettare quindi a Luigi Vanvitelli una Reggia che possa confrontarsi con quella di Versailles, ma più elegante perché più sobria, cui sono legate altre opere tecniche molto impegnative come la cascata artificiale nel Parco, le cui acque arrivano, dal monte Taburno, dopo circa 40 km di acquedotto che supera, per mezzo di un ponte a quattro arcate sovrapposte in stile neoclassico, la vallata di Maddaloni. Opere immense e di grande bellezza, come l’altra reggia di Carditello, che per molti anni sono state lasciate all’incuria e al vandalismo. Tanto per dire, fino a qualche decennio fa il Parco della Reggia era aperto a tutti e il Lunedì dell’Angelo cittadini anche dei paesi limitrofi vi venivano a fare il picnic; un’ala della Reggia, poi, è stata adibita fino a qualche anno fa come sede dell’aviazione militare, mentre quella di Carditello è stata più volte depredata e offesa, fino a quando è stata salvata, prima, da un volontario che con la sua custodia ha tenuto lontano ladri e vandali, e poi  dal ministro Bray che l’ha fatta ricomprare per una seconda volta allo Stato.

La Reggia casertana è tra i primi dieci monumenti in Italia per numero di visitatori annui: ben 845 mila nel 2018 e 728 mila nel 2019; con la pandemia del 2021 esso è sceso del 60% rispetto agli anni precedenti, mentre attualmente è di nuovo in ripresa. La nomina, qualche anno fa, di un manager bolognese è stata determinante per rimettere in sesto la situazione finanziaria dell’Ente e per ricostituire l’efficienza lavorativa di impiegati e di operai che, in un primo momento, erano scesi addirittura in sciopero perché l’amministratore lavorava troppo: avevano scoperto dalle luci accese che rimaneva in ufficio fino a tarda sera. Evidentemente, per loro, si trattava di un modello negativo, da non imitare.

Caserta, San Leucio, Filatoio (ph. Mariano Fresta)

Caserta, San Leucio, Filatoio del Setificio  (ph. Mariano Fresta)

L’altra eccellenza storico-artistica è la “reale colonia di San Leucio” dovuta al re Ferdinando IV, figlio di Carlo ma, rispetto a questi, di ben altra tempra culturale. Era così allergico alla scrittura che invece di firmare i documenti preferiva apporvi un timbro; era semianalfabeta, gli piaceva la vita spensierata, aveva in uggia i doveri dello Stato. Fu fortunato, però, perché dal padre aveva ereditato un bel gruppo di intellettuali illuministi, capeggiati dal suo primo ministro il toscano Tanucci. La “colonia di San Leucio” è, infatti, la realizzazione illuministica della città ideale che avrebbe dovuto chiamarsi Ferdinandopoli; dietro questa città utopistica ci sono però le idee di Bernardo Tanucci e di Gaetano Filangieri che redasse, o forse suggerì soltanto, le norme che regolavano la vita della colonia; il re, ovviamente, si sarebbe accontentato di dare il suo nome alla colonia. In questa c’erano, oltre al palazzo regale e alla chiesa, gli impianti di un setificio, i cui macchinari erano mossi dalle stesse acque destinate alla cascata della Reggia, le case di abitazione dei lavoranti presso le seterie e le altre attività, la scuola elementare, obbligatoria dai sei anni in poi. Gli operai non potevano essere licenziati ma se si dimettevano non potevano essere più riassunti. C’erano pari diritti fra uomini e donne, i minori avevano un orario ridotto di lavoro rispetto agli adulti, le ragazze erano libere di sposarsi con chi volevano se erano maggiorenni (20 anni), il re stesso provvedeva a fornir loro la dote necessaria. Non durò molto; tra l’altro, dopo il 1861, i Savoia e i loro ministri appaltarono tutto ai privati [2].

I casertani di questi monumenti si gloriano, sono felici nell’apprendere delle centinaia di migliaia di visitatori che ne sono attirati ogni anno, ma li usano soltanto come fiore all’occhiello e se ne vantano come ne fossero stati loro gli ideatori e i costruttori.  Insomma, come diceva Gramsci dei Fiorentini del primo Novecento, essi vivono della boria dei secoli passati. E difatti la nostalgia del regno delle due Sicilie è abbastanza forte, come testimoniano le varie associazioni neoborboniche, le insegne di bar e ristoranti dedicate al Re Nasone, alla Camicia del Re, nonché una certa antipatia nei confronti dei Savoia e di Garibaldi.                                                                                                                     

Teatro di Caserta, Leo Gulotta

Teatro di Caserta, Leo Gulotta

La città della cultura

Le associazioni culturali

Per la cultura i Casertani si danno molto da fare, non passa giorno, quasi, che non ci sia una conferenza, la presentazione di un libro, un incontro con qualche personaggio illustre. Sono decine le associazioni che si dedicano ad attività culturali di vario tipo; ma il problema è, stavolta per davvero, un altro, perché il livello di ogni manifestazione non brilla quasi mai per originalità o profondità dei contenuti e soprattutto ad ogni incontro non si contano più di venti persone che non sono mai le stesse, il che significa che ogni associazione ha i suoi simpatizzanti che non partecipano alle attività delle altre. Non c’è nessun gruppo che fa attività culturale che si proponga come guida, ma tutti, silenziosamente si disinteressano di cosa fanno gli altri, convinti di essere egemoni mentre in realtà dovrebbero dire basta a questo andazzo e voltare pagina per mettersi d’accordo fra di loro, discutere e trovare soluzioni con l’Amministrazione comunale, con la Biblioteca civica, con la Fondazione della Reggia.

Lo stesso fenomeno accade anche per le attività teatrali: in città ci sono diversi gruppi che praticano l’arte drammatica con tante buone intenzioni artistiche e con qualche insufficienza di organizzazione a livello generale. Qualche tempo fa l‘attore Leo Gullotta, venuto a Caserta per esibirsi in un’opera di Pirandello, prima dello spettacolo serale, organizzò un incontro pubblico per una discussione sul dramma che avrebbe recitato. Venne tanta gente a sentirlo, fra cui molte persone giovani impegnate in diverse compagnie teatrali casertane. Gullotta si complimentò con questi giovani per la loro scelta culturale e poi chiese: «Vedo che siete diversi gruppi, ma fra voi vi incontrate? Discutete su quello che fate?  Vi confrontate?». Silenzio. Questi giovani, all’apparenza così impegnati, non si erano mai incontrati e a nessuno di loro era passato per la testa che, operando nella stessa città e facendo lo stesso lavoro culturale, sarebbe stato opportuno incontrarsi, scambiarsi le esperienze, verificare con gli altri il proprio lavoro, trovare scopi comuni.

A Caserta esistono anche alcuni gruppi di lettura che cercano di tenere viva l’attenzione sulla narrativa e sulla poesia moderne e contemporanee. Il gruppo della poesia è più sparuto ed è formato da persone mature; quello che si dedica alla narrativa vede insieme tanti giovani. Il metodo di presentazione delle opere è però identico; in ogni seduta sono presentati componimenti poetici o racconti: nei gruppi più piccoli tutti leggono un testo, ognuno a piacere, negli altri sono indicati, una settimana prima, i racconti da leggere e chi li deve leggere. Purtroppo, il 90% dei presenti non è abituato alla lettura ad alta voce, così non osserva correttamente la punteggiatura, dà intonazioni errate alle frasi, non sa nulla di metrica, cantilena con monotonia. Alla lettura non segue nessun commento, né sul contenuto né sulla forma; così tutti gli autori si confondono in un nebbioso mormorio. Il settimo centenario della morte di Dante è stato celebrato da un gruppo leggendo, una sera dopo l’altra, i cento canti della Commedia, naturalmente senza nessuna presentazione, senza nessun commento, in puro stile naïf.

Il patrimonio bibliografico

Prima dello scoppio della pandemia, mi ero recato alla Biblioteca comunale per rendermi conto della consistenza e della qualità del patrimonio relativo agli aspetti storici e demologici del territorio; dopo una settimana intera di ricerca nello schedario cartaceo e in quel poco che c’era di quello digitale, avevo preso soltanto due paginette di appunti, perché, tranne poche eccezioni, tutti i libri di qualche interesse erano obsoleti, i più recenti risalivano agli anni ’50 del secolo scorso. Ovviamente non posso dire che la situazione fosse la stessa per tutte le discipline, ma, nonostante mi fossi limitato a cercare opere riguardanti i campi che conosco meglio, l’impressione che ne ricavai fu quella di un’istituzione vecchia trasandata e negletta. Anche nelle sale di consultazione mancavano molti testi importanti, soprattutto di storia; rare le riviste e quelle presenti, non acquisite ma mandate in dono da Enti pubblici ed Editori, erano vecchie e polverose. L’unica cosa positiva era il gran numero di studenti (tutti universitari e pendolari) che approfittavano dei tavoli e dei termosifoni per studiare: credo che sia questa la seconda positività della biblioteca comunale; la prima è quella di dare uno stipendio a persone che lì non sanno e non hanno cosa fare. Sono proprio le tante insufficienze bibliografiche che tengono lontano studiosi e ricercatori da qualsiasi tipo di consultazione; gli studenti hanno i loro libri e i loro computer, non hanno bisogno che la Biblioteca fornisca loro dei testi.

Il patrimonio librario, quindi, avrebbe bisogno urgente di essere rinnovato e soprattutto arricchito di nuovi e sostanziosi acquisti; ma il Comune è in dissesto finanziario tanto che non riesce a eliminare le buche delle strade cittadine, figuriamoci, visto che con la cultura non si mangia, se si spendono soldi per comprare libri. Sui giornali e sui social locali spesso c’è qualcuno che fa l’elogio della ricchezza del patrimonio bibliografico casertano; in effetti i libri sono tanti ma è difficile trovarne di quelli stampati dopo il 1960. L’elogio del patrimonio librario e dell’Archivio Storico, chiuso da anni, appare dunque come un’esibizione retorica e vanagloriosa. 

settembre-al-borgo-49L’intervento del Comune 

Da qualche anno l’intervento del Comune nel settore della cultura è quasi del tutto assente e non solo nel settore bibliografico; esso si limita alla programmazione di una stagione teatrale e di qualche iniziativa in collaborazione con la Regione. Fino a qualche anno fa era in attività il festival “Settembre al Borgo”, così chiamato perché si svolgeva nel centro antico di Caserta Vecchia, a circa dieci chilometri dalla città moderna. Qui c’era la possibilità di seguire alcuni concerti di musica sinfonica in alternanza con spettacoli di musica popolare e qualche volta di teatro. Insieme con la rassegna della “Leuciana”, con sede a San Leucio, quella del Borgo garantiva serate estive degne di qualche attenzione. Attualmente è in programmazione “Un’estate da Re” (il borbonismo è sempre presente quando si vuole dare lustro a qualcosa), con l’aiuto fondamentale della Regione, che prevede alcuni spettacoli estivi di musica classica (due anni fa l’Orchestra di Santa Cecilia diretta da Antonio Pappano; l’anno scorso, l’orchestra del San Carlo diretta da Zubin Mehta e il pianista Stefano Bollani).

Nel settore musicale opera un’associazione privata che, con un’orchestra composta da una ventina di elementi, dà vita ad una buona stagione di concerti sotto il titolo di Autunno Musicale; dato l’organico ridotto, è eseguita esclusivamente musica del Seicento e del Settecento, cui partecipano giovani solisti di tutto il mondo con esibizioni di notevole interesse. La stagione del Teatro comunale si compone di una quindicina di spettacoli l’anno, suddivisi nelle tre categorie di Grande Teatro, Contemporanei e Tradizione e Comicità (ovverosia, il teatro dialettale napoletano): non pare che essa promuova dibattiti o curiosità culturale a livello cittadino, così come anche l’attività di tutti i gruppi teatrali presenti in città. È però l’unica iniziativa culturale di qualche spessore promossa dal Comune. 

59607_312891808824496_1345756825_nLa stampa

Chi legge i giornali a Caserta in genere compra Il Mattino di Napoli che contiene l’inserto dedicato alla città. Lo accompagnavano fino a qualche anno fa alcuni quotidiani locali che si facevano notare, come scrive Pascale, per i titoloni di prima pagina con cui “strillavano” certi fattacci di cronaca camorristica anziché “analizzarli”. Oggi quei quotidiani sono scomparsi dalle edicole (la camorra forse ne può fare a meno) e sono stati sostituiti da alcuni giornali on-line che si limitano a dare qualche notizia di cronaca e a passare qualche velina degli Enti amministrativi. A parte le pagine riservate ai fatti nazionali e internazionali, il quotidiano principale svolge il servizio di cronaca di tutta la provincia. Chi vuole approfondire i temi importanti del giorno deve ricorrere alla stampa nazionale. Una curiosità: inutile cercare nelle edicole cittadine Il Manifesto, perché a Caserta ne arriva una sola copia, in un’edicola un po’ fuori mano.

Esiste anche un settimanale dal titolo illuministico, Il Caffè. È in carta patinata, ha molte foto, è ben impaginato e chi vi scrive tiene bene la penna in mano. Se si parte dal presupposto di Mark Twain secondo il quale un giornale deve essere per una città come la tromba dell’Apocalisse che sveglia i morti, bene il Caffè è semmai la tromba che invita al silenzio. La redazione, infatti, è composta da una quindicina di persone colte, garbate, equilibrate nei giudizi, ispirate da idee moderate di giustizia e di democrazia che però hanno deciso di non graffiare nessuno, di non criticare nemmeno benevolmente le malefatte pubbliche, di tollerare con pazienza da Giobbe il clima di disinteresse civico, uscendosene, dopo qualche dibattito o qualche critica più aspra con la fatalistica espressione: «Tant’è, siamo a Caserta». Non fanno mai riunioni di redazione, perché sanno ormai a memoria i temi, sempre gli stessi, che trattano da un ventennio. Anche loro celebrano le eccellenze borboniche ma senza indicare come esse possano giovare culturalmente alla città inserendole nel contesto odierno. Il periodico forse avrà un centinaio di lettori che, insieme con i redattori, sembrano autocompiacersi delle belle cose che vi sono scritte. 

La città della salute 

Sono circa venti anni e forse più che a Caserta si parla del nuovo ospedale, anzi del Policlinico, che è sempre in costruzione, un cantiere senza fine. Tutti lo considerano come lo strumento che possa mettere fine alle deficienze delle strutture sanitarie esistenti. Ma anche stavolta è vero che «il problema è un altro», perché, come altrove, l’ospedale esistente è stato centro di corruzione e campo di sfruttamento della camorra. E difatti qualche anno fa tutto il suo Consiglio di amministrazione finì in un’indagine giudiziaria.

Sono stato purtroppo ospite per un mese di questo ospedale dove ho assistito a scene che poco hanno a che fare con una struttura che dovrebbe avere soprattutto cura della massima igiene: è vero che chi entra sano in qualsiasi ospedale ha molte probabilità di uscirne infettato, ma prendere due dei batteri più pericolosi e sentirsi dire che la febbre sarebbe andata via appena avrei messo piedi a terra è roba che non può essere accettata. Eppure Caserta ha dato alla sanità fior di specialisti in tutti i campi della medicina, qualcuno dei quali è rimasto a lavorare in città, molti invece lavorano nelle cliniche di altre regioni.

Poiché la situazione della sanità pubblica casertana è stata e continua ad essere in difficoltà, così è naturale che si moltiplichino i centri medico-diagnostici privati, con medici specialisti che svolgono anche piccole attività chirurgiche. Caserta ha 80 mila abitanti circa e di questi centri ce n’è uno ogni diecimila. Spesso questi centri sono convenzionati con il Servizio sanitario nazionale, ma siccome in Campania capita frequentemente che la Regione non ha più soldi da spendere per la sanità pubblica, ecco che occorre pagare non solo il ticket ma anche l’intera prestazione. In cambio le liste d’attesa per avere il servizio sono meno lunghe di quelle della Asl. 

La città del traffico

I Casertani amano stare all’aperto, come si può vedere dai tavoli e dalle sedie sistemate davanti ai bar anche d’inverno; così è loro abitudine, nelle sere della buona stagione, riempire i marciapiedi di corso Trieste, dove passeggiano gruppi di ragazzi e ragazze, giovani famiglie con bambini e carrozzine, persone attempate che avanzano lentamente. Tra i due marciapiedi anche la via è affollata, ma di automobili in movimento: è un flusso continuo, come se fossero migliaia di veicoli ed invece sono solo qualche centinaio che sembrano molti di più, perché, arrivati alla fine del corso, chi li guida si immette nella strada parallela e torna indietro per riprendere, all’incrocio opposto, il corso principale. Come sul marciapiede si fa lo “struscio” pedonale, così sulla sede stradale si esegue quello automobilistico: sui veicoli, con i finestrini aperti, siedono sorridenti e vocianti i ragazzi delle periferie e dei paesi limitrofi che vengono a prendere possesso del centro cittadino.

Noi Italiani, si sa, non possiamo fare a meno dell’auto, anche per andare a comprare le sigarette, ma credo che nessuno più dei Casertani sia così visceralmente legato alla quattro ruote: non la lasciano per nessun motivo, la vogliono sempre accanto a sé.  Per questo la macchina, a Caserta, si parcheggia non solo negli spazi consentiti, ma soprattutto a qualche metro del luogo in cui si va, anche a costo di posteggiarla sul marciapiede, o al centro di un incrocio, o di traverso della strada, male che vada in duplice o triplice fila.

E poi le biciclette, le motorette e adesso i monopattini elettrici: si vedono sbucare da tutte le parti, improvvisamente; per loro non ci sono differenze tra strada e marciapiede, tra sensi unici e senso di marcia, si avventurano per le vie come cavalli allo stato brado: i loro piloti sembrano sicuri che il codice della strada non li riguardi affatto. A Caserta il diritto di precedenza non è regolato da norme, ma è di chi se lo prende, spesso con prepotenza. A nessuno viene in mente che guidare senza intonare gli assordanti concerti dei clacson, che avvengono quando si forma un ingorgo a causa di un’auto parcheggiata sconsideratamente o perché c’è un passaggio a livello chiuso, significa rispettare il luogo in cui si vive, significa essere civili nei confronti dei concittadini, significa, per senso di appartenenza, rendere più vivibile la città in cui si abita.

Per le strade della città, per i suoi quartieri, per i piccoli spazi di verde non c’è rispetto: in occasione delle elezioni amministrative il suolo delle vie e dei marciapiedi è coperto di bigliettini e di volantini propagandistici che i galoppini lasciano cadere come fossero coriandoli di carnevale; le ditte delle pulizie condominiali, alla fine del loro lavoro, anziché buttarle nei tombini, spargono l’acqua sporca e la saponata sui marciapiedi incuranti dei danni che potrebbero procurare ai pedoni; se qualche volenteroso (i netturbini si vedono poco, come i vigili urbani del resto) spazza dal marciapiede le foglie degli alberi non trova di meglio che riversarle sulla sede stradale. Dal tempo in cui le strade erano percorse dalle cavalcature e fungevano anche da fognature sembra che sia passato solo qualche minuto e non più di un secolo e mezzo, almeno.

Il Tortano

Il Tortano

La città a tavola

Nonostante le caserme, l’ambiente casertano è rimasto quello contadino, legato alla coltivazione della canapa, fino a qualche decennio fa, e alla produzione di ortaggi e di frutta. Tutta la città è circondata da campi coltivati: i rioni, cioè gli antichi villaggi, che sono più lontani dal centro cittadino, sono ancora caratterizzati da un sistema economico prettamente agricolo e molti dei loro ex abitanti, trasferitisi in città, periodicamente vi tornano per lavorare l’orto e per rifornirsi di frutta e verdura. In fondo, Caserta è situata nella cosiddetta Terra di lavoro o, come era chiamata dagli antichi Romani Campania felix, e in tale contesto è rimasta.

Fino ai primi dell’Ottocento, quando fu inventata la “pasta secca” e nello stesso tempo la salsa di pomodoro diventò il condimento per eccellenza, i Campani erano conosciuti come grandi mangiatori di “foglia”, cioè di verdura (in genere foglie di varie specie di cavoli): lo storico Emilio Sereni racconta, nel suo saggio sulla nascita degli spaghetti, che ogni mattina, all’alba, arrivavano nei mercati napoletani centinaia e centinaia di carri carichi di “foglia” [3]. Era un’alimentazione di sussistenza, poverissima, che serviva solo a riempire gli stomaci e a lenire i morsi della fame. Non meraviglia quindi se nelle grandi occasioni, come il Natale [4], la gente cercava di recuperare. Ed ecco i grandi piatti pantagruelici in cui la quantità sopravanza di molto la qualità del cibo e che oggi fanno parte della tradizione gastronomica campana.

Gli ingredienti, infatti, fanno sempre parte dei prodotti poveri e di quelli di scarto: verdure insieme con parti poco nobili delle carni animali. In breve, le ricette prescrivono non di scegliere ed accostare opportunamente, ma di aggiungere, di accumulare. Alla fine l’amalgama è il risultato di una lunga cottura anziché di un oculato dosaggio degli ingredienti e della loro complementarietà. Un esempio di queste pietanze è il tortano, servito spesso come antipasto o merenda: si tratta di una rustica focaccia di farina impastata con lo strutto e fatta lievitare, a cui si aggiungono pezzi di provolone ed emmental, dadi di salame e di mortadella, prosciutto cotto e pancetta; ed infine uova sode. Una buona fetta di tortano potrebbe bastare per un pranzo, ma non viene mai presentata da sola.

E poi c’è la famosa “minestra maritata”. Uno sposalizio piuttosto bizzarro, da stomaci e gusto di ferro. Per farla occorrono almeno sette tipi di verdure (broccoli, “menesta”, cicoria, scarola, borragine, verza e “torzelle”), a cui si aggiungono pezzi di carni di bassa qualità, come la coperta di costata di vitello, e poi tracchie (le costine di maiale vicine al collo), cotiche, orecchie, guanciale di maiale; e poi un pollo fatto a pezzi, un osso di prosciutto, qualche salsiccia di polmone e soprattutto la “nnoglia”, una specie di salame in cui al posto d’onore stanno i testicoli del suino, insieme con i lardelli e la trippa aromatizzata con aglio e semi di finocchio. La “nnoglia”, quasi inutile dirlo, può essere apprezzata da chi con essa ha lunga dimestichezza. In altre regioni ci sono piatti simili, come la scottiglia della Toscana e la cassoeula della Lombardia, ma la minestra maritata ha ingredienti che esigono gusti educati a quei sapori.

I banchetti nuziali di per sé costituiscono uno dei momenti cruciali di un rito di passaggio che è solennemente celebrato ovunque, ma ultimamente a Caserta e in quasi tutta la Campania assume aspetti particolari, ogni banchetto nuziale pretendendo di essere molto diverso dagli altri ed aspirando ad essere di tono principesco. Essi si svolgono in ristoranti che hanno ampi giardini e, per i giorni freddi o piovosi, vasti saloni; spesso gli invitati devono spostarsi da una locazione all’altra perché aperitivi e antipasti sono consumati in ambienti diversi da quelli in cui sono serviti i piatti importanti. Si tratta di uno stile conviviale che forse una volta era proprio della nobiltà, ma più recentemente sono state le famiglie in odore di camorra a introdurre pratiche più congeniali ad esibire il lusso e il potere. In genere gli invitati arrivano nel luogo del banchetto verso le 13; gli sposi, che intanto sono andati a fare le fotografie e il video che immortalano il giorno delle nozze, approderanno al ristorante verso le 14 e solo allora comincerà la distribuzione degli aperitivi e degli antipasti. Le portate successive si susseguono ad intervalli di un’ora una dall’altra, fino a sera, quando dopo i brindisi finali il buio consentirà di chiudere la festa con i fuochi artificiali. 

Caserta, il vescovo Nogaro

Caserta, il vescovo Nogaro e i senegalesi

La città del Vescovo 

Il 19 dicembre del 1990 Monsignor Raffaele Nogaro si insediò come Vescovo nella Diocesi di Caserta. Negli otto anni precedenti aveva guidato quella di Sessa Aurunca non senza aver scandalizzato i cattolici di quella zona, prima passando una notte di Natale insieme con gli operai in una fabbrica occupata e minacciata di chiusura, e poi contrastando il modo con cui la Democrazia Cristiana locale gestiva la cosa pubblica. I Casertani, abituati ad un clero diventato “professionista della religione”, probabilmente si aspettavano qualche cambiamento, ma l’ex parroco di Udine andò oltre ogni aspettativa cominciando a prendere provvedimenti poco graditi al popolo dei credenti, come quelli che ridimensionarono certi aspetti superstiziosi e mondani delle feste patronali nonché quelli di battesimi e cresime diventati solo ostentazioni di lusso.

Il parroco friulano, sotto l’aspetto mite del prete campagnolo, aveva una forza e una tenacia che gli veniva da una lettura “ingenua” del Vangelo, dove i poveri avevano il ruolo di protagonisti assoluti. Il Vescovo non fece altro che cercare di applicare le parole del Vangelo alla realtà casertana, ma in questo modo capovolse l’antica tradizione religiosa, mettendo al primo posto i bisogni dei più deboli e relegando in seconda fila la Chiesa dell’ufficialità e della cooperazione con il potere politico ed economico.

Gli “scandali” provocati dall’azione di Nogaro toccarono subito buona parte del clero, scombussolarono l’idea che della religione avevano i maggiorenti e i benpensanti che da tempo esercitavano una forte egemonia sulle classi popolari. Tra le prime novità ci fu il dialogo con tutti i partiti, compreso il PCI di allora; e poi l’invito a svolgere conferenze su vari temi, dalla religione alla storia all’economia, a personaggi di spessore nazionale a prescindere dalla loro posizione ideologica. Una notevole novità fu quella di andare a dialogare con i responsabili delle attività industriali che si insediavano nel territorio per perorare la causa dei disoccupati ma anche, insieme con i sindacati, per difendere le condizioni di lavoro degli operai.

Erano quelli gli anni in cui cominciavano ad arrivare in Terra di lavoro migliaia di extracomunitari che venivano sfruttati per la raccolta dei pomodori e per altri lavori agricoli: insieme con il Centro sociale, stabilitosi nell’ex canapificio, che a quei tempi era inviso ai politici e alla società di Caserta, ne prese le difese, partecipando alla marcia di Villa Literno del 1992 e si preoccupò della loro accoglienza tanto da meritarsi il titolo di “Vescovo dei Senegalesi”. Dall’Africa arrivavano anche tante ragazze che finivano sfruttate come prostitute: Nogaro chiamò a Caserta una suora delle Orsoline con la quale fondò la Casa di Rut che dette lavoro e protezione a quelle ragazze; contemporaneamente aiutò un gruppo di Rom ai cui figli era impedito di frequentare la scuola in quanto zingari.

Nogaro prese iniziative audaci come quella di dar vita ad un gruppo in cui cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, bahai e buddisti (anche questi due ultimi presenti a Caserta) dibattevano temi su come salvaguardare la pace e per richiamare l’opinione pubblica sulla grande questione della fratellanza umana organizzarono una marcia annuale. In nome della pace ebbe il coraggio di prendere posizioni contro l’esaltazione dell’eroismo dei soldati italiani uccisi a Nassiriya.

Dopo diciotto anni, giunto all’età canonica, Nogaro lasciò la guida della Diocesi ritirandosi in un piccolo appartamento al centro della città. Molte delle sue iniziative sono ancora attive, come la Tenda di Abramo, una mensa per i senzatetto; e viva è ancora nella memoria collettiva la sua lotta contro la camorra, la cui ferocia si manifestò proprio nel primo biennio del suo vescovato con ben ventisette omicidi, e la sua battaglia per la difesa dell’ambiente e per una gestione diversa dei rifiuti urbani, quando le strade della città erano letteralmente coperte dalla spazzatura [5].

Oggi, dopo più di un decennio dalla fine della sua missione, dobbiamo constatare che del significato rivoluzionario delle sue opere, oltre alla permanenza materiale di alcune attività, ben poco è rimasto. La presenza di Nogaro a Caserta sembrava (e sembra ancora nel 2022) che dovesse essere d’esempio per una religiosità e per un’amministrazione politica più vicina ai bisogni della gente, che dovesse far crescere la coscienza collettiva della comunità, quasi come il lievito che trasforma la farina e l’acqua in pane. Ma, per restare nel campo ecclesiastico, forse aveva ragione Giovanni XXIII quando diceva che gli gnocchi si fanno con la pasta che si ha. 

Caserta, Reggia e Peschiera (ph. Mariano Fresta)

Caserta, Reggia e Peschiera (ph. Mariano Fresta)

Conclusioni 

Come si è visto, i Casertani sono piuttosto lontani dal costituire una cittadinanza consapevole e tanto meno una comunità, perché quel senso dell’appartenenza, che pur minimamente c’è, è spesso sopraffatto da comportamenti individualistici che si situano tra l’atteggiamento anarcoide e quello qualunquista [6]. Uno dei motivi per cui non si è creata nella città quella coesione e quella solidarietà morale e intellettuale può essere il fatto che la città è ancora giovane, non ha una storia lunga e complessa alle spalle, e, inoltre, perché le diverse immigrazioni non sono riuscite ad abbandonare le loro antiche identità e ad integrarle con quelle dei vecchi concittadini.

Un’altra causa sta probabilmente nella presenza della camorra, la cui mentalità, basata sulla legge del più forte, si è diffusa inconsciamente anche presso le persone lontanissime da comportamenti di devianza sociale, contagiando tutti i ceti e tutti i livelli di cultura. Non si capirebbe altrimenti perché, oltre i non pochi commercianti, persone acculturate e operanti in settori in cui è richiesta una forte specializzazione professionale non riescano a capire che l’evasione fiscale è sì un reato, ma è in primo luogo mancanza di solidarietà verso i propri concittadini e poi nei confronti dei connazionali. Chi ha studiato dovrebbe avere questa consapevolezza. La quale, tuttavia, manca anche a quelli il cui lavoro da intellettuali non permette di incassare, al nero, centinaia di euro ad ogni giornata impiegata nella libera professione.

Di questa mentalità egocentrica e di questa indifferenza sociale si è occupato Sergio Carriero che ha definito Caserta «città povera di capitale sociale» [7]; per lo studioso il Capitale Sociale  è «quel  mix di fiducia, senso di responsabilità, verso gli altri e verso le istituzioni, solidarietà e partecipazione», che dovrebbe essere «una risorsa collettiva, indivisibile». Mi pare che questo giudizio collimi in buona parte con la descrizione da me fatta nelle pagine precedenti. A questo bisogna aggiungere un altro elemento ereditato probabilmente da secoli di subalternità e di miseria e che è la cazzimme, un termine quasi intraducibile e che può essere reso in parte dalla parola italiana furbizia. Nella quarta di copertina del romanzo di Stefano Crupi, intitolato per l’appunto Cazzimma [8], il concetto viene così definito: «Se vuoi imparare a campare, ti devi fare furbo, devi essere cattivo. Funziona così, è così in tutto il mondo: devi tenere cazzimma, ma tenerne assai». Ecco, essere furbo, essere anche un po’ cattivo e disinteressarsi degli altri sono componenti importanti del carattere e della cultura de Casertani.

downloadGli intellettuali a Caserta vengono osannati e riconosciuti dopo che sono diventati importanti e famosi a livello nazionale e non abitano più nella città. Spesso sono nomi di spicco come l’attore Toni Servillo, il musicista Mario Tronco (quello degli Avion Travel e dell’orchestra di Piazza Vittorio di Roma), la soprano Rosa Feola, lo scrittore di cinema Francesco Piccolo, l’anglista Tommaso Pisanti, il regista Edoardo De Angelis e l’ampia schiera di medici specialisti in tanti settori che lavorano nelle cliniche di tutta Italia. Nessuno si chiede perché tutte queste persone sono andate via da Caserta … In città il loro ruolo si limita a quello di essere ricordati come eccellenze, come fiori all’occhiello. Per paradosso chi è rimasto, pretendendo di essere dello stesso livello di quelli andati via, si agita, mette in piedi associazioni di vario tipo, organizza attività culturali, ma non riesce, per il livello di conformismo e di inconsapevole provincialismo del loro lavoro, ad andare al di là di un certo decoro che non incide nella società.

Manca a Caserta una classe dirigente capace di elaborare un progetto credibile e condivisibile da tutti e che a tutti dia una parte, anche se piccola, da protagonista; un progetto che superi gli egoismi di singoli e di associazioni, che sappia dare una finalità omogenea ed unitaria agli sforzi di tutti. Che sia soprattutto un progetto mirato a costruire “appartenenza”, affinché i Casertani imparino, pur distinguendosi dagli altri, a curare la loro città.

I Casertani hanno pure bisogno di acquisire una capacità critica per distinguere le cose e per dare ad esse il giusto valore; devono liberarsi di quella superficialità con cui guardano la realtà: essi, infatti, hanno sempre la stessa risposta, sia se perdono un’occasione buona, sia che si trovino costretti ad accettarne una cattiva: jà, va bbuò (sì, va bene), che è sintomo di un antico fatalismo che blocca tutto.

Una classe dirigente, tuttavia, esige che ci siano uomini politici credibili, che dimostrino di voler realizzare gli interessi della cittadinanza e non i propri o quelli del gruppo che rappresentano. Fino a qualche anno fa il Comune è stato amministrato da uomini accusati di essere collusi con la criminalità, è stato depredato e costretto al dissesto finanziario; così se oggi c’è qualche persona volenterosa che vuole agire nell’interesse della comunità, essa si trova quasi nell’impossibilità di farlo per mancanza delle risorse finanziarie.

La ripresa economica sociale e culturale della città non dipende solo, tuttavia, dalla mancanza delle risorse, perché ci vogliono soprattutto idee, innovative e coraggiose. Per questo, accanto ai politici onesti e creativi, ci vogliono gli intellettuali, non quelli che si illanguidiscono leggendo La vispa Teresa, ma quelli che sanno diagnosticare i mali di Caserta e sappiano come inquadrare e risolvere i suoi problemi in un contesto culturale più ampio, di respiro nazionale ed europeo.

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
[*] Questo lavoro non nasce da un progetto pensato a tavolino, esso è venuto alla luce quasi autogenerandosi, su un terreno che è quello del vissuto quotidiano, dissodato e lavorato dai continui contatti non programmati con le associazioni culturali, con la stampa locale, con intellettuali singoli, con la gente comune. Non ci sono, pertanto, a sorreggerlo e a corroborarlo né inchieste, né interviste; sono solo considerazioni di una persona curiosa che vuole capire perché gli abitanti di una città vadano incontro alla vita diversamente da come è affrontata altrove. Voglio qui ringraziare il prof. Sergio Carriero per avermi fornito del materiale documentario, per aver discusso il lavoro e per avermi dato qualche utile suggerimento. 
Note 
[1] A. Pascale, Ritorno alla città distratta, Einaudi, Torino 2009.
[2] Del neoborbonismo casertano e campano si veda il mio contributo Il Neoborbonismo.  Memoria divisa o mistificazione? , in Dialoghi Mediterranei, n. 36, 1 marzo 2019.
[3] Si veda E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, Einaudi, Torino 1981.
[4] In genere nelle sere di vigilia delle feste si usa o digiunare o cenare molto sobriamente, sia per tradizione religiosa sia perché coscienti del ricco pranzo del giorno dopo; a Caserta e nel napoletano la cena del 24 dicembre è rigorosamente a base di pesce, perché dev’essere di magro, in compenso è molto abbondante. Il menu in genere comprende: numerosi antipasti (alici fritte o marinate, insalata di polpo, pizza di scarole – con ripieno di olive, acciughe, uvetta e pinoli); seguono poi gli spaghetti alle vongole, l’orata all’acqua pazza, il baccalà fritto, e come contorni le pappacelle (particolari peperoni sottaceto) e l’insalata di rinforzo. Infine dolci (gli struffoli) e frutta.
[5] Le notizie su Nogaro Vescovo di Caserta sono state tratte da R. Nogaro, Ero straniero e mi avete accolto. Il Vangelo a Caserta, con Orazio La Rocca, Laterza, Roma-Bari 2009.
[6] A proposito di senso di appartenenza, a volte, in città che si trovano in una situazione paragonabile a quella casertana, basta una squadra di calcio o di basket per dare l’illusione di essere comunità; ma Caserta, a parte gli anni 1980/90, durante i quali la locale squadra di pallacanestro pervenne agli allori nazionali ed europei, attualmente non gode nemmeno di questa fortuna.
[7] S. Carriero, Caserta, una città povera di “Capitale sociale”, «Quaerite», 1/2, Ist. Sup. Scienze Religiose, Caserta 2010.
[8] S. Crupi, Cazzimma, Mondadori, Milano 2014. 
Riferimenti bibliografici 
Carriero Sergio, Caserta, una città povera di “Capitale sociale”, «Quaerite», 1-2. Ist. Studi Religiosi, Caserta 2010.
Cioffi Rosanna (a cura di), Casa di re: un secolo di storia alla Reggia di Caserta, 1752-1860, Skira, 2004.
Crupi Stefano, Cazzimma, Mondadori, Milano 2014.
Ghirelli Antonio, Storia di Napoli, Einaudi, Torino 1992. 
«Il Caffè», settimanale, L’Aperia, Caserta dal 2010 in poi.
Pascale Antonio, Ritorno alla città distratta, Einaudi, Torino 2009.
Patturelli Ferdinando (a cura di), Caserta e San Leucio, (Napoli, 1826), Ediz. Pacifico Libri, Caserta 2007.
Pistilli Francesco, I villaggi del Carolino, in Caserta prima e dopo il Palazzo, Caserta, 1994. 
Roberti Gabriele, Macrico di Caserta: La storia di un parco che non riesce a veder luce, su hptt/www.caserta.italiani.it, 17 novembre 2017.
Sereni Emilio, Terra nuova e buoi rossi, Einaudi, Torino 1981.

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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadinoLo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici.

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