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Bologna. Appunti su giovani e cultura nel tempo della pandemia
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2021 @ 00:41 In Cultura,Società | No Comments
per non ricominciare
di Lella Di Marco
Con riferimento alle riflessioni e all’appello del prof. Faeta per una proposta collettiva di pensiero nuovo per non ri-cominciare, sono felice che da qualche parte sia arrivata tale voce che comunque se si avvia un lavoro corale potrà condurre a risultati positivi.
Ri-cominciare? Con chi, come, quando? Da dove? Se fossi in vena di scherzare direi da tre… parafrasando Troisi, nel senso che qualcosa è stata prodotta negli anni precedenti il dramma globale che stiamo vivendo, perché i sintomi già si avvertivano e le cause da analizzare e capire sono lontane. Ma il tutto è sempre passato sotto silenzio; neutralizzato, nullificato dal potere e da chi amava tenersi le sue piccole comodità esistenziali. Responsabili inconsapevoli e ignari tutti o quasi?
Quanto mi accingo a scrivere è soltanto una mia posizione, personalissima. Avrei voluto esprimere una positiva realtà bolognese, raccogliere contributi da situazioni diverse tra accademici e operatori culturali e scientifici di altri settori, ma la risposta alla mia richiesta è stato il silenzio o il sottrarsi con un No determinato e critiche all’appello. Un diniego facilmente decifrabile come esigenza di non esporsi, o peggio segno collettivo di depressione intellettuale, in pratica di morte civile. E lo scrivo con rammarico. Bologna sembra una città morta… che vive di ricordi, miti superati, culture obsolete, scelte politiche normalizzatrici, messaggi consolatori e rassicuranti che lasciano prevedere un ri-cominciamento da un usato sicuro, come continuazione dell’agonia in cui versano da qualche anno la vita pubblica e il clima intellettuale della città. I cittadini sembrano essere considerati vuoti a perdere, è scomparsa ogni traccia di esperienze interculturali, di impegno al dialogo interreligioso, direi dell’incontro con l’altro, dell’accoglienza reciproca (forse mai esistita), se pur ci si voleva impegnare per un meticciato culturale.
Partiamo da come si sono mossi la scuola, le amministrazioni regionale e comunale, i sindacati, i centri culturali e giovanili, le biblioteche universitarie, scolastiche, di quartiere. Tutto rigorosamente azzerato mentre sarebbe stato possibile, nel rispetto delle norme di sicurezza, praticare altre scelte. Così gli studenti a casa, con didattica a distanza, spesso in difficile coabitazione nelle case e nei condomini, quando non nel bel mezzo di lacerazioni familiari per motivi diversi, mentre su di loro è stata fatta ricadere la responsabilità di rimanere a casa per proteggere i nonni come soggetti fragili con maggiore rischio di essere contagiati. Tali considerazioni sono già in testi monografici, in rete, in istant book e tanto è emerso dal Nord al Sud della penisola. Ma Bologna avrebbe potuto essere più coraggiosa politicamente, avere maggiore attenzione politica, culturale e umana per le nuove generazioni.
Città “modello” per le sue sperimentazioni da laboratorio cultural/politico, Bologna città interetnica, con migliaia di studenti, Erasmus, specializzandi venuti da altrove molto lontano, soprattutto in alcune Facoltà e all’Accademia delle Belle Arti, considerata la migliore del mondo per l’eccellenza di professori e artisti, per l’innovazione delle tecniche laboratoriali in arti plastiche e pittoriche, per le possibilità esplorative nel campo drammaturgico, della danza, delle espressioni artistiche in genere e della critica semiologica dell’arte. Ecco quella Bologna che in passato sembrava puntare sulle contaminazioni e sulle sperimentazioni, sulla formazione-educazione-specializzazione dei giovani, di colpo pare essere scomparsa, dimenticandosi peraltro dei nuovi cittadini, dei figli dei migranti nati e cresciuti all’ombra delle sue torri.
Bologna non esprime pensiero nuovo né piani di proposte positive. Di vita. Di rigenerazione, ricostruzione, rinnovamento. Bologna di fatto è immobile e vive culturalmente e politicamente di rendita, facendo leva sul suo passato, rilanciando vecchi miti locali. Che magari pensa le diano lustro nel mondo e smorzino eventuali possibili “proteste”.
Ma chi sono i giovani cui vogliamo riferirci? Sono studenti, lavoratori, nativi, di origine migrante di seconda o terza generazione, arrivati con gli scafisti in cerca di rifugio, scampati alle guerre, alla fame, ai disastri ambientali, alle persecuzioni di ogni tipo, alla sfruttamento, all’infelicità e spesso a malattie permanenti, che qui hanno trovato accoglienza, ospitalità, radicamento. Ma tutti sono terrorizzati, tacitati, avviliti. Ricevono attenzione soltanto quando si rendono protagonisti di reati e danno modo alla cronaca nera di riempire le loro pagine, come sciacalli. Non gridano. Non urlano. Non hanno voce. E con loro i giovani nativi.
Relegati nelle case, privi di contatti umani esterni, spesso in famiglie “scoppiate” da mille problemi, dalla salute al lavoro perduto. Vivono tutti/e una sofferenza che si esprime in depressione, somatizzazione, ulteriore isolamento quando non rifugio in psicofarmaci, droghe, alcool o altre forme di dipendenza; dalla rete e dalla celluralizzazione. I giovani lavoratori si ritrovano senza lavoro in cerca di nuova occupazione e magari entrano nella trappola di Amazon o della consegna di pasti a domicilio. Si rompono amicizie, si perdono compagni di studio o di lavoro.
Situazione lievemente più vivace fra i giovani politicizzati, con consapevolezza sulle cause del disastro ambientale, sulla crisi della cultura e dei valori, su come la gestione della pandemia esprima il potere delle multinazionali, su come il mondo del lavoro sia spesso un ulteriore controllo e coercizione delle coscienze, la colonizzazione dell’Io come esproprio di ogni autonomia, fantasia, creatività soggettiva e collettiva. I giovani avveduti fanno analisi scaltrite dell’infelice e poco credibile gestione politica dell’Italia con la consapevolezza che le radici di tale male affondano in politiche lontane ed endemiche. Sono confusi, destabilizzati, non riescono a pensare a un loro futuro, vivendo e consumandosi nella precarietà. Hanno preso coscienza, con la pandemia, che tutto ha una fine se è cominciato. Che nulla è garantito. Ma non riesce a scattare in loro la molla dell’essere essi stessi protagonisti del loro futuro e produttori di un pensiero nuovo, di un antagonismo all’esistente che sa di morte collettiva. Si sentono derubati del presente e del futuro. Del loro corpo, dei sentimenti, dei loro sogni. I più forti evadono dalla clausura forzata, leggendo i testi sacri del pensiero economico e politico o biografie esaltanti. Altri soccombono, attratti da percorsi apparentemente facili per la loro liberazione, scivolando nella malavita o aderendo a gruppi terroristici di matrice islamica, fascista o di ispirazione nazista. Sono recenti in tal senso le perquisizioni, con fermi e arresti in tutta Italia, di organizzazioni di gruppi nazisti. Bologna, del resto non è nuova a tali ritrovamenti da tanto tempo.
Vedo sinceramente, anche, come un pericolo enorme lo scontento di certi giovani islamici: la non risposta ai loro bisogni si traduce in un forte richiamo a rafforzare e imporre la loro identità contro gli infedeli e tutto ciò potrebbe riservarci grosse sorprese in un futuro non molto lontano. Esistono sempre più ai margini della società, gruppi etnici organizzati che li rappresentano, avversi alla cultura occidentale rappresentata come negazione dell’Islam, annullamento possibile di loro stessi. Si esprimono, ancora timidamente, con qualche scritta sui muri della città, ma non con iniziative minoritarie e visibili. Lavorano nell’ombra ma non sono ignoti. E stranamente al loro interno accolgono sia maschi che femmine senza alcuna distinzione di genere. La loro esistenza non è stata contrastata né denunciata da alcuno. Tacita complicità? Paura? Appare soltanto il silenzio che spesso dice più delle parole.
Bologna è stata da sempre una città dalla forte influenza politica e culturale cattolica e oggi tale connubio tra amministrazione pubblica e Chiesa, mai disciolto, è fortissimo e visibile. Cosa sento come nuovo nell’aria? Un acceso dibattito fra teologi, dentro e fuori l’istituzione cattolica. Un revisionismo della Chiesa, a tratti anche in termini interessanti, sul piano del pensiero ma ai margini di quella società soprattutto credente ancorata alla sicurezza consolatoria ed edulcorata della religione e sostenuta dalla gerarchia ecclesiastica che esercita, pur sempre, il suo storico potere. Area culturale in fondo estremamente reazionaria e conservatrice. Di altro, organizzato, non ho conoscenza. Percezioni, le mie, non certo conclusioni. Non intendo ovviamente escludere le uniche voci di dissenso che registro: qualche attentato scoppiettante rivendicato da ignoti anarchici, scritte sui muri che incitano alla ribellione, manifestini firmati “Generazione tradita/Gioventù delusa” dai contenuti più pacati ma lo stesso allarmanti perché indicano dolore giovanile, disagi, deprivazione di qualcosa che sarebbe loro dovuto. Senso di solitudine e inquietudine psicologica.
Sicuramente molte scelte potevano essere fatte in modo diverso a cominciare dalla scuola – il ruolo dei docenti universitari, la chiusura delle biblioteche pubbliche, dei centri interculturali, degli storici presidi intellettuali, insomma di quei servizi pubblici che, nel rispetto delle norme di sicurezza possibile, avrebbero potuto essere un sostegno per i giovani, almeno con l’utilizzo di strutture già esistenti. E quanto dico è anche una considerazione di operatori interni alle istituzioni pubbliche, che anche adesso, se fanno sentire il loro dissenso, rischiano ammonizioni e sospensioni.
Forse le parole di Faeta che levano una legittima denuncia, peccano dell’ennesimo difetto di idealismo degli intellettuali di formazione umanistica: voler diffondere il nuovo pensiero e portarlo nei ghetti fra gli esclusi, fra chi è ai margini della società in una realtà che però sembra programmare e controllare ogni cosa perché ogni cosa sia funzionale al potere. Il quale gestisce i canali d’informazione in un regime pervasivo di monopolio. C’è da chiedersi quali percorsi utilizzare in una altra comunicazione non tossica, come costruire una coscienza culturale, sociale, politica, etica, per una umanità nuova, per nuovi individui che non siano eroi né super-uomini, ma semplicemente uomini. La verità è che da quando ci si è allontanati da un impegno sociale legato ai bisogni collettivi si è scatenato il fenomeno del narcisismo individuale con la voglia di esserci in qualunque modo, la ricerca ossessiva della visibilità, dell’approvazione, del consenso, dei like. Indipendentemente dal valore e dal talento, dalla professionalità e dalle competenze.
Tentiamo un’analisi nuova del passato, ripensiamo alle illusioni e alle disillusioni, alle sconfitte di cui molti di noi – non più giovanissimi – sono stati protagonisti nei decenni trascorsi? Vogliamo ricostruire un post umanesimo? Con che cosa fare i conti?
In questo periodo, per un’altra scrittura alla quale sto lavorando, ho riletto i testi della Scuola di Francoforte, la vita e i discorsi di Malcom x, quel gruppo di accademici come Horkheimer, Adorno, Marcuse il cui pensiero è stato una rivelazione, una speranza nel lontano ’68, e ad una rilettura oggi più consapevole mi appaiono per quello che erano effettivamente fin da allora, dei socialdemocratici, che però avevano intuito che nella produzione e consumo delle merci non era la felicità degli individui ma la causa di tutti i mali che oggi ci affliggono.
Malcom X, combattivo leader nero, parlava di Potere bianco da abbattere. Riporto le sue parole pronunciate nell’auditorium Ford di Detroit nel 1965: «Ascoltate la sua voce: quando dice che è bianco sta dicendo che è il padrone… Non sono un razzista, non credo in nessuna forma di segregazione o cose del genere. Sono per la fratellanza di tutti ma non credo nel costringere alla fratellanza gente che non la vuole. Intanto pratichiamo la fratellanza fra di noi, e quando altri la vorranno praticare assieme a noi, la praticheremo anche con loro. È quello che desideriamo. Non credo che bisogna affannarci ad amare chi non ci ama». Dopo qualche mese verrà trucidato in un attentato ad Harlem, implicati i servizi segreti USA.
Provengo da una formazione umanistica che affonda le radici nella cultura greca, ho militato a cominciare dagli anni 70 nella sinistra non istituzionale, abbracciando gli studi del materialismo storico, lontana da qualunque accademia e baronato universitario. Oggi, libera da impegni professionali e limitata nei movimenti per decreti governativi, interloquisco con i giovani e le giovani nativi e migranti. Mi definisco, senza prendermi troppo sul serio, antropologa da bar praticando una sorta di osservazione partecipata. I giovani mi accettano e si confidano esprimendo liberamente le loro idee. Io con loro capisco meglio il cambiamento e il loro essere generazione in cambiamento. Sento accoglienza e accettazione reciproche. Come Malcom x non posso costringermi ad amare chi non mi ama…
Rimango sempre una docente, una educatrice con l’obiettivo di cambiare il mondo, attraverso la conoscenza di se stessi in una forma di maieutica socratica, entrando in empatia con i/le ragazzi, mettendomi nei loro panni, ovviamente senza identificazione, ma entrando in loro senza ideologia, sapere prestabilito o pregiudizio di sorta. Il cambiamento è automatico. Non c’è imposizione né autoritarismo né maternalismo. Non sono la loro nonna né tantomeno la loro mamma… (per fortuna !!!), a ciascuno viene riconosciuta la propria unicità, nonostante i loro pensieri massificati, il loro essere costantemente connessi, il loro uso disinvolto e insistito della tecnologia, dei cui limiti per fortuna, spesso, hanno anche consapevolezza. Faccio riferimento a tecniche elementari senza sfiorare la psicoanalisi che, da parte mia, sarebbe puro arbitrio, superficialità, approssimazione.
Si ascolta in silenzio, senza esprimere mai giudizi. C’è riferimento all’ascolto attivo di Rogers e Gordon che conosco bene, che scatena interazione, reciprocità, magari ripetuto in contesti diversi ma che diano il senso di fiducia e sicurezza, che nella reciprocità ci sia verità e leale sentimento. Come osservatori bisogna mettersi in gioco per essere alla pari o almeno non usare la disparità come potere. Alla scoperta della realtà interna ed esterna, capire i bisogni, interpretare le azioni per contribuire alla costruzione di un mondo migliore. Assieme con umiltà e passo dopo passo, convinti che da soli non si salva nessuno.
Con tali giovani sto condividendo le presenti frammentarie riflessioni, con loro ho realizzato anche le fotografie per il centro e le vie di Bologna. Leggo quanto trovo in giro di interessante ma, la sera, prima di addormentarmi rileggo i classici, giusto per produrre maggiori endorfine e riuscire a dormire meglio. E così sul mio comodino risiede Eraclito con le sue parole nella pagina, che continueranno ad arrivarci anche in futuro. Potere infinito della parola scritta! «Se non speri l’insperabile, non lo scoprirai mai, perché è chiuso alla ricerca, e ad esso non conduce nessuna strada».
Mi sono confrontata in una conversazione pomeridiana sullo stato della cultura a Bologna con Giuliano Guernieri, che attualmente lavora presso il Teatro Comunale di Bologna come tecnico di organizzazione e produzione. Ne riporto qui in sintesi le parole, il pensiero e la testimonianza di un appassionato di teatro e comunicazione dello spettacolo, con specializzazione in studi di settore ed esperienze di apprendistato in tutte le possibili forme operative, per lui il teatro è la forma più antica e popolare di cultura dalla quale ricominciare.
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