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Biografie visuali, città, estinzioni e memorie: appunti per una ricerca

 

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New York, skyline (ph. Underhill)

di Flavia Schiavo

Nell’aprile del 1993 al Museum of the City of New York, una mostra “New York Saved: 30 Years of Landmarks Preservation”, celebrava, dopo circa trenta anni, una conquista importante. Il 19 aprile 1965, infatti, fu siglata dal sindaco di New York, Robert F. Wagner, un’importante legge per la difesa e salvaguardia di edifici, quartieri e distretti urbani (Historic landmarks, Neighborhoods e Historic Districts), di pregio o di riconosciuto valore storico.

La legge fu varata, come spesso accade in città, grazie alla mobilitazione e all’intervento bottom-up di un vasto gruppo di abitanti che organizzarono un concreto movimento di protesta allo scopo di arginare l’usuale pratica della demolizione. Usuale, per certi versi funzionale alla vitalità urbana e legata ai modi attraverso cui la città crebbe.

Fattori nodali dell’instaurarsi di questa modalità, già sin dall’Ottocento, furono: il ruolo urbano in ascesa, l’affermarsi di New York come prima città dell’America del Nord e il mercato immobiliare. Un capitolo potente del bilancio e dell’economia urbana, strettamente connesso al mercato del lavoro, al notevolissimo flusso di migranti che raggiunsero NYC già tra la metà Ottocento e primi del Novecento e al posizionamento a Manhattan, sia a Downtown che a Midtown, di Compagnie, Aziende e Assicurazioni che si insediarono non solo nel Financial District, ma che colonizzarono in modo differenziato l’intera conurbazione dei 5 Distretti, unificati con il Consolidamento del 1898.

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New York, Woolworth Building (ph. Underhill)

Nel tempo il posizionamento delle sedi di rappresentanza di Aziende, Compagnie, Assicurazioni, perlopiù a Manhattan, produsse, e ancora produce, non unicamente il tessuto dei grattacieli, delle residenze, degli spazi pubblici e dei giardini, cioè le mutazioni dell’ibrido e metamorfico cityscape, ma generò, e ancora genera, effetti indotti dai dalla sistematica sostituzione di numerosi edifici. Una sorta di battaglia urbana tra investitori e tra Compagnie che, combattendo anche attraverso le altezze e la costruzione di strutture efficienti e redditive, manifestavano, anche con questo fare e disfare (complementari facce dello sviluppo newyorchese) la propria potenza e solvibilità. Tale incessante trasformazione rendeva la città un ring, dove i grattacieli più svettanti e potenti, a volte, oscuravano edifici già esistenti, proiettando ombre che impedivano alla luce e al sole di entrare.

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New York, Gillender Building (ph. Underhill)

A essere demoliti furono piccole strutture urbane e, soprattutto alcuni immobili del XIX secolo o alcuni degli inizi del XX che, divenuti economicamente non sostenibili e per aver perso valore immobiliare, venivano rasi al suolo. Tra questi edifici settecenteschi, ottocenteschi o tardo ottocenteschi ve erano moltissimi di pregio. Ciò nonostante essi venivano demoliti perché venduti, per la loro forma, per il rapido mutamento urbano che avveniva seguendo una logica intrinseca non diretta dal Piano del 1811 che si limitava a dividere Manhattan in lotti rettangolari. Un significativo esempio fu il Gillender Building costruito nel 1897 e distrutto nel 1910. Tra i più celebrati grattacieli del periodo, alto 20 piani (83 m), venne progettato dagli architetti: Berg & Clark. Non reputato remunerativo, perché la forma in pianta – circa 7 m per 23 m – dava luogo a uffici di ridotte dimensioni.  Al suo posto venne edificato (nel 1912) un grattacielo ben più compatto e imponente: il Bankers Trust Company Building (oggi un landmark), sormontato da una ‘testa’ piramidale (simile a quella del Mausoleo di Alicarnasso, 353-350 a.C.).

Maggiore tenuta, invece, ebbero molti tra i grattacieli sorti tra gli anni Venti e i Trenta del Novecento: alti, per certi versi monumentali, progettati da firme prestigiose, come i Cross & Cross, solidi e rappresentativi, pensati secondo criteri tecnologici di lunga durata (un consistente numero di ascensori, cablaggi, strutture e materiali resistenti, ampiezza e versatilità degli uffici) avrebbero richiesto un ingente impegno economico per la demolizione non compensato dai vantaggi delle nuove costruzioni.

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New York, Woolworth Building (ph. Underhill)

Altri due tra i preziosi estinti furono, la Singer Tower (del 1908), sulla Broadway di E. Flagg, vicina a Trinity Church e di fronte al grande lotto occupato dall’Equitable Building, un tetragono colosso del 1915; e il New York World Building (del 1890) di G. B. Post, raso al suolo nel 1955 per far posto a una rampa di accesso carrabile del Brooklyn Bridge. La Singer Tower, paradossalmente, fu demolita nel 1968 dopo l’entrata in vigore della legge che non riuscì ad opporsi alla perdita di valore immobiliare del bellissimo grattacielo, peraltro importantissimo per la forma che precorreva le norme di Zoning che furono emanate nel 1916 e per essere un riferimento visuale riconoscibile, presente in moltissime foto d’epoca.

L’aver varato il provvedimento di salvaguardia non fu un’inezia: oltre a considerare la storia urbana come fondamento culturale, in una città che era cresciuta senza tenere conto della storia precedente alla colonizzazione degli Olandesi, la legge istituì una apposita Commissione e avviò una ragguardevole opera di studio e catalogazione di luoghi significativi. Protetti, custoditi, quali icone e tracce di memoria, resistevano, a volte, alle pressioni immobiliari.  

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New York, Woolworth Building (ph. Underhill)

Immediatamente dopo la firma della legge, il 14 ottobre 1965, fu posto sotto tutela il primo edificio a Brooklyn, la Wyckoff House, una casa storica a una elevazione, costruita nel 1652 in stile coloniale. Primo segno di un percorso in cui le tracce mnestiche salvate divennero elementi significativi e riverbero di una inversione di tendenza.

Lo stesso titolo dell’esibizione del ’93 – New York Saved ­– porta a riflettere su come a partire da un singolo edificio salvato dalla demolizione, si intendesse difendere l’intera città. Non in base a una futile summa o addizione delle singole salvaguardie, ma in base a un concetto fondativo per la stessa città di New York, che vive dell’equilibrio unitario tra mantenimento e trasformazione.

Tutt’altro che cristallizzata la metropoli americana, infatti, esperisce per sé e offre a chi la guardi, questa singolare ed eccitante esperienza: il mutamento frenetico e la cura del suo carattere identitario. Mostrandoci come, talvolta, due aspetti dicotomici coesistano. Per certi versi indefinibile, per altri versi esplicita, New York, offerta all’occhio, appare unitaria e frammentata nel contempo. Stratificata, ma rigorosa nel conservarsi autentica. Nonostante i crolli, le sostituzioni, le distruzioni e il ferino mercato immobiliare. E nonostante la Città sia stata spesso deficitaria nel frenare alcune rovinose dinamiche anche recenti che hanno indotto gentrification e cambiamenti. Segni che hanno avuto effetti non solo sullo skyline ma sul paesaggio sociale e sul microclima (Schiavo, 2017).

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New York, Woolworth Building (ph. Underhill)

Quando la legge del 1965, la New York City Landmarks Preservation Law, fu varata era già avvenuta, nell’ottobre 1963, una demolizione dolorosa: la Old Pennsylvania Station, la cui perdita fu l’evento catalizzatore del movimento intellettuale che portò a varare il provvedimento. 

In questa sostanziale impermanenza diventano, se possibile, ancora più rilevanti le tracce, le immagini, i racconti, soprattutto quelli visivi, che conservano quanto meno l’immagine delle porzioni cancellate, degli equilibri mutati e ormai smarriti. L’apparato iconografico dell’esibizione del ’93 celebrava non solo la cogenza della Legge e il suo mantenimento, ma la vittoria, seppur parziale, sull’azione abrasiva del tempo, avvalendosi di un corpus differenziato, proveniente, peraltro, dagli Archivi del Museo newyorchese, sede della mostra. Tale archivio, come quello della New York Public Library, o del Brooklyn Museum, o della Library of Congress, comprende documenti rilevanti, come le foto di Jacob Riis, Victor Prevost, Jessie Tarbox Beals, come quelle contenute nella Byron Company Collection (oltre 24 mila immagini che raccontano la vita di NYC dal 1892 al 1942), o come le foto di Stanley Kubrick o di Berenice Abbott che, con il suo Changing New York, documentò la città durante gli anni ’30 del Novecento. Oltre alle foto della Abbott, (in cui vi erano tracce delle immagini parigine di Atget, (vd. Schiavo, 2018), la New York Saved: 30 Years of Landmarks Preservation, si avvaleva dello straordinario ed estesissimo patrimonio costituito dalle immagini di Irving Underhill.

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New York (ph. Underhill)

Irving Underhill, i fratelli Wurts, Gottscho-Schleisner, Samuel H. Gottscho (quasi contemporaneo di Underhill e primo fotografo di Coney Island), Joseph e Percy C. Byron, erano fotografi commerciali.

I Byron, padre e figlio, aprirono il loro atelier nel 1892, documentando il quotidiano e inaugurando particolari panorami, come quelli marittimi. Non era solo la città con la sua forma e la sua geografia a suggerire tali paesaggi, ma era la cultura urbana intrisa di flussi come pure di riferimenti, tra cui la poesia di Whitman che, come una sorta di Genius loci, fondò un certo tipo di paesaggio, quello strettamente legato all’acqua e al porto, uno dei topos adorati dal poeta. Non si trattava, dunque, di semplice fotografia, ma in essa si ritrovava la cronaca e la cultura, utile per ricostruire la biografia urbana, l’intenzione trasformativa e gli esiti della stessa.

Alcuni tra tali professionisti della documentazione fotografica, talvolta assoldati da grandi studi di architettura come i McKim, Mead & White (attivissimi a New York), talvolta da specifici committenti (aziende, compagnie, banche, assicurazioni) o dalla Città, produssero in lunghi anni di lavoro, una documentazione variegata e per certi versi autoriale che consente di comprendere fenomeni in corso, trasformazioni, economie e paesaggi sociali. E consente, anche, di guardare alcuni frammenti perduti di paesaggio o alcuni “cari estinti”, come la indimenticata Singer Tower.

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New York (ph. Underhill)

Impossibile da descrivere nella sua interezza, il lavoro di Underhill non si limitò a registrare i singoli edifici urbani, ma documentò ambiti, skyline, parchi, angoli e contesti nei vari ambiti che caratterizzavano i Five Boroughs, i 5 Distretti, in quella fase in sviluppo e rapida mutazione: non intendendo rappresentare i luoghi con una cifra retorica o monumentale ciò che emergeva era il processo in corso, come la costruzione di un ponte o un grattacielo.

Tra le sue opere memorabili, Irving Underhill illustrò il sorgere di un iconico edificio, il Woolworth Building. Inaugurato nel 1913 e voluto da Frank Woolworth, l’edificio, alto 241 m., fu progettato da Cass Gilbert, un architetto eclettico e visionario autore di numerosi grattacieli in città.

La sequenza di immagini di Underhill, dalle fondazioni al completamento, commissionata da Frank Woolworth, può essere letta come un testo o una storia non solo di una costruzione, ma del successo di una impresa (la Woolworth) e del cambiamento di una porzione urbana che in quel momento stava diventando uno dei luoghi più pulsanti di New York: accanto al nascente Woolworth Building si stavano insediando le maggiori testate dei quotidiani, numerosi stampatori e tipografie, mentre si muoveva il flusso dei migranti che, attraversando il Brooklyn Bridge (inaugurato nel 1883), giungevano ai piedi del neonato colosso rapidamente costruito. È facile immaginare l’impatto su chi guardasse o vedesse sorgere quel magnifico grattacielo neoclassico che restò per molti anni il più alto edificio abitato al mondo, raggiungendo i 241 metri.

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New York, Woolworth Building (ph. Underhill)

Se le città europee declinavano la propria monumentalità con il rigore della misura, New York irrideva tale rigore con la dismisura dell’altezza e la sproporzione tra la larghezza della strada e la statura degli edifici. Negando i modelli parigini, londinesi, italiani o quelli applicati a San Pietroburgo, dove gli architetti italiani avevano stabilito un inequivoco rapporto (2:1) tra la dimensione di alcune strade monumentali e le altezze delle costruzioni che vi si affacciavano.

L’ottimizzazione di cantiere, necessaria alle imprese newyorchesi, fu una delle questioni che contraddistinse il rapido sviluppo della città e il mercato immobiliare dell’epoca, questione che culminò con la costruzione dell’Empire State Building, in una stagione pur difficile per l’economia americana. Inaugurato nel 1931, ed edificato in prossimità della crisi del ’29, l’Empire testimonia come il settore edile fosse trainante possedendo numerosi attributi: importanti cantieri davano lavoro a moltissimi operai, innescavano filiere di produzione, mentre la costruzione stessa, una volta completata, oltre ad assicurare il movimento di danaro ed economie, avrebbe prodotto, se di altezza elevata o di pregio estetico, un forte impatto a livello planetario, sia percettivo, sia simbolico.

In molti casi le erezioni dei grattacieli furono documentate da artisti, non solo da Underhill o da ulteriori colleghi equivalenti. Ma anche da fotografi, come Lewis Hine che ritrasse la nascita dell’Empire secondo un’altra visione. Se Underhill puntava a mostrare la possanza del grattacielo secondo i desideri dello spregiudicato committente, Hine, con il suo Men at Work: Photographic studies of Modern Men and Machines, e con le 50 foto essenzialmente orientate a documentarne la costruzione, ritraeva un diverso ‘oggetto’ di rappresentazione: i lavoratori impiegati nel cantiere di uno degli edifici più emblematici della città. Oltre lo skyline, in questo caso e oltre l’edificio stesso, Hine, con l’obiettivo, comunicava il proprio entusiasmo e l’euforia insita nell’industrializzazione.

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New York (ph. Underhill)

Inerpicandosi con la sua macchina fotografica, con gli sky boys (così venivano chiamati gli operai che lavoravano su travi ondeggianti ad altezze vertiginose), sullo scheletro in acciaio dell’Empire, celebrava la spiritualizzazione del lavoro, innervata da un realismo morale, e soprattutto onorava i workers, uomini coraggiosi e abili che con il proprio carattere influenzavano, secondo la convinzione del fotografo, l’intera città. Splendide immagini, grandi documenti, in parte gravati da una retorica che nascondeva, pur non ottundendo del tutto l’interpretazione, ciò che era presente e più violentemente esposta nelle precedenti foto di Hine fatte ai bambini lavoratori: gli operai edili, come ogni altro operaio, erano vittime del sistema capitalistico e della civiltà delle macchine, costruendo i luoghi del lusso che non avrebbero mai abitato.

Il confronto tra queste differenti cifre ci mostra l’“urban society” che aveva per protagonisti i grattacieli, i ponti, i parchi, i bracci della Elevated, il waterfront. Tutti fonemi e “soggetti urbani” da indagare, feticci, monumenti anticlassici di una città in cui il sociale e l’economico convergevano. E ci mostra come la fotografia stesse diventando un mezzo, insieme al cinema, capace di rappresentare il cambiamento in corso.

Si differenziavano cifre e tecniche: la fotografia sociale, quella più pittorica, la fotografia commerciale che, pur declinata a seconda dello stile degli autori, riprendeva la città alimentando il suo specifico mitologema dato dalla fortissima relazione tra l’economia e gli edifici.

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New York (ph. Underhill)

I paesaggi, anche nelle foto di Irving Underhill, contenevano un contraltare poetico, affine per certi versi a quello insito nella poetica di Walt Whitman che celebrava la sua New York anticlassica e antimonumentale, fervida culla dei transiti e delle relazioni. Sembra incoerente il rimando agli scritti di Whitman che esaltava l’intreccio esplicito di luoghi e persone, ma potrebbe affermarsi che nelle immagini di Underhill, spesso vuote di gente, fosse richiamato il senso invisibile e profondo della “città di pietra” che era fatta di tutt’altro che di materiali inerti: gli edifici erano, forse, una sineddoche. La pietra respirava, l’acciaio non era un freddo metallo, il vetro era lo specchio che rifletteva il flusso umano.

Anche altri fotografi coevi erano stati assoldati da aziende come la Ford Motor Company, per far emergere l’estetica della produzione, da utilizzare come mezzo di comunicazione. In particolare Charles Sheeler (nato a Philadelphia nel 1883 e trasferitosi a NY nel 1919), pittore e fotografo, fu incaricato di rendere tale nuova bellezza contemporanea. L’estetica del progresso che opponeva al “monumento” storico, alle tracce della memoria (care ad Atget) un altro genere di frammento che trasmutava tralicci e macchine in oggetto di desiderio. Nel 1927, infatti, Sheeler fotografò – su commissione dell’agenzia pubblicitaria N.W. Ayer & Son, per volere della Ford – un vasto complesso industriale (attivo dal 1917) a River Rouge, a pochi chilometri da Detroit, per il lancio della nuova automobile, la Model A.

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New York (ph. Underhill)

Sheeler trascorse lì sei settimane e produsse 32 fotografie. Una tra esse, Criss-Crossed Conveyors, che apparve su «Vanity Fair» nel febbraio del 1928 (con un titolo esplicativo: By Their Work Ye Shall Know Them) divenne l’immagine della Company, sostituendo il ritratto di H. Ford. L’immagine che celebrava la tecnocrazia americana istituiva una nuova estetica su cui lo stesso fotografo riflette, sostenendo quanto essa si sia sovrapposta alle raffigurazioni pregresse, sostituendo quasi l’estetica storicizzata, connessa alle cattedrali gotiche, monumenti del passato, e mettendo in evidenza quanto il “sacro” trasli al realismo della nuova religione, rappresentata dalla tecnica e dai profitti. La bellezza descritta da Sheeler non aveva, però, nulla di cinico: nell’incrocio degli elementi metallici e nel paesaggio industriale, si coglie un’intrinseca e inattesa grazia, simile a quella contenuta nelle foto di Underhill: la concreta durezza dei solidi urbani newyorchesi, pur rivelando il costo di un’incombente disumanizzazione, rimandava agli uomini e alle donne che abitavano la città.

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New York, Woolworth Building (ph. Underhill)

Irving Underhill era nato nel New Jersey nel novembre del 1872. Iniziò la sua attività nel 1896, in una stagione potente per NYC che dopo due anni avrebbe fondato, con il Consolidamento, la Great New York. Le sue prime opere furono ritratti artistici, vedute, panorami, foto dei waterfront, fotografie utilizzate in ambito legale. Aprì uno studio tra Broadway e Park Place, di fronte il Woolworth, in un edificio che fu demolito per essere sostituito da un grattacielo. Attivo in ambito sociale, membro di numerose associazioni, come il Rotary, ebbe relazioni con la compagine economica newyorchese costituita, peraltro, da molti imprenditori che furono suoi committenti. Il suo specifico interesse per il paesaggio urbano lo portò non solo a registrare i singoli edifici, ma a cogliere una “macro-sequenza” leggibile nel corpus delle sue fotografie: la storia dello sviluppo newyorchese. Ponti in cantiere, fondazioni, navi. Elementi colti nel loro farsi, con una cifra che enfatizza il potere del processo che in quella fase contraddistingueva la città. Come suggeriva W. James le idee avevano valore se traducibili in fatti.

In un film del 1995, di Stephen Low, Across the Sea of Time, un giovanissimo clandestino russo, Thomas, durante gli anni ’90 del Novecento, venuto in possesso di vecchie fotografie che – grazie a un marchingegno (lo Stereoscopio, messo a punto intorno alla prima metà dell’Ottocento) – restituiscono alcune immagini tridimensionali di New York, salta su una nave e approda ad Ellis Island. Il ragazzo, appena undicenne, è alla ricerca dei luoghi dove era vissuto un antenato, Leopold Minton, così ribattezzato con il nuovo nome datogli allo sbarco a New York, per l’impronunciabilità del vero cognome russo.

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New York, Singer Tower (ph. Underhill)

Thomas ripercorre, vive, “mappa”, ricostruisce, scova, a partire dalle immagini del suo progenitore, le passioni, gli sforzi, la vita di quell’uomo senza paura che aveva raccolto “scatti”, frammenti visuali, dettagli delle meraviglie della metropoli, con i suoi grattacieli e la sua subway scavata nel ventre urbano. Un amorevole, coraggioso, stupefatto attraversamento di ambiti ormai trasformati, da cui emergono gli eventi del passato le cui tracce ancora risuonano negli spazi pubblici e privati di New York. Una trama da decifrare per legare le discontinuità moderne con le memorie di quello specialissimo migrante, mai davvero incontrato, ma profondamente conosciuto. Un percorso che connette la memoria con il quotidiano, che rende la città un oggetto d’amore frutto di una coerenza temporanea, di una narrazione emozionale dove ciò che è ibrido si fonde in unità.

Ancor oggi le immagini di Underhill risuonano, sono un dono che ci conduce indietro mostrandoci la città nel suo veloce divenire.

Il grande patrimonio dei fotografi commerciali andrebbe approfondito e potrebbe essere oggetto di un volume teso a ricostruire una specifica biografia visiva di New York. Ancor più se posta a confronto con altri corpore di foto e con una trattatistica che ragiona sul valore di tale mezzo di rappresentazione. Questo confronto, detto in sintesi, mostra quanto anche i fotografi commerciali restituissero il “paradigma urbano” newyorchese: tutto era in progress, nulla era deciso. Gli stessi luoghi, dai grattacieli alle grandi stazioni, non erano mai monumenti, ma relazioni, fenomeni, processi. Che derubricavano la sacralità retorica europea del Piano e della città pensata attraverso una immagine complessiva.   

Dialoghi Mediterranei, n. 40, maggio 2021 
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, urbanista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. Tra le sue ultime pubblicazioni, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi, 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.

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