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Antinatalismo: storia e significato di una filosofia radicale
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2023 @ 03:13 In Cultura,Società | No Comments
di Alberto Giovanni Biuso, Sarah Dierna
Filosofia e disincanto
Svolto con rigore, il lavoro filosofico consiste anche nella analisi critica dei tabù, di qualunque tabù, non necessariamente per rifiutarli ma per comprenderne origine, logiche, obiettivi. Uno dei tabù più pervasivi riguarda il silenzio sull’etica della procreazione, non intesa come bioetica volta ad analizzare le modalità – naturali, artificiali, ibride, storicamente situate – del procreare ma proprio la legittimità etica di farlo. Che il solo sollevare una simile questione susciti subito sorpresa, perplessità e rifiuto è appunto una conferma della natura pregiudiziale e nascosta del problema.
Come mammiferi siamo naturalmente indotti a lasciare dopo di noi i nostri geni. È questa la ragione prima e ultima dell’esistenza e del perpetuarsi dei viventi. Ma come in molti altri ambiti siamo anche in grado di porci degli interrogativi su ciò che sembra indiscutibile e ovvio. Il lavoro filosofico serio consiste, lo ripetiamo, anche e specialmente nel sottoporre ad analisi l’evidenza. Dalle questioni ontologiche a quelle cosmologiche e religiose la filosofia in Grecia è nata in questo modo.
Porsi in modo serio la questione della legittimità etica del procreare comporta certamente una serie di concetti e di conclusioni che turbano quanti ritengono che nulla quaestio si ponga su tale tema. E invece sono tante le domande e le riflessioni che emergono dalla questione della nascita.
Un dato di fatto che tutti constatiamo vivendo, anche se ne traiamo conclusioni diverse, è che ci sia una asimmetria ontologica tra la sofferenza certa che il nascere comporta e le gioie soltanto possibili e piuttosto precarie che essa potenzialmente riserva. Detto in modo esplicito: «Exister n’est ainsi rien d’autre qu’errer dans une forêt de craintes où la question n’est jamais de savoir si le Mal nous atteindra, mais seulement quand et sous quelle forme il fera de nous sa proie terrifiée» [1].
Di fronte a una tale condizione del vivente, emerge assai netta la domanda sul significato e sul senso dello stare al mondo. L’esistenzialismo analitico di David Benatar affronta tale questione al modo appunto analitico, vale a dire con una serie di sic et non, di tesi che vengono vagliate nella loro logica, nella loro plausibilità argomentativa, nelle loro eventuali contraddizioni e mancanze oppure solidità e coerenze.
I principali dispositivi concettuali sono l’asimmetria, la qualità della vita, il senso della vita, l’opzione antinatalista. Ne scaturisce quello che lo stesso Benatar definisce «un lavoro di filosofia impopolare» [2], che nulla concede a illusioni e consolazioni ma che evita anche di cadere nel silenzio e nell’assurdo. Si tratta dunque di «accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» [3].
Come già accennato, l’asimmetria riguarda varie questioni, tra le quali: l’inconsistenza, pochezza e incertezza della gioia e la densità, vastità, certezza della sofferenza; il dovere di ridurre o di evitare il venire al mondo di persone sofferenti e l’insussistenza invece del dovere di generare persone felici; il fatto evidente che l’animale divorato soffre e perde qualcosa di definitivo che invece a chi lo divora serve soltanto per continuare a vivere sino al successivo pasto; l’errore dell’argomento di Lucrezio che consiste nel ritenere giustamente che la non esistenza pre-vita non sia un male ma nel credere per questo che neppure l’inesistenza post-mortem lo sia. Infatti «se la morte comporta effettivamente delle privazioni per colui che muore, la non esistenza pre-vita non comporta alcuna privazione» [4] e «la morte è un male non solo perché comporta delle privazioni, ma anche perché annichila. La non esistenza pre-vita non annichila – e non potrebbe farlo in alcun modo. Se non fossimo mai venuti al mondo, nessun interesse sarebbe stato frustrato. […] Tuttavia, una volta che esistiamo, acquisiamo e poi abbiamo un interesse nel continuare ad esistere» [5]. In generale, e soprattutto,
A una indagine lucida e, appunto, candid, ‘disincantata’ la qualità della vita umana non può che apparire nei suoi tratti effettivamente drammatici: «La qualità della vita umana è, contrariamente a quanto molte persone pensano, in realtà piuttosto terribile. […] Io credo che mentre alcune vite siano effettivamente migliori di altre, nessuna è (non considerata comparativamente ma oggettivamente) buona» [7].
Alla qualità della vita si lega profondamente il problema del suo senso. Questo non significa che le due questioni coincidano. Tutt’altro. Si possono avere vite qualitativamente infime che però alla percezione di chi le vive appaiono sensate e vite che non mancano di nulla e che però a chi le vive appaiono angoscianti. In ogni caso bisogna sgomberare il campo da una posizione che a un’analisi rigorosa appare insostenibile e fondata su presupposti soltanto fideistici: la presunta sacralità della vita, principio al quale va sostituita appunto la questione della sua qualità. Qui l’analisi diventa molto rigorosa, distinguendo Benatar quattro significati e ambiti del senso, cha vanno dal più universale al più circoscritto.
Può esserci senso o mancanza di senso dal punto di vista dell’universo – sub specie aeternitatis –, dell’umanità – sub specie humanitatis –, delle comunità umane costituite – sub specie communitatis –, dei singoli individui – sub specie hominis. Se la vita è quindi priva di un significato assoluto, sono in ogni caso possibili vari e differenti significati relativi. Certamente l’esistere umano, come quello di ogni altro vivente sulla Terra, «non ha alcun significato dal punto di vista cosmico. […] Noi siamo insignificanti granelli in un immenso universo che è completamente indifferente verso di noi. Il limitato senso che le nostre vite possono avere è effimero, non duraturo» [8]. È possibile invece, per quanto sempre difficile, trovare e inventare i significati che le vite assumono per la storia umana, per le persone e le comunità delle quali si è sodali e parte, per il senso interiore che ciascuno riesce a dare alla propria persona. In ogni caso, questi tre ultimi significati circoscritti sono destinati a dissolversi nel tempo. Se «venire al mondo è un evento improbabile; invece nulla potrebbe essere più certo della nostra fine. […] Qualsiasi organismo (multicellulare) venga all’esistenza cessa anche di esistere. Siamo condannati fin dall’inizio. Inoltre, c’è qualcosa di ridicolo nella serietà dei nostri sforzi» [9].
Qui Benatar ripete la millenaria consapevolezza che la filosofia ha della condizione umana. Nel primo istante infatti in cui i viventi si staccano dalla Zoé diventando vita caratterizzata, identità distinta e tempo separato, in quell’istante è già cominciato il processo della fine: «L’essere delle cose finite in quanto tale è quello di avere come proprio in sé il germe del trapassare, l’ora della loro nascita è l’ora della loro morte» [10]. Il non esserci più è la conseguenza fondamentale dell’esserci stato. La finitudine non è una delle tante possibili tonalità emotive della vita, la finitudine è la struttura costitutiva di ogni forma che emerge dal tutto indistinto dell’essere. L’umano è il luogo in cui la dialettica dell’esistere come vita che è mentre muore diventa consapevole di sé: «L’esserci, finché è, è già costantemente il suo non-ancora, così esso è anche già sempre la sua fine. Con la morte si intende un finire che non è un essere alla-fine dell’esserci, ma il suo essere-alla-fine. La morte è una maniera di essere che l’esserci assume non appena esso è» [11].
Tale incoercibile dinamica vale non soltanto per le singole esistenze ma per quelle di qualunque organismo sociale e culturale collettivo e per l’intera presenza dell’Homo sapiens sul pianeta. Non foss’altro perché tutte le specie si estinguono e in ogni caso il Sole si spegnerà. Di fronte a tale Sein-zum-Tode inevitabile e universale, sarà come se l’umano non ci fosse mai stato, la vita non ci fosse mai stata.
Da questi tre elementi – asimmetria, qualità e senso della vita – discende la necessità del quarto: l’antinatalismo il cui assunto principale è che portare all’esistenza nuove vite costituisce un’azione moralmente errata. E questo perché «venire al mondo non costituisce affatto un bene, ma sempre e comunque un male» [12]. Se infatti di coloro che non esistono non dobbiamo necessariamente dire che il non esserci è un bene, è sicuro che per coloro che esistono l’esserci è un male. Ne consegue che è meglio non esserci.
Questo non vale soltanto per la vita dell’animale umano ma per la vita senziente nella sua universalità. Parlare con lucidità della vita consapevole, senziente e capace dunque di sentire e sapere il dolore, significa comprendere che ai 106 miliardi di umani sinora vissuti – dei quali circa il 6% è vivo oggi – e alle più di 200.000 persone che ogni giorno si aggiungono si può applicare un principio di asimmetria anch’esso del tutto evidente e logico. Mentre, infatti, «è doveroso evitare di mettere al mondo persone sofferenti, non c’è alcun dovere di dare vita a persone felici. […] Noi pensiamo che non vi sia alcun dovere di mettere al mondo persone felici perché, mentre il loro piacere sarebbe un bene per loro, la sua assenza non sarebbe per loro un male (dato che nessuno ne sarebbe privato)» [13].
Un individuo non venuto al mondo non subisce alcun danno per il fatto di non esserci. Al contrario, esserci significa subire sofferenze che possono risultare gravi sino alla insostenibilità e una certa misura delle quali sono in ogni caso inevitabili. L’asimmetria tra piacere e dolore è dunque il fondamento logico del rifiuto di mettere al mondo altri esseri viventi.
De Giraud formalizza questa condizione di sicura sofferenza e di incerta gioia che costella l‘esistenza di tutti i viventi nel seguente sillogismo: «Faire souffrir autrui est incompatibles avec l’Éthique. Or vivre signifie souffrir. Donc donner la vie est incompatible avec l’Éthique» [14].
Antinatalismo: una saggezza antica
L’antinatalismo è dunque una sapienza e una pratica che oggi viene studiata in molti modi – abbiamo visto quello di Benatar e accennato, per adesso, a quello di de Giraud – ma che è in realtà assai antica.
Nella prima delle sue Operette morali, Giacomo Leopardi ripercorre la storia del genere umano e ne immagina l’inizio come un evento nefasto mentre la fine come un attimo di riconquistata gioia. In questo brano sin dagli albori la nostra specie viene descritta nella sua irrequietezza, inquietudine, infelicità così mal sopportata che alcuni preferirono privarsi della vita non resistendo a tanta disperazione. Gli interventi di Giove per mitigare la condizione degli umani furono positivi soltanto all’inizio, ben presto ritornò però il tedio della vita che si spinse fino al costume di piangere la nascita e di benedire la morte: «Nascendo alcuno si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll’estinto» [15]. Si tratta dell’atteggiamento che Erodoto attribuisce al popolo dei Trausi, ribadito da Euripide in un frammento della perduta tragedia Cresfonte e, molti secoli dopo, da Montesquieu nelle Lettere Persiane:
Nei Trausi, nei Tragici greci, in Montesquieu e in moltissimi altri scrittori e filosofi viene dunque espresso un motivato e articolato rifiuto di ciò che possiamo chiamare ‘il demone della nascita’. Risalendo all’origine del genere umano, Leopardi intende descrivere una storia universale di reiterato disprezzo nei confronti della vita e delle sue asperità, intramata di speranze sempre disilluse e mai passibile di durare in eterno.
L’implicito richiamo al costume dei Trausi non rimanda soltanto alla nostalgia degli antichi – come accade nei Canti – ma soprattutto all’attributo sostanziale dell’esistenza che, ancora una volta, de Giraud ha saputo esprimere con estrema chiarezza: «Dès l’origine, vivre équivaut à souffrir…» [17].
Anche gli altri brani che compongono le Operette hanno in un modo o nell’altro per protagonista la condizione umana; nell’ultimo dei Dialoghi, Leopardi fa dire a Tristano che «il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna», constatazione che ritorna più volte nelle pagine del filosofo di Recanati e, molti secoli prima, nei versi di Sofocle [18].
Infatti «the idea of birth negation is found in ancient Greece. It then influenced European Literature and philosophy up to the present day» [19]. In questo itinerario dalle origini al presente l’antinatalismo è stato interpretato in modo differente. Differenze al di là delle quali rimane comunque l’inevitabile verità del male di venire al mondo.
La definizione di antinatalismo di Masashiro Morioka ha il merito di stabilire le coordinate di questo percorso lungo i secoli e permette di orientarsi meglio nel cogliere le differenze tra antico e contemporaneo, tra i Greci e i moderni:
La prima direzione designa ciò che è stato definito una forma di Proto-Antinatalismo, mentre la seconda ciò che oggi effettivamente si considera quando ci si riferisce all’Antinatalismo. Mentre il proto-antinatalismo, secondo alcuni studiosi circoscrive ancora una forma passiva che nega il nascere (birth negation) ma non la procreazione (procreation negation), l’antinatalismo vero e proprio – che secondo Akerma e Morioka si può fare risalire al pensiero di Kurning – delimita in modo più stringente l’avversità al nascere sommando al rifiuto della propria venuta quella altrui.
Alla storia dell’anti-natalismo sono stati di recente dedicati tre libri. Al pro-natalismo per ora nemmeno uno [21].
Nell’Eudemo, un dialogo del giovane Aristotele ancora allievo di Platone, lo Stagirita presenta il noto mito di Sileno, ripreso poi da Nietzsche:
Un «convincimento» anche in questo caso «antico e primigenio» che non conosce infatti «inizio di tempo» nella memoria di coloro che tramandano tale storia ma che un inizio – evidentemente – ce l’ha e deve coincidere con la comparsa dell’Homo sapiens che dalla materia animata si distingue per quella terza anima razionale che Aristotele chiama νοῦς e che, negli scritti per così dire ‘giovanili’, considera immortale.
Tra i motivi di dolore che l’anima ricorda dopo la morte si potrebbe considerare la storia che non conosce «inizio di tempo» di Mida e Sileno e forse anche per questo prima di incarnarsi nuovamente l’anima (former existence) si immergerà nel fiume dell’oblio (Lete) cosicché sulla terra (existence on earth) la persona non ricorderà nulla della sua precedente vita. In questo modo, come dice Sileno a Mida, «se accompagnata da ignoranza dei propri mali, la vita è assai priva di dolore».
Al mito di Sileno si aggiungono anche alcuni dei frammenti dei pensatori delle origini, delle tragedie di Euripide e di Sofocle. Elementi questi che portano Kateřina Lachmanová a individuare nel mondo antico i segni di un antinatalismo, sì, ma ancora «passivo» che è in grado di intuire e di pensare la miseria dell’esistenza in tutta la sua tragedia ma non ancora di volgere «those lamentations result in a proposal for a concrete solution» poiché nel mondo ellenico «natality, as well as death, was considered to be a natural fact of life» [23].
«A natural fact of life» è infatti la finitudine, il limite necessario di tutte le cose che i Greci riconoscono, accettano e, talvolta, desiderano. Ma «a natural fact of life» è non solo il morire bensì anche il nascere. Nonostante la preferenza – talvolta anche esplicita – per il proprio non esserci, sulla scia di Clemente Alessandrino anche Lachmanová ritiene che quelli del mondo antico siano soltanto i prodromi di un anti-natalistic way of thinking, il cui sviluppo più sistematico, secondo l’autrice, si inizierà a predisporre a partire dall’età moderna quando l’asimmetria tra bene e male, poi argomentata da Benatar (Benatar’s asymmetry argument), comincerà ad abbozzarsi, anche se non ancora in una prospettiva antinatalista, in cui, è vero, «coming into the world was regarded as extremely undesirable for the given individual, such a fact was justified by the very claim about the poverty of human conditions» [24], ma il nascere – così come il morire – rappresenta ancora solo un momento della ζωή nel divenire incessante della φύσις.
Se c’è un senso, dunque, in cui è significativo il pianto di Empedocle [25] – come segno tangibile della propria condizione –, c’è un senso più radicale e non psicologico – l’unico a contare davvero per i Greci – per cui ciò che ha davvero importanza è la potenza della materia e del suo divenire, da cui, come afferma il detto anassimandreo, tutti gli enti hanno origine e da cui hanno anche la fine. Origine e fine che nella materia organica chiamiamo nascere e morire.
Pertanto, quando Eraclito afferma: «γενόμενοι ζώειν ἐθέλουσι μόρους τ᾽ ἔχειν (μᾶλλον δὲ ἀναπαύεσθαι) καὶ παῖδας καταλείπουσι μόρους γενέσθαι; dopo che sono nati vogliono vivere e avere un destino di morte – o piuttosto riposare –, e lasciare dei figli, in modo che ci siano altri destini di morte» [26], il suo detto non sarebbe da interpretare come un’oscura espressione antinatalista, bensì come il movimento stesso della materia animata che c’è e vuole continuare a esserci. In un frammento di Democrito ciò emerge con molta chiarezza:
L’antinatalismo antico sarebbe dunque un antinatalismo passivo poiché la percezione della propria tragica condizione – «quando qualcuno viene al mondo, ciascuno soffre» scrive Democrito – non arresta tuttavia il movimento procreativo della specie animale la cui disposizione – sempre con le parole del filosofo atomista – resterà una «necessità dettata dalla natura» stessa.
Questo ordine necessario, con modi e conseguenze diverse, è presente anche nelle sapienze buddiste e induiste, così come nel Mondo di Schopenhauer che pure alcuni pensatori considerano il primo vero filosofo antinatalista. Per le correnti orientali e per il filosofo di Danzica la volontà si nega assecondandola.
Lachmanová ribadisce che «it is, however, clear from passages mentioned above, that the ancient antinatalistic way of thinking did not yet even touch the way of argumentation in the manner of Benatar’s asymmetry argument» [28] con il quale l’antinatalismo diventa davvero attivo in quanto alla negazione del nascere aggiunge un’etica antiprocreativa ed estinzionista, che mancherebbe appunto ai pensatori delle origini.
Rispetto alla divisione tracciata, è tuttavia condivisibile l’ipotesi di J. Robbert Zandbergen che, a proposito dell’antinatalismo, scrive:
L’antinatalismo, per diventare antiprocreativo, abortivo ed estinzionista, deve passare per la chiara visione di cosa la specie umana sia, di quale sia il suo posto nel mondo e l’orizzonte verso cui tende. Un percorso gnoseologico e redentivo che squarci il velo di Maya: «The Maya or illusion involved was due to ignorance of true reality and Gnostic knowledge was the necessary cure» [30].
Un’ermeneutica non dogmatica e non catechistica dei testi della Grande Chiesa mostra infatti un atteggiamento encratico (da ἐγκράτεια, continenza) interno anche al cristianesimo.
La consapevolezza, esplicita o inconscia, accettata o respinta, della tragicità del vivere e dell’opportunità di non generare altri sofferenti intrama infatti anche le grandi religioni. Di esse un esempio è proprio la figura del fondatore del Cristianesimo: «Né d’une vierge, le Christ est mort vierge et sans enfants, non sans nous demander de nous faire EUNUQUES, de nous castrer, en vue du Royaume des Cieux ! […] Cette hostilité radicale du Christ à la progénition, non seulement les gnostiques l’avaient immédiatement identifiée, mais Kierkegaard lui-même en réaffirmera la vigueur» [31].
Gesù non si sposò e non ebbe figli, la sua predicazione fu consonante con quella degli Esseni e dei movimenti encratisti per i quali l’atto sessuale che genera altre vite costituisce un male da evitare. Insieme a lui e a Maria, anche Giovanni Battista, l’apostolo Giovanni e Paolo di Tarso sono tutti celibi e senza figli: «Célibataire, sans rapports sexuels et donc sans enfant. Voilà qui est claire et scelle le Nouveau Testament: l’idéal serait que tous renoncent à la procréation! […] Le Nouveau Testament manifeste avec éclat la dimension fortement antinataliste du christianisme» [32].
Una posizione, questa, che il Cristo espresse coerentemente durante la sua predicazione, uno dei cui fondamenti fu il rifiuto della famiglia, a partire dalla propria. Basti ricordare gli episodi della discussione nella sinagoga del Gesù dodicenne, il quale rimprovera i genitori di cercarlo; oppure la risposta piuttosto sprezzante data alla madre durante le nozze di Cana – ‘donna, che cosa abbiamo in comune io e te?’ – e, ancora, la risposta rivolta a chi gli comunicò che la madre e i fratelli lo aspettavano. Una risposta nella quale Gesù dice di se stesso di non avere né madre né fratelli se non chi segue la sua dottrina.
Il cristianesimo, così come emerge dai Vangeli e dalle Lettere di Paolo di Tarso, è anche questo invito a evitare la procreazione e la moltiplicazione degli umani, per ragioni che erano già evidenti in Genesi, 6, 5-17, dove si spiega che la decisione da parte di Jahvé di sterminare la specie umana con il diluvio è conseguenza del suo esplicito essersi pentito di aver generato un insieme di creature così malvage. La predicazione del Cristo è coerente con tale pentimento.
Le tendenze gnostiche interne al cristianesimo originario sono dunque pienamente legittime e forse esprimono la vera natura di questa fede: «Le christianisme originel, celui des Evangiles, du Nouveau Testament et des premiers siècles de l’Eglise, était en fait parcouru de tendances anti natalistes, c’est-à-dire opposées à la reproduction de l’espèce humaine» e questo perché, come affermano anche Agostino e altri Padri della Chiesa, «la manière la plus sûre d’en finir avec l’omniprésence du mal et le péché originel est bien entendu de mettre fin à la reproduction» [34].
Quando e come tutto questo venne dimenticato, abbandonato, condannato? Avvenne quando la ‘Grande Chiesa’ si legò alle strutture dell’Impero Romano, il quale come ogni impero aveva bisogno di sempre nuovi sudditi e soldati. Emblematica la decisione dell’imperatore Teodosio, il quale nel 382 (due anni dopo l’Editto che metteva fuori legge i culti pagani) dichiarava passibili di pena di morte le credenze e le pratiche encratiste.
Il filosofo cristiano Kierkegaard denuncia di continuo questa cancellazione dell’antinatalismo ben presente nel primo cristianesimo, convinto com’è «qu’un bon chrétien est un chrétien qui ne procrée pas» [35].
Mentre nel Nuovo Testamento il richiamo alla sterilità, alla verginità, alla non riproduzione permetterebbe di intravvedere i prodromi di un’etica antiriproduttiva, nell’Antico Testamento Giobbe [36] o il profeta Geremia, Siracide [37] o il Qoelet [38] condannano esplicitamente soltanto il nascere e benedicono la morte, così come è accaduto con i primi pensatori delle origini. Sono chiare le parole del profeta Geremia:
Un brano che, nell’ermeneutica antinatalista di de Giraud, viene concepito come un’affermazione natalista è invece il passo di Genesi in cui si legge: «Crescete e moltiplicatevi» (1, 22).
Su questo versetto, l’autore francese si è così espresso: «Even in the Old Testament, yet placed under the sign of the famous injunction given by Yahweh to the human race: “Be fruitful and multiply and fill the earth and subdue it” some discordant voices, marked with the seal of antinatalism, have made themselves heard» [40].
Lo gnostico Cioran propone di cancellare quel versetto poiché il dio buono, in quanto buono, non crea, e avrebbe piuttosto prescritto «siate scarsi» [41], come vaticinò anche l’ultimo messia di Peter Wessel Zapffe che pare nutrisse anche lui un certo interesse per lo Gnosticismo e la Gnosi.
Una proposta alternativa deriverebbe dall’interpretare questo brano in modo diverso rispetto a tali tradizionali letture. Secondo Mazzarella l’espressione biblica non rappresenta un mero invito alla procreazione – come invece è stato creduto e dalla cui credenza è derivata la condanna da parte della Chiesa nell’utilizzo dei contraccettivi – poiché questo imperativo categorico della generazione non riguarda la vita in quanto vita individuata ma quel phylum biologico che è premessa e condizione di ogni vita individuata: «L’universale biologico […] è la condizione della possibilità di ogni individualità e dell’atteggiarsi di ogni individualità nei confronti di se stessa e dello stesso universale» [42]. Pertanto, crescere non significa moltiplicarsi nella quantità bensì continuare nel tempo:
In questo modo la formula del Genesi non apparirà più contraria alla prospettiva antinatalista e invece sarà coerente con l’antinatalismo che si è riscontrato in altri testi dell’Antico Testamento e con l’antinatalismo passivo delle origini.
Per i Greci, infatti, si condanna il giorno della propria nascita ma non si fa nulla per evitare questa cattiva sorte agli altri esseri animati perché è insito nella materia animata il suo continuare e il suo divenire. La lettura di Mazzarella è inoltre confermata da un passo del Libro del Siracide che de Giraud non riporta e in cui si legge l’esito di un’interpretazione carnale, relativa alla vita individuata o a una «mera espansione nello spazio»: «Se vi moltiplicate è per voi la rovina» (41, 9).
Questa è la vita sul cui valore di sacralità la Chiesa ha difeso la sua intangibilità tralasciando però di chiarire che sacro è ciò che è intangibile e che ogni vita sarà pertanto sacra perché il suo fondamento ci sfugge e non perché il suo creatore è divino. Ciascuno si trova già sempre nella propria vita. Mazzarella argomenta in questo modo una sacralità ‘razionale’, che non ha nulla di teologico, inteso come rimando a una qualche religione positiva, una sacralità che ha una sussistenza soltanto metafisico-ontologica come universale biologico e dunque come sacralità della materia.
Il cerchio si chiude esattamente nel punto da cui è partito, un antinatalismo di mezzo che inizia a chiedere un attivo atteggiamento encratico ma che non riesce a contrastare ancora il conatus della materia animata.
In ogni caso nella storia del cristianesimo è in atto una vera e propria supercherie, un inganno generato da ragioni storico-politiche e non religioso-teologiche: «Le natalisme des Eglises chrétiennes officielles est donc bel et bien une des plus grandes supercheries de l’Histoire, una hérésie et une trahison sans nom» [44].
Come conferma la pratica ermeneutica, se si leggono con occhi privi di pregiudizi i testi sedimentati nella tradizione si possono scoprire in essi posizioni, tesi, dottrine che la tradizione ha, per le ragioni più disparate, coperto e persino capovolto o cancellato.
Quando ci si confronta con l’idea che venire al mondo sia sempre un male si deve inevitabilmente fare i conti anche con la tendenza contraria, e cioè con l’alternativa che nonostante tutto preferisce continuare a esistere e portare a esistenza nuovi esseri umani.
La conclusione antinatalista – come si è visto ripercorrendo le riflessioni di Benatar – è costruita su solide fondamenta e non soltanto per il modo analitico di procedere ma perché attinge all’esperienza quotidiana – e dunque evidente, empirica e difficilmente confutabile – di qualsiasi animale consapevole. Quale che sia la sua vicenda esistenziale è comunque certo che questi abbia già fatto e farà ancora esperienza del dolore.
Tale solidità sembrerebbe sfuggire alla prospettiva pro-natalista i cui argomenti poggiano su fragili palafitte e un’indagine ulteriore ne mostrerà infatti la precarietà. Le riflessioni degli studiosi natalisti si articolano per lo più come risposte critiche poste in antitesi alle tesi antinataliste. Nelle pagine di Boonin, Overall o Wasserman – che pure delimitano alcuni criteri in assenza dei quali portare al mondo sarebbe considerato moralmente sbagliato – gli studiosi tentano di riprendere, confutare e quindi proporre delle versioni alternative a quelle sostenute dalle prospettive di Benatar.
Questa carenza contribuisce tuttavia, in modo implicito, a chiarire le vere ragioni interne all’atto generativo.
La tendenza procreativa e la tendenza antiprocreativa ci sono da sempre. Da che esiste, l’umano ha patito. Da che esiste, l’umano ha generato. L’impulso procreativo è ben presente ai Greci come ai sapienti orientali i quali hanno infatti saputo vedere la «natura necessaria», per utilizzare di nuovo le parole di Democrito, di questo movimento e insieme a essa l’inesorabile sorte che tale movimento comporta per l’esserci. L’avvento della Grande Chiesa ha tuttavia sostituito l’ontologia del reale con una teodicea che giustifica il male del mondo cercando di conciliarlo con la presenza di un dio sommamente buono. I suoi principi descrivono una nuova realtà assai lontana, controintuitiva da capire, impossibile da vedere rispetto invece alla realtà severa ma dura descritta dalla filosofia antinatalista. In che modo conciliare le sterminate efferatezze che gli umani compiono con l’amore per il prossimo? La fiducia in una gioia perenne con una vita qualitativamente scarsa e priva di senso?
Per i teismi «noi siamo al servizio non solo di uno scopo cosmico ma divino. Questo è un pensiero seducente e confortante. Fosse solo per questa ragione, dovremmo essere diffidenti visto quanto è facile per gli esseri umani credere in quello che desiderano credere», anche perché «se amare o servire Dio è il nostro scopo, l’atto di crearci sembra quello di un essere supremamente narcisistico piuttosto che supremamente benevolo» [45].
Il mondo dei viventi – che è un risultato delle leggi fisiche e dell’evoluzione biologica, strutture incontrollabili e del tutto indifferenti –, dal punto di vista umano sembra piuttosto frutto di un funesto demiurgo, come molte tradizioni hanno sostenuto: «Sarebbe in effetti meraviglioso se vi fosse un Dio benevolo che ci avesse creati per una buona ragione e si prendesse cura di noi come un genitore amorevole farebbe con i suoi figli. Tuttavia, il modo in cui il mondo è ci fornisce numerose prove che le cose non stanno così. […] Questo non sembra affatto un mondo creato da una divinità benevola con illimitata conoscenza e potere» [46].
Il disincanto di Benatar gli permette di delineare una vera e propria genealogia dell’illusione, così formulata:
Le forme dell’illusione non sono soltanto teistiche. Vi rientrano pienamente prospettive come il transumanismo o la criopreservazione, versioni secolarizzate della fede nella resurrezione dei corpi o almeno della sopravvivenza per sempre di un’anima, vere e proprie espressioni di un millenarismo secolare.
È questo desiderio di sopravvivenza imperitura una delle ragioni, la più inconsapevole ma anche la più forte, che sta dietro la scelta di avere un figlio: un impulso biologico, la cieca volontà di vivere che si esprime. Si tratta di una condotta automatica e, proprio perché tale, Albert Camus ha giustamente sostenuto che si acquisisce prima l’abitudine di vivere – e di far vivere – e poi quella di pensare. Una condotta alla quale, se fosse praticata in maniera del tutto razionale, difficilmente si cederebbe.
Nelle nostre società non è la scelta di avere un figlio a sorprendere, bensì quella contraria. Scelta, quest’ultima, della quale bisogna spesso rendere conto adducendo i motivi che hanno portato a compierla; scelta che risente delle critiche e dei giudizi altrui e che, anche per questo, molti mettono in discussione incapaci di resistere alle pressioni del contesto sociale esterno ma soprattutto a ciò che il biologo Lonnie Aarssen ha definito [a] ‘parenting drive’, vale a dire un impulso alla genitorialità iscritto nella biologia animale; la volontà di vivere che in certe fasi della vita diventa impellente ed esige di essere soddisfatta. E invece è vero esattamente il contrario. La scelta di procreare deve essere sottoposta al vaglio della ragione.
L’interrogativo sul perché avere figli ne sollecita un altro, una sorta di meta-domanda che consiste nel chiedersi se sia giusto porsi una questione simile. James Lenman ha infatti reputato la questione sciocca (foolish): «It is partly just because we’re programmed that way much as we are for sex. It just seems to be a part of our biological dispensation that most of us aspire to parenthood, feel pleased when we attain it and are more or less unhappy when it passes us by. It’s not altogether a matter for rational consideration» [48]. È vero. L’atto del generare ricade fuori da qualsiasi considerazione razionale; un barlume di razionalità escluderebbe infatti un simile atto.
La vicenda genitoriale, nel suo compiersi a partire dalla copula dal cui atto risulterà un embrione, è un atto della cieca volontà, qualcosa a cui, è plausibile pensare, razionalmente non cederemmo. Tanto più allora acquista senso e importanza domandarsi perché fare figli.
Non si può attribuire al generare figli intenti altruistici. Non si genera mai un figlio per amore del figlio ma per ragioni che hanno a che fare con l’interesse del genitore su una varietà di livelli: gratificazione personale; impulso a compiere un dovere sociale; fornire allo Stato nuovi lavoratori, contribuenti, soldati; perpetuare la specie. Non bisogna neppure trascurare la quantità di persone che vengono al mondo a causa di errori nelle pratiche contraccettive.
Nessuna di queste motivazioni tiene conto dell’interesse di colui che ancora non esiste. Tra questi interessi c’è la possibilità di pensare anticipatamente a garantirsi il sostegno alla propria vecchiaia; di completare – come spesso si dice – la propria famiglia e di realizzarsi; c’è la possibilità di proiettare sull’altro i desideri che non si è riusciti a esaudire per se stessi; c’è soprattutto la possibilità di vincere la morte. Una vittoria che viene garantita dalla continuità del materiale genetico che verrà trasmesso e dunque perpetuato ma che deriva anche dal sapere che quando moriremo ci sarà ancora qualcuno a ricordarsi di noi, a tenere una nostra foto nel portafoglio, ad abitare la nostra casa. Una continuità che fa dell’altro lo specchio sul quale riflettere il proprio sé ormai maturo e rivivere così i propri anni, le proprie esperienze, la propria vicenda biografica negli anni, nelle esperienze e nella vicenda biografica del figlio.
Che la discendenza sia il prodotto di un atto evidentemente egoistico emerge con chiarezza anche dalle recenti pratiche di fecondazione assistita e dalla cosiddetta maternità surrogata alle quali i genitori potenziali ricorrono non soltanto per soddisfare il loro impulso appunto, ma per scegliere i tratti somatici del figlio che si desidera avere e il cui principio non consiste più in «the avoidance of greater harm», ma in «the bestowal of “pure” benefit» [49].
Il risultato sarà dunque un prodotto che soddisferà l’ego e l’orgoglio del genitore e solo dopo quello del nascituro che si decide di portare a esistenza. A proposito di questa genitorialità priva dell’humus biologico – come l’ha definita Mazzarella in un breve ma fondamentale saggio dedicato a sacralità e vita – Corinne Maier ha infatti affermato che «ever since the pill and the IUD, most of the children who have been born have been wanted children. They are no longer the unavoidable consequence of a sexual act but the product of willpower under scientific management. The unforeseen has been eliminated. Long live planning!» [50].
Il culmine dell’irrazionalità di un simile egoismo che combina i caratteri a tavolino dimentica però che la genetica sin dai tempi di Mendel ha individuato i caratteri recessivi e dominanti e che dunque non tutti i caratteri iscritti nella doppia elica saranno poi fenotipicamente presenti; tale irrazionalità dimentica che alla componente genetica bisogna aggiungere il fattore ambientale, imprevisto e aleatorio che fa dell’atto procreativo un’azione sempre imprevedibile circa i risultati sperati ma sempre sicura circa quelli insperati: la presenza certa di un essere umano che soffre.
Se la domanda sul perché del nascere «is made still more difficult» dal momento che «the practice is one that is fed by powerful biological drives with deep evolutionary roots» [51], ci si domanda almeno a che cosa andrà incontro una nuova vita?
La sofferenza ci appartiene. È una verità che difficilmente si potrà negare. Ciascuno vive poi questo dolore a modo proprio, con maggiore o minore intensità, dando più o meno peso agli eventi che accadono. Nessuno ne rimane però esente. L’unica strategia per evitare di soffrire consiste nell’evitare di stare al mondo (Risk Argument).
Se fossimo un poco meno coinvolti dalle nostre singole esistenze saremmo in grado di vedere che queste condizioni non sono l’eccezione ma costituiscono la regola. Invece mostriamo interesse non – o non tanto – per il dolore di Homo sapiens, come se le altre specie viventi non soffrissero, ma per la nostra specifica situazione. È difficile riuscire a guardare oltre il palmo del proprio naso. E non si tratta soltanto del dolore di qualsiasi essere umano che abbiamo incontrato per strada ma del dolore di coloro che siamo soliti chiamare ‘cari’. Tra questi ci sono anche i figli.
Molte coppie sono convinte che allargare la propria famiglia possa migliorare la propria vita: «Parents’ lives, it is said, are improved by the loving relationships they have with their children» [53]; alcuni natalisti si ostinano a vedere nella relazione genitore-figlio uno degli standard la cui presenza contribuisce a rendere la generazione moralmente legittima. Con i figli, è vero, si instaura un legame incondizionato ma non sempre migliorativo.
«Children are also seen as a kind of insurance policy because they can care for a parent during the latter’s old age. Because parents usually predecease their children, parents also often see their children as a means for transcending their own deaths» [54]. Anche questi due casi rivelano come i genitori siano motivati da un tornaconto personale a generare la prole che erediterà i loro rispettivi caratteri. Padre e madre certamente si sono imbattuti in situazioni difficili, sono stati bambini e ragazzi che giudicano adesso le loro esperienze passate considerandole ora meno importanti di come un tempo apparivano loro.
Mentre infatti una valutazione soggettivamente positiva contribuirà da una parte a rendere la propria condizione nonostante tutto accettabile, dall’altra, proprio perché accettabile, sarà trasferibile anche alla prole (la cui venuta, si suppone, migliorerà ulteriormente la propria vita).
Wasserman, che preferisce parlare di una forma di ‘anestesia naturale’ piuttosto che di pollyannishness, fa appello alle buone intenzioni dei genitori che decidono di mettere al mondo un figlio. Dal suo punto di vista non c’è nessuna roulette russa con la pistola puntata verso i nascituri perché i genitori non tengono in mano nessuna ‘arma’ intenzionalmente carica – diverso sarebbe se decidessero di mettere al mondo un bambino le cui condizioni si sa già che saranno difficili. Non si tratta dunque di imporre un danno, bensì soltanto di esporre i figli a questa possibilità.
Possibilità che Wasserman e altri anti-antinatalisti stimano comunque piuttosto bassa:
E tuttavia dal punto di visto logico-ontologico è chiaro che portare al mondo una nuova vita non comporta nessun beneficio. Non solo perché nell’esistere dei giorni il futuro bambino non troverà soltanto bene, non solo per il meccanismo asimmetrico prima descritto. Si compie del bene nei confronti di un ente che già c’è e per il quale una particolare situazione diventa ‘migliorativa’, o viene comunque valutata positivamente. Non può quindi esserci una nozione di bene per un bambino durante la fase del concepimento e prenatale. C’è soltanto il beneficio del genitore potenziale che il bambino generato soddisfa e a cui in quanto generato si cercherà poi di recare lo stesso bene. Il beneficiario di primo livello rimane dunque il padre e la madre e la loro vita a cui tale bene viene recato [57].
Da parte del generato, inoltre, sussiste un amore incondizionato non nei confronti del padre e della madre in quanto padre e in quanto madre, bensì sotto forma di attaccamento alla prima alterità disponibile a prendersi cura di lui (imprinting).
Da parte del generatore l’amore per il figlio è in modo assai più sottile solo un riflesso determinato dalla sensazione piacevole che la relazione con esso provoca in lui o, «comme le soulignait si bien Lichtenberg: «On n’aime ni son père, ni sa mère, ni sa femme, ni ses enfants, mais les sensations agréables qu’ils nous causent» [58].
Più a fondo del proprio bisogno di affetto o di compagnia, di cura o di assistenza, de Giraud ritrova ancora una volta l’impulso di tramandare i propri geni e di assicurarsi in questo modo la propria sopravvivenza nella fisionomia e nei gesti del proprio bambino. In questo senso «engendrer n’est rien d’autre que de vouer un culte au pronom possessif qui nous flatte, culte moïque, vénération de soi-même», un atto che l’autore definisce «nombrilisme pur» [59].
Ben diverso sarebbe diventare genitori di bambini orfani o abbandonati che nell’uno come nell’altro caso già esistono. In questo caso infatti il beneficio è sempre dei genitori sociali ma è probabile che anche le aspettative di vita del bambino miglioreranno.
Le intenzioni dei procreatori – questa è la tesi sostenuta da Wasserman – devono essere buone, così come le ragioni, che «concern the good of a particular kind of life for a future child, and the good for here and her prospective parents of the relationship she will enjoy with them» aggiungendo subito dopo che «th[e] mere expectation is inadequate as a personal justification to a child exposed to the serious harms and risks of any life» [60]. Ma non è proprio di qualsiasi esistenza potere avere soltanto delle aspettative – e mai delle certezze – sul proprio futuro? Figuriamoci allora se queste aspettative riguardano poi una vita ancora potenziale. E quando questo nuovo essere sarà portato a esistenza quali sono le aspettative che contano? Quelle dei genitori o quelle dei bambini?
A questo punto è necessario domandarsi chi sia a dovere stabilire la portata di tale danno. Anche se le intenzioni sono le migliori e le decisioni prese non vogliono fare del male non possiamo trascurare lo scarto insuperabile di ogni vita individuata. Per esempio, un uomo tetraplegico può considerare la propria sofferenza terribile e sentirsi per questo incapace di vivere una vita che per lui non sarà più degna. Un altro paziente può trovarsi in condizioni simili ma giudicare la propria sorte ancora dignitosa e ritenere quindi ancora possibile vivere una vita gradevole. Per le ragioni del primo non provochiamo la morte al secondo; per le ragioni del secondo non sottovalutiamo le difficoltà del primo. Non c’è un punto di vista autorevole e vantaggioso che dirime la questione perché ciascuno ha il pieno diritto di sentire il peso della propria vita come vuole.
Proprio «in the absence of an authoritative vantage point», Wasserman afferma che «prospective parents in a privileged society like ours can reasonably take a rosier view of their children’s prospects […]. Of course, even in the most privileged society, lives can go horribly, and no prospective parents can ensure that the lives of their own children will not. But they can reasonably conclude that the odds of such fates are low enough to be acceptable» [61].
I genitori detengono un punto di vista autorevole che incide però sulla vita di qualcun altro e questo aspetto costituisce «[the] very important feature of procreation»: «although it is the parents who decide to procreate, it is their children who pay the price of being brought into existence. It is one thing to assume high risks of terrible harm for oneself. It is quite another thing to assume those risks for others, even if those others are one’s children» [62].
Si potrebbe obiettare che anche la scelta di non creare una nuova vita per evitarle il rischio di indicibili sofferenze equivalga a esercitare la propria autorità sul bambino che si decide di non portare a esistenza, ma dal momento che questo bambino ancora non esiste manca l’oggetto su cui tale autorità si dovrebbe esercitare. Diverso è il caso dell’aborto, il cui argomento chiamerebbe però in causa lo statuto ontologico del feto.
Simile all’ esercizio della propria autorità è la questione del consenso messa a punto da Shiffrin. Per la studiosa i potenziali genitori non possono presumere il consenso del bambino a nascere. Dato che la vita umana contiene una quantità significativa di dolore, è possibile però presumere che il bambino acconsentirebbe a venire al mondo solo se questa alternativa serva a evitare una sofferenza maggiore, lo stesso non si dirà però se si tratta soltanto di concedere puri benefici. In questo caso ha ragione Wasserman nel dire che «it is not clear that parents would violate any right by bringing a child into existence, although existence brings unavoidable harms. Unlike in postnatal interventions, there is neither a physical incursion on an individual with a right against such incursion, nor a disruption of plans and attachments already formed» [63]. Ma i genitori espongono a tutto questo quando decidono di procreare.
Si dirà allora che «childless people are sometimes said to be selfish, but the standard reasons people give for having children sound rather selfish or at the very least self-oriented» [64]. Fare figli è «un cadeau que les parents se font à eux-mêmes» [65].
Di fronte alla certezza del dolore, spesso di un immenso dolore, che attende il neonato una sincera preoccupazione per il suo benessere indurrebbe a evitare di metterlo al mondo. E dunque la risposta meno egoistica e più generosa alla domanda che spesso le giovani coppie si sentono rivolgere su quando nascerà il loro erede sarebbe certamente questa «jamais, mes seigneurs, la cruauté me manque; mai, miei signori, mi manca la crudeltà» [66].
Anche rispetto a questo egoismo parentale, l’antinatalismo è una posizione filantropica che evita il dolore nell’unico modo nel quale esso può essere evitato con certezza poiché essendo l’esistenza la condizione di ogni sofferenza il potenziale soggetto del dolore non esisterà e quindi non potrà soffrire.
A chi risponde che in tal modo si priva qualcuno anche di potenziali gioie, si risponde facilmente che le gioie sono talmente incerte, lievi e transeunti da non poter essere seriamente messe a confronto con le sofferenze che invece sono certe, profonde, pervasive e costanti. Si aggiunga che le vite umane subiscono una quantità e qualità di sofferenza che spesso non viene riconosciuta, proprio perché abbiamo bisogno di nascondere a noi stessi una realtà che ci stritolerebbe.
Anche al di là degli innumerevoli casi di vite molto dolorose, la sola e ‘normale’ vita quotidiana è intrisa di grandi difficoltà e sofferenze. Coloro che procreano giocano dunque «alla roulette russa con la pistola completamente carica – puntata, ovviamente, non alla propria testa, ma a quella dei loro futuri discendenti» [67]. Si dà il fatto – che ci sembra meritevole di una riflessione sui limiti dell’autopercezione umana – che «le brave persone fanno di tutto per risparmiare sofferenze ai propri figli, ma pochi di loro sembrano rendersi conto che l’unico modo sicuro per evitare ogni sofferenza ai loro bambini è non metterli al mondo» [68].
Una simile consapevolezza non implica affatto la rinuncia alla vita, tantomeno il suicidio. Al contrario, una volta subìto «l’inconveniente di essere nati» [69] è un dovere cercare di diminuire quanto più possibile le sofferenze e moltiplicare invece le gioie nostre e di coloro che subiscono la nostra stessa sfortuna. Si può essere convinti che esserci sia un male senza dedurne che continuare a esistere sia peggior male che morire. Anche perché «che il suicidio faccia soffrire chi resta è parte della tragedia del venire al mondo. Ci troviamo in una specie di trappola. Siamo già nati. Porre fine alla nostra esistenza provoca un immenso dolore a coloro che amiamo e di cui ci curiamo. I potenziali creatori farebbero bene a considerare questa trappola che fanno scattare nel momento in cui producono dei discendenti» [70].
È altresì vero che anche se il suicidio è un male perché anticipa l’annichilimento del soggetto che lo compie, «data la determinazione che alcune persone devono raccogliere per togliersi la vita, combinata con il senso di inutilità o la gravità delle loro condizioni, potrebbe essere che il suicidio – quantomeno in alcuni casi – sia effettivamente, rispetto al rimanere in vita, l’opzione più coraggiosa» [71]. Ne segue che in una società decente eutanasia e suicidio assistito dovrebbero essere del tutto legittimi, sia dal punto di vista morale sia da quello giuridico. Anche perché «negare alle persone la libertà morale di uccidersi significa negare il controllo su una decisione di immensa importanza per loro». Va quindi detto che al di là di concetti banali e ambigui come ‘pessimismo’ e ‘ottimismo’; al di là di analgesiche illusioni tecnologiche, religiose e psicologiche; al di là della disperazione costante o della fiducia ebete, «c’è in effetti un’ampia gamma di risposte lungo tutto uno spettro che va dall’ottimismo del tutto fantasioso al pessimismo suicida».
È fondamentale a questo proposito, ma più in generale per comprendere il significato delle tesi antinataliste, distinguere tra una vita degna di cominciare e una vita degna di continuare. Se le vite che già ci sono appaiono a se stesse e ad altri degne di continuare, questo non implica affatto che esse siano degne di cominciare. Tanto più questo vale per delle vite ancora non esistenti.
La morte è un universale, la morte dolorosa è anch’essa la norma, la morte violenta – guerre, omicidi, incidenti – è assai diffusa:
Non basta: l’umano è da solo una ragione di dolore continuo e di vero e proprio orrore per le altre specie viventi, «compresi i miliardi che vengono messi al mondo ogni anno solo per essere maltrattati e uccisi per il consumo umano o per altri usi» [73]. Come è facile constatare e sapere,
E pertanto «quale risposta si dovrebbe dare alla difficile condizione umana? Una risposta immediata è quella di desistere dal perpetuarla creando nuovi esseri umani che inevitabilmente incorreranno nella stessa condizione. Ogni nascita è una morte che attende di attuarsi» [75]. La procreazione appare come un vero e proprio virus che si diffonde inarrestabile, portato da coloro che ne sono stati infettati: «Un altro modo in cui l’agentività gioca un qualche ruolo nella difficile condizione umana è la procreazione, il ‘virus’ sessualmente trasmesso che diffonde l’esistenza e diffonde con essa anche la difficile condizione esistenziale» [76].
A chi ritenga in partenza inaccettabili e assurde tesi come quelle che qui stiamo presentando non è possibile portare nessuna prova, ragionamento, dubbio, poiché contro di esse vige un vero e proprio dogmatismo biologico dato dalla tendenza di ogni specie vivente a perpetuarsi. Ma questo non significa che simili tesi non espongano il semplice fatto – che risulta evidente a chi rifletta sine ira et studio – che «ognuno di noi ha subìto un oltraggio nel momento in cui è stato messo al mondo. E non si tratta di un oltraggio da poco poiché anche la qualità delle vite migliori è pessima – e notevolmente peggiore di quanto riconosca la maggior parte delle persone. Benché ovviamente sia troppo tardi per prevenire la nostra esistenza, non è troppo tardi per prevenire l’esistenza di potenziali persone future» [77].
In che modo dunque si possono riassumere la nascita degli umani e la loro condizione?
Una fenomenologia dell’esistenza che sia libera da presupposti religiosi, moralistici e millenaristici non può che sottoscrivere tali parole. In ogni caso, e non si tratta di un paradosso ma di un elemento fondamentale dell’antinatalismo, tali prospettive risultano alla fine serene poiché non sappiamo quando ma sappiamo con certezza che questa sofferenza finirà: «Nonostante le cose al momento non sono come dovrebbero – ci sono delle persone laddove non dovrebbero essercene – un giorno le cose saranno come devono – non ci sarà più nessuno. In altri termini, anche se le cose adesso vanno male, miglioreranno» [79].
Questo è l’assunto fondamentale dell’antinatalismo, confermato da una serie assai numerosa di elementi della vita quotidiana. Elementi che tutti conosciamo bene ma che cerchiamo sistematicamente di ignorare o, se non è possibile, sottovalutare.
Ampliando il discorso all’intero, come sempre va fatto, è difficile negare che una sincera preoccupazione per il destino del pianeta Terra condurrebbe a condividere l’affermazione di Guido Morselli: «O genti, volevate lottare contro l’inquinamento? Semplice: bastava eliminare la razza inquinante» [80]. A questo proposito de Giraud conia il neologismo Surpollupopulation, allo scopo di indicare l’inseparabilità della questione ambientale (Pollution) e di quella demografica (Surpopulation).
Si tratta di un dato di fatto indubitabile, poiché il numero sempre più alto e incontrollato degli abitanti del pianeta rappresenta di per sé il rischio più grande. Il pericolo reale non sta infatti nelle abitudini e negli stili di vita delle persone ma proprio nel loro numero fuori controllo. Su stili e abitudini insiste la narrativa della ‘sostenibilità ambientale’ che anche per questo è molto pericolosa, illudendo sul fatto che potremo continuare a moltiplicarci se seguiremo le regole – ovviamente autoritarie e dalle quali le élites politiche sono esentate – imposte dalle multinazionali e dai loro corifei nei media e nei governi; multinazionali che invece contribuiscono in modo primario e pervasivo all’inquinamento del pianeta.
In questo scenario, la lotta per la sopravvivenza non passa più per la continuità genetica che a tutti i costi si vuole garantire duplicando metà del proprio DNA, ma per la scelta egoista e insieme altruistica di non generare nessuna discendenza poiché il prezzo della propria presunta immortalità genetica sarà la morte precoce della specie che vuole durare, a causa dal depauperamento delle risorse disponibili.
A questo punto, l’antinatalismo deve essere auspicato dagli stessi genitori che non intendono recare danno ai propri figli e alla umanità; mentre il suo contrario, la procreazione, «n’est plus seulement un crime contre l’enfant, elle est aussi un crime contre l’Humanité!» [81].
Si tratta di una scelta in linea con il proprio interesse vitale che garantisce non soltanto la specie esistente da una fine altrimenti imminente e da condizioni di vita comunque insostenibili, ma anche quella futura che non dovrà patire tale progressivo impoverimento delle risorse a sua disposizione e ingaggiare per questo la lotta per la sopravvivenza.
Dal punto di vista operativo questo implica un’inversione di marcia nelle politiche familiari incentivanti da parte degli Stati in riforme volte a sostenere le famiglie che fanno figli.
Un altro elemento che dovrebbe far riflettere è il riscatto femminile/femminista dalla sottomissione, la quale è implicita nelle pratiche di maternità e che de Giraud illustra in modo piuttosto vivace: «Tomber enceinte n’équivaut pas seulement à un suicide cosmétique, mai aussi bien souvent, à une déchéance érotique» [82], come ribadiscono due versi di Noël Godin (Ode à l’Attentat pâtissier): «Proclamons qu’à tout coup la femme devient moche / Quand elle est transformée en pondeuse de mioches ! Affermiamo che di colpo la donna diventa brutta / Quando si trasforma in un contenitore di marmocchi!» [83].
In sintesi, gli argomenti a favore della procreazione si possono così elencare: a). un’espressione d’amore; b). la meravigliosa avventura della vita; c). il prolungamento della specie umana; d). il bisogno di lasciare qualcosa dopo di sé; e). gli obblighi religiosi; f). l’utilizzo economico dei figli (il pagamento delle pensioni, ad esempio); g). il fornire soldati allo Stato; h). la maternità/paternità come dispositivo naturale; i). il bisogno/desiderio di avere dei bambini.
A questi argomenti si possono opporre le convincenti obiezioni di filosofi e saggi di ogni epoca e luogo i quali hanno coerentemente rifiutato di fare figli: Talete, Eraclito, Democrito, Platone, Epicuro, Plotino, Avicenna, Leibniz, Voltaire, Hume, Kant, Comte, Kierkegaard, Nietzsche, Wittgenstein, Adorno, Arendt, Cioran.
È vero: la ‘cosa migliore’ è ontologicamente irraggiungibile per chi è già qualcosa: «Nicht geboren zu sein, nicht zu sein, nichts zu sein; non essere nato, non essere, essere niente» [84] ma rimane una soluzione aperta a chi ancora non è.
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