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Alessandro Spina, un romanziere arabo libico di lingua italiana. Per una controstoria

alessandro-spina-ingresso-a-babele-rusconi-1ed-1976di Giulia Castellani

Secondo la definizione tradizionale della storiografia politica il colonialismo consisterebbe nel dominio politico di una potenza esterna su un altro popolo o Stato, mentre la decolonizzazione si identificherebbe con il raggiungimento dell’indipendenza da parte di questi ultimi. Se delineare e circoscrivere tali fenomeni risulta un’operazione di per sé difficile, ciò è particolarmente vero nello specifico libico; all’interno dell’analisi di questo caso, infatti, non emerge una sola datazione riconducibile a questa variabile, bensì ve ne sono diverse, ciascuna con i propri significati e le proprie implicazioni. Tale elemento suggerisce la particolarità del colonialismo sul suolo libico nel quadro comparato e spinge a riaprire il discorso in merito alla periodizzazione.

L’Italia, infatti, perse il controllo materiale sul territorio della Libia a seguito di una sconfitta militare inflitta da altre potenze europee, fattore che comportò l’alterazione della processualità tipica delle decolonizzazioni avvenute in contesti simili. Tale marginalità contribuì a derubricare l’intera questione a un danno collaterale del conflitto e ad allontanare l’evento dalla coscienza pubblica con ancora maggiore facilità a tal punto che si è arrivati a parlare a tal proposito di “decolonizzazione mancata” [1]. A ciò va aggiunto il riposizionamento geopolitico e ideologico associato al cambiamento in itinere dello schieramento bellico che trasportò il popolo italiano dalla parte dei vincitori senza alcuna problematizzazione del proprio passato recente, che lo allontanò al contempo da coloro che erano stati sconfitti e che di conseguenza erano stati classificati come “colpevoli”. Tale presa di distanza fu agevolata dalla rinnegazione del regime fascista, capro espiatorio della nuova Italia, additato come traditore di ideali e complice dei tedeschi secondo la canonica narrazione della favola degli italiani bravagente; per converso, la Resistenza fu dipinta retroattivamente come un atto eroico e consapevole, nascondendo l’aspetto più utilitaristico dietro a questa scelta.

9788843059997_0_500_0_0A gestire gli ex possedimenti del Paese sconfitto subentrarono l’Inghilterra e la Francia. Esse intervennero in qualità di vincitrici del conflitto mantenendo il controllo sostanziale sulla Libia e dividendone le regioni in tre amministrazioni militari; a tal proposito va notata la classificazione binaria dei territori sulla base degli schieramenti bellici, la quale tradisce l’impostazione ancora marcatamente coloniale del discorso: emblematicamente non è messa in dubbio l’idea di possesso e il sistema nella sua complessità [2].

Dal punto di vista libico, l’intervento di potenze esterne come intermediarie comportò inevitabilmente una relativizzazione del rapporto dialettico tra colonizzatori e colonizzati che innescò l’indebolimento delle personalità, dei movimenti e dei partiti che presero le redini delle ex-colonie: le lamentele in merito all’etero-decisione a cui erano stati soggetti non poté non alimentare forti sentimenti vittimistici nei nazionalisti. Pertanto, tale data non è generalmente riconosciuta da parte dei libici in quanto non ha sancito l’inizio dell’autogoverno.

Ciò fu possibile solo ed esclusivamente per una delle tre regioni con la proclamazione nel 1949 dell’Emirato di Cirenaica, a cui fu posto a capo Muhammad Idrīs al-Sanūsī. Nonostante questo evento abbia costituito un primo passo verso l’indipendenza, esso va contestualizzato in quanto si trattò comunque di una concessione da parte dell’Inghilterra, volta per di più a mantenere influenza sul territorio a fronte del progressivo ridimensionamento che stava affrontando come nazione imperialista. Tale soluzione prevedeva, infatti, la permanenza sul suolo libico delle basi militari inglesi, nonché la continuazione della collaborazione e dell’interdipendenza con la potenza esterna.

L’indipendenza stessa del Regno Unito di Libia del 1952 fu paradossalmente dovuta non solo alla permanenza, ma alla «sovrabbondanza e reciproca concorrenza dei diversi progetti coloniali» [3] delle nazioni coinvolte. Per evitare che prevalesse una singola potenza europea sulle altre in competizione si decise di unire dall’alto le tre regioni della Libia; tali territori, però, non solo erano storicamente e politicamente molto diversi, ma erano caratterizzati da una forte struttura sociale tribale. Di conseguenza, l’intero regno fu definito “accidentale” [4] in quanto frutto di interessi assortiti tanto sul piano internazionale quanto locale e si rivelò impossibile creare un’identità nazionale coesa e formare uno Stato moderno centralizzato.

4Nonostante questi eventi, la rinuncia formale da parte dell’Italia avvenne solo nel 1956 con la stipulazione del primo trattato italo-libico all’interno del quale si ratificò il passaggio di sovranità. Sebbene esso riconoscesse la Libia come interlocutrice, essa non era ancora considerata del tutto alla pari dell’ex potenza colonizzatrice in quanto si trattò di un accordo sostanzialmente “ineguale” dato lo stato di necessità in cui versava uno dei contraenti che dipendeva del tutto da esso dal punto di vista economico. Per questo motivo, il trattato fu bersagliato dalla retorica nazionalista del leader egiziano Nasser, il quale colse l’occasione per attaccare il governo che lo aveva stipulato, asservito all’Occidente e ai suoi interessi imperiali piuttosto che dedicato al suo popolo.

Una svolta a questo sistema fu impressa dalla Rivoluzione di Gheddafi del 1969. Indubbiamente Il nuovo leader si impegnò a raggiungere la piena sovranità non contrastando solo l’Italia e il suo colonialismo, ma anche l’intero Occidente e l’imperialismo nella sua forma superiore; tuttavia, così facendo egli pose le basi del suo nazionalismo sull’opposizione alla presenza straniera, canonizzando persino come data fondamentale per la decolonizzazione l’ultima partenza degli italiani nel 1970. Allo stesso modo, la sua adesione al panarabismo, pur essendo volta alla modellazione del sistema internazionale e alla ristrutturazione dei rapporti con l’Occidente e il suo ordine socioeconomico, finì per allontanare ancora di più la fine dell’ingerenza straniera sulla Libia.

Pertanto, bisogna confrontarsi con l’assenza di uno spartiacque netto che definisca inequivocabilmente un prima e un dopo per la fine del colonialismo sul territorio libico. Tale fattore spinge a tenere in considerazione le linee di continuità che legano il periodo coloniale inteso in senso proprio ai momenti successivi, all’interno dei quali è riscontrata comunque l’influenza delle potenze esterne.

In tal senso, dunque, il postcoloniale non può essere considerato come un demarcatore temporale. Il prefisso “post-” non simboleggia una frattura o un distacco dal passato, bensì, come affermato da Gayatri Spivak, esso indica proprio la permanenza della condizione già in essere: 

«In una sorta di ritorsione epistemologica lyotardiana [esso] indica il contrario, ovvero l’impossibilità di un superamento date le dinamiche neocoloniali che hanno caratterizzato la maggior parte dei processi storici di decolonizzazione formale, simboleggia quindi la persistenza della condizione coloniale nel mondo globale contemporaneo» [5]. 

6La problematicità che insorge nel constatare l’estensione di tale fenomeno, però, è legata in gran parte alla cornice interpretativa entro la quale si guarda agli eventi. La tradizionale periodizzazione unica, puntuale e univoca che contempla come variabile solo la sovranità politica risulta quantomeno parziale e quindi non funzionale in questa sede d’analisi; essa può essere sostituita da quella plurima, differenziata e plurivoca della storia sociale, la quale restituisce al meglio il rapporto tra ciascuna congiuntura storica e la comunità che ne fu protagonista.

Pertanto, è necessario portare avanti due operazioni parallele e strettamente legate: da un lato bisogna mettere in discussione le categorie ermeneutiche canoniche, guardando anche ai soggetti canonicamente esclusi dalla narrazione storiografica; dall’altro è bene ripensare i paradigmi epistemologici che hanno guidato la trasmissione tradizionale del passato, introducendo il concetto operativo di Controstoria. Quest’ultima non va intesa come una semplice integrazione alla Storia né tanto meno come un’obliterazione delle vecchie narrazioni tramite l’imposizione di altre nuove, ma ugualmente arbitrarie; si tratta, invece, di prendere atto delle “emergenze” che interrompono la linearità della narrazione che l’Occidente ha costruito di sé. Non a caso, infatti, come evidenziato dallo storico Angelo Del Boca, lo stesso colonialismo era stato tempestivamente “rimosso” [6] dalla Storia e dalla memoria dell’Italia come un elemento considerato patologico per mantenere integra la salute del corpo della nazione.

8A intaccare per la prima volta tale visione dominante furono gli studi postcoloniali con la teorizzazione di Edward Said della formazione discorsiva co-costitutiva del binomio Occidente-Oriente. All’interno della sua trattazione in Orientalismo [7] l’intellettuale operò una rilettura del colonialismo non più come una vicenda riguardante soltanto l’Europa, bensì come un’esperienza comune a entrambi i fronti; allo stesso modo, in Cultura e Imperialismo [8], egli sottolineò come anche la cultura dei colonizzatori (i suoi archivi, i suoi saperi, le sue tradizioni artistico-letterarie), e non solo quella dei colonizzati, debba essere vista come un prodotto dell’esperienza coloniale.

All’analisi storica preliminare, dunque, va aggiunto uno studio che tenga conto della ricezione del fenomeno: solo guardando agli eventi storici da un punto di vista culturale è possibile percepire l’influenza tangibile delle produzioni discorsive. Dal momento che l’imperialismo costituiva un discorso onnipresente nelle pratiche e rappresentazioni culturali, nell’analisi delle produzioni del periodo in questione non si può prescindere dal tenere in considerazione la connessione tra cultura e imperialismo segnalata dall’autore. Il discorso postcoloniale, dunque, deve necessariamente muoversi nei diversi ambiti del sapere in quanto: 

«La letteratura postcoloniale è al contempo intessuta di Storia, cioè la storia collettiva ed ufficiale (la storia politica e la storia della cultura di una nazione), ma anche di storie individuali incarnate dai soggetti della finzione letteraria e dalle prospettive critiche sulla realtà di cui sono portatori gli autori» [9]. 

9A fronte di tale teorizzazione la figura di Alessandro Spina – nom de plume di Basili Shafik Khouzam – appare prestarsi in maniera particolare per questo genere di analisi in quanto permette di problematizzare ulteriormente anche questi nuovi concetti proposti. Egli, infatti, rappresentò sicuramente una figura peculiare nel panorama contemporaneo: libico, ma di ascendenza medio-orientale; arabo, ma di origine maronita; italiano per adozione, ma dal respiro europeo. L’eccentricità dell’uomo e dello scrittore non risiede, però, solo nella difficile definizione della sua identità, ma anche nel suo sovvertire attivamente queste categorie, il rapporto centro-periferia e la contrapposizione noi-loro a esse connesse. Pertanto, nonostante sia importante situare ogni intellettuale nel suo contesto di appartenenza, al contempo risulta altrettanto fondamentale considerare il posizionamento che l’autore scelse attivamente di adottare, al di là della sua specifica collocazione geo-culturale.

Nonostante la sua vita sia stata divisa equamente tra Libia e Italia, la sua crescita intellettuale fu improntata sin da subito alla cultura e alla letteratura occidentale. Di conseguenza, nei periodi di permanenza nella sua terra natia egli si sentiva sostanzialmente un “esule in Africa”; tuttavia, è bene notare come tale condizione non fosse legata al suo attaccamento nei confronti dell’Italia di per sé quanto piuttosto alle sue aspirazioni europee. A fronte di tale distanza percepita, Spina deve fare i conti con l’assenza di modelli letterari ed elementi arabi nella sua formazione che gli permettessero di tradurre la propria esperienza di vita senza tradire alcuna parte di sé stesso: 

«La via d’uscita del romanzo europeo che comprenda l’Africa, un mero fatto visivo, con imprescindibili coordinate eurocentriche, non mi interessava […]. Neppure Joseph Conrad, il principe dei narratori europei sul mondo extraeuropeo; anche lui, seppure capace di ritrarre formidabili figure allogene, non usava lo stesso metodo per rappresentare l’una e l’altra società. Lo straniero (l’africano, l’asiatico) non è ritratto… coi suoi stessi strumenti, ma sempre con gli occhi dell’occidentale, che fatalmente finisce per riferire sempre tutto a sé» [10]. 

Di conseguenza, egli si applicò attivamente nella lettura in età adulta e sperimentò vari possibili approcci per risolvere questo problema etico-stilistico, tanto formale quanto sostanziale. A tal fine Spina si servì dell’aiuto di Salem, suo amico fidato, il quale controllava la produzione dell’autore evitando che incappasse in una narrazione esotica del suo Paese e della società libica. Egli rese plausibile un fatto inedito: l’esistenza di un romanziere arabo libico di lingua italiana.

In questo contesto intellettuale va situata la stesura del romanzo di Ingresso a Babele [11]. Spina decise di collocare la narrazione appositamente in età postbellica nel 1949, scelta che appare peculiare a un primo sguardo, ma che l’autore stesso giustifica: 

«Potrà sembrare strano che io non parli nei racconti del tragico confronto militare in Libia durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma tale conflitto, solo ricordo superstite in Italia della trentennale vicenda coloniale, ebbe a protagonisti italiani, inglesi, tedeschi, francesi e ogni sorta di truppe coloniali dei due grandi imperi (gli australiani hanno lasciato in Cirenaica un ricordo spaventevole, non di violenza sulle persone ma di rapina), tale conflitto, dicevo, portò infinite sofferenze alla popolazione libica, risolse il problema coloniale, ma fu in un certo modo un’epopea, un massacro, si scelga il termine, nel quale i libici ebbero una parte secondaria, passiva quasi, non di spettatori, ripeto, ma solo di vittime quasi casuali, nessuno combatteva per i libici o contro i libici, la Libia offriva solo il teatro di un confronto fra potenze europee» [12]. 

Pertanto, tale omissione è da considerare come intenzionale, dettata addirittura dal corso stesso della Storia menzionato sin ora. Per la medesima motivazione l’ambientazione del romanzo non si limita al territorio della Libia, ma è divisa anche tra l’Italia e l’Egitto, nazioni non estranee alla storia libica, ma anzi coinvolte a vario titolo nella dinamica internazionale delineata in precedenza.

Emblematicamente, il testo prende le mosse dall’arrivo in Italia di un libico, interessato a dirimere una questione riguardo degli immobili di Bengasi. Tale collocazione incipitaria potrebbe sembrare eccentrica nel contesto di un romanzo sulla Cirenaica; tuttavia, essa riveste una funzione strutturale – dato che riflette nella forma la presenza delle potenze esterne anticipata – e strutturante – in quanto imposta sin da subito le relazioni tra i due Paesi ed esplicita i rapporti di forza a esse sottesi. L’Italia, infatti, è subito qualificata come ex-Madrepatria e la sua posizione di rilievo è sottolineata così anche da Spina: «Il discorso doveva cominciare da lì. Ci doveva essere un regolamento di conti. Il romanzo storico è un organismo complesso che ha le sue leggi» [13]. L’autore, dunque si serve proprio del genere della borghesia occidentale per eccellenza, rivendicato a più riprese dalle voci postcoloniali, per far vacillare la struttura apparentemente coerente della narrazione e della narrativa occidentale.

11Inoltre, la questione delle proprietà presentata dall’ex colonizzato appare un’operazione particolarmente difficile dal momento che ormai «erano passati tanti anni, molte carte perdute, eredità, divisioni, difficile capire a chi apparteneva una casa». L’espressione usata nel romanzo rimanda in primo luogo all’eredità materiale e morale del colonialismo italiano, il quale nel 1943, a seguito della guerra, aveva lasciato la Libia in uno stato di devastazione e indigenza; in secondo luogo, è evidente il riferimento alla spartizione del territorio che era avvenuta nel medesimo anno tra le varie potenze europee. Non a caso, la ricerca a ritroso porta il lettore a chiedersi chi siano i legittimi proprietari di tali beni: il libico li sta cercando all’interno delle famiglie degli ex coloni, presenza ingombrante in questo incipit, ma avrebbero dovuto essere sin da principio i libici stessi. Di conseguenza, gli occidentali si presentano come hantés dell’illegittimità della loro presenza.

A testimonianza di ciò è posto il personaggio del Professore, il quale rappresenta la collettività degli ex coloni di Libia e la loro condizione tanto sociale quanto psicologica. La sua parabola individuale, infatti, rispecchia quella della collettività cui appartiene; egli fa parte delle vecchie generazioni, le quali sono associate generalmente al fascismo, ma che Spina situa di proposito in una cornice storica più ampia: contestualizzando l’identità di tale personaggio in tutti rivolgimenti politici che si erano avvicendati in Italia all’epoca, il regime di Mussolini arrivava a presentarsi solo come una «forma accidentale e volgare di più costanti forze». Proprio tramite tale connotazione l’autore evita di cadere nell’eccezionalismo, reinserendolo nella Storia nazionale più ampia e contravvenendo la tradizionale distinzione artificiale tra la colonizzazione liberale e quella fascista.

Emblematicamente tale personaggio è caratterizzato tramite la sua relazione con l’esterno e l’Alterità, rispecchiando la costruzione dell’Occidente sull’Oriente sopracitata. Dal punto di vista antropologico, i coloni si trovarono a interfacciarsi con un contesto sociale e politico altamente concorrenziale, il quale innescò una forte retorica dell’Identità, portando a una ripetitività meccanica e in ultima analisi all’isolamento [14]. In questo contesto si inserisce la presenza del giornale «Il Corriere», elemento che, analizzato da una prospettiva culturale, evidenzia il valore delle produzioni discorsive e delle narrazioni, le quali guidano l’interpretazione del reale riconducendo i dati a schemi intellegibili e codici condivisi. Tuttavia, tale operazione, fondamentale per l’integrità e la coesione del gruppo, finì per declinarsi non solo nell’indipendenza dal reale, ma anche nello specifico senso di vittoria sull’Alterità; ciò andò a discapito di ogni possibile relazione sana con la controparte della quale non si compresero i segnali e si sottovalutarono le istanze al fine di mantenere lo status quo e un’illusione di controllo.

A rompere l’equilibrio del Professore e, per sineddoche, della collettività che egli rappresenta è il passato coloniale che torna a bussare a distanza di anni da luoghi ormai percepiti come lontani. Così Spina tematizza l’incontro con i colonizzati, il quale – paradossalmente – non avviene nella Libia coloniale, bensì nell’Italia ormai ex Madrepatria e alla luce di nuove relazioni di potere. In questo contesto è introdotta la figura di Ezzedin, il libico sopracitato, il quale si va subito a configurare come il portatore di un nuovo ordine prendendo la parola davanti agli ex colonizzatori, atto prima del tutto inconcepibile. Tuttavia, facendosi portavoce delle istanze della sua comunità, egli finisce inavvertitamente per assumere su di sé il ruolo di “informante nativo” concettualizzato dalla studiosa Gayatri Spivak all’interno di Can the Subaltern Speak? [15]. Nel contesto dell’interazione, infatti, egli è chiamato a rappresentare la Libia nella sua interezza, concepita come un sistema unitario e totalizzante, contrapposta alla razionalità europea e occidentale, intesa come misura della realtà e chiamata in causa per promuovere un’opera di modernizzazione. Secondo Spivak, tale figura sarebbe stata funzionale all’autorappresentazione e all’autocelebrazione dell’Occidente, costituendo il “fuori” che avrebbe dato sostanza e senso al “dentro” nel meccanismo identitario di inclusione ed esclusione sopracitato. Nello specifico, l’esame condotto dalla studiosa evidenzia come all’interno del discorso coloniale, ma anche in quello postcoloniale – seppur in forme diverse –, tale figura si riveli al contempo necessaria e “forclusa” in quanto la sua voce è ascoltata e la sua presenza significata solo all’interno del discorso che la nomina in funzione del Sé occidentale.

20Una volta giunto in Italia Ezzedin si confronta con lo stato di rimozione in cui essa versava al termine della guerra. Il Professore, infatti, parlando del destino della Libia non appare contemplare affatto l’indipendenza del Paese: in questo modo si manifesta la violenza epistemica che marca come insensate tutte le forme di resistenza e le idee che non rientrano negli schemi di senso previsti; tramite la negazione dell’agency dei libici, questi soggetti vengono infantilizzati e vittimizzati proprio al fine di giustificare l’intervento di civilizzazione e modernizzazione delle potenze esterne. Per converso, infatti, egli non esita a citare il passaggio di consegna agli inglesi, seppur con un certo sostrato di malinconia: se essi erano stati accolti come liberatori in Madrepatria, in colonia erano visti come usurpatori.

A questa visione si unisce la speculazione di un altro personaggio italiano, ovvero Tommaso, il quale, pur ritenendo possibile l’indipendenza libica, sottolinea a più riprese l’impreparazione politica della nazione che sarebbe dovuta nascere a breve e la conseguente necessità di un protettorato esterno. All’interno della logica del romanzo egli si configura come il portavoce del punto di vista delle nuove generazioni, nate e cresciute con la retorica italiana del dopoguerra che aveva seguito il riposizionamento geopolitico e ideologico del Paese. Di conseguenza, la loro prospettiva risultava influenzata dall’educazione impartita al termine di questi rivolgimenti, la quale aveva del tutto cancellato la precedente fase di confusione a essi legata e aveva determinato un atteggiamento purista nei giovani. Non a caso è proprio Tommaso a far riferimento ai partigiani, tematica ampiamente dibattuta da Spina stesso all’interno del suo Diario di lavoro [16]: «L’Italia ha gonfiato la Resistenza, se ne parla ogni giorno, e sgonfiato il colonialismo, non più di moda. Ci si vanta della Resistenza, ignorando ciò che la precede» [17].

A questo personaggio, Spina affianca una figura femminile non nominata direttamente, ma identificata solo come la madre di Fausta. L’anziana è rappresentata nell’intento di mettere per iscritto la propria memoria familiare per le nuove generazioni, le quali altrimenti non avrebbero modo di accedere al passato nella sua interezza. È interessante notare come essa si faccia volontariamente carico del ruolo di testimone e da dove derivi la sua volontà di scrivere: la donna, infatti, non sente la sua esperienza di vita riconosciuta nella Storia tradizionale e per questo intende adoperarsi a redigere la propria Controstoria [18]. A questo punto da un lato l’errore di prospettiva del giovane Tommaso appare evidentemente indotto dalla limitatezza del suo campo visivo: egli si dichiara inorridito dal fascismo, ma non avendo vissuto l’età liberale e il colonialismo cui essa diede inizio, non ha i mezzi per apprezzare le continuità che avevano caratterizzato i due periodi storici. Dall’altro, invece, il punto di vista dell’anziana è sicuramente più completo. Tuttavia, è bene notare come anche la sua narrazione sia in realtà filtrata e influenzata dalla sua esperienza di vita, elemento che spinge a tenere a mente la natura della memoria quale “selezione sociale del ricordo”: essa non va vista come un dato naturale, bensì come una serie di discorsi che le comunità producono in relazione alla propria identità al fine di attribuire un senso alla realtà.

Spina, dunque, problematizza direttamente e indirettamente l’atteggiamento di entrambi. Tutti e due i personaggi sono colti nell’atto di ricordare una sola parte – accuratamente selezionata – della Storia e di imporre pedagogicamente all’ex colonizzato tale visione in maniera strumentale. L’intera operazione è commentata così dallo scrittore: 

«L’Italia turrita e spaccona delle meschine avventure coloniali scompariva sprofondando in uno strato della memoria al di là delle passioni. Mazzini, i Savoia, Garibaldi, Silvio Pellico, Tito Speri, i fratelli Bandiera…: i maestri coloniali avevano l’impudenza di invocare i loro santi nell’educare un popolo in catene! Quella donna aveva mobilitato il suo passato non per legittimare l’ingiustizia ma per invocarne la remissione» [19]. 

A ciò l’autore aggiunge in maniera estremamente lucida per l’epoca un resoconto della tendenza cui si stava assistendo in Italia, ovvero la discrasia esistente tra le istituzioni e il pubblico generale. A Roma erano rimaste in carica le stesse figure dirigenziali e si stava ancora tentando un ritorno al dominio diretto sui territori delle ex colonie; sulla base di questa condizione minima è possibile affermare il carattere coloniale della nuova Italia repubblicana: essa ambiva a recuperare il suo status internazionale e gli ex possedimenti erano stati così rivendicati in una logica di «continuità della politica estera al di là di ogni rivolgimento interno» [20]. A Milano, invece, la questione era già stata dimenticata e l’intero problema ora appariva irreale, resuscitato artificiosamente dalle trattative fra le grandi potenze: nessuno pensava di tornare in Libia, passato e colpe coloniali dimenticati, l’intero dossier perito in un momento neppure individuato della storia nazionale. In questa fase secondo Alessandro Spina, l’Africa si trasforma per gli europei in un palcoscenico e l’impresa coloniale sfuma nella finzione, nello spettacolo e nell’avventura epica facendo dimenticare all’Italia il dramma dei colonizzati. Nella produzione di Spina tale mancanza di una presa di responsabilità sarebbe legata proprio a questo distacco, al trattare la colonia come spazio irreale, anzi come spazio narrativo. Se la colonia era stata descritta in precedenza come luogo di finzione, palcoscenico creato per una messinscena intrisa di connotazioni ideologiche, l’autore in questo modo critica l’astrazione dell’esperienza africana da parte degli italiani e la rimozione nella finzione di colpe storiche oggettive.

22A rompere la linearità dell’Occidente è nuovamente Ezzedin, il quale passa al vaglio tanto la narrazione canonica della Storia quanto le opinioni esposte dai personaggi italiani in questa sede in qualità di “testimone oltremarino”. Proprio a partire dai suoi ricordi dell’ingiustizia e dell’ineguaglianza subita, totalmente rimossi dai ricordi degli ex colonizzatori, emerge la natura costruita della Storia e le dinamiche di potere sottese alle relazioni tra le parti in questione, fattori che influenzarono e determinarono materialmente l’immagine che si concretizzò nella tradizione. Tuttavia, come appare evidente, la figura del libico è ancora in una fase chiaramente oppositiva.

Al rientro in Libia Ezzedin si deve confrontare, invece, con la realtà della Libia alla soglia dell’indipendenza della Cirenaica. Egli rende conto del proprio viaggio e della propria esperienza: in questo modo l’ambientazione contesa tra i due Paesi permette a Spina di ritrarre la prospettiva di entrambi, ma soprattutto l’immaginario di ciascuno dei due in relazione all’altro andando a ricomporle in un’unica storia comune.

Per quanto l’amnesia italiana sopracitata fosse stata denunciata come colpevole, essa ora rappresentava anche un “balsamo liberatore”: «La partenza del colonizzatore liberava il colonizzato da una parte obbligata: la difesa dei valori tradizionali. Iniziava un altro viaggio: del colonizzato, nella ricondotta molteplicità del possibile» [21]. Sebbene ciò avesse potenzialmente una connotazione positiva, è bene sottolineare come anche in questo caso si manifesti l’influenza dell’Occidente e dei suoi schemi di pensiero; a tal proposito va citata la Babele del titolo, la quale, geografica e culturale, rappresenta la modernità occidentale intrisa di relativismo e di una molteplicità di punti di vista, contrapposta alla società tradizionale della Libia. Una volta terminata la lotta con l’esterno, infatti, si scatena naturalmente la divisione interna, soprattutto in Cirenaica, regione il cui separatismo era supportato dall’Inghilterra.

A sottolineare la continuità dell’ingerenza esterna all’interno del testo è la figura del personaggio inglese Joseph; ancora una volta l’evoluzione della sua esperienza di vita individuale appare rispecchiare quella del suo Paese, ritratto nel grand replì. In questa sezione del romanzo Spina dà conto della permanenza sul suolo libico delle piccole basi militari in tutta la loro eccezionalità, ma le situa anche sapientemente all’interno della circolarità della storia più ampia: alla fine della sua parabola il colonialismo tornava alle sue premesse quando pochi empori e luoghi militari garantivano gli interessi economici e strategici del Paese. Inoltre, la presenza inglese è ritratta in tutta la sua ambiguità: in questo frangente storico non era ben chiaro se si sarebbe trattato di un esercito liberatore o di un nuovo padrone, ma comunque era evidente la volontà di continuare a intrattenere rapporti di natura quantomeno economica: l’Occidente ricercava nuovi consumatori, “nuovi sudditi al sistema coloniale economico”.

Un’importante posto è poi riservato alla trattazione degli schieramenti in cui si dividevano i libici al 1949. Secondo la visione di Spina, gli unionisti panarabisti sarebbero stati colpevoli di voler rinunciare al proprio passato, accorpando la Libia alle nazioni vicine; di conseguenza, se essi avessero vinto sarebbero riusciti addirittura dove aveva fallito il colonialismo, ovvero nel sottrarre l’identità al proprio popolo. I nazionalisti, invece, rigettando l’ordinamento tribale sarebbero stati soggiogati all’esempio europeo e non avrebbero fatto altro che riprodurre il binarismo coloniale della retorica noi-loro. Tramite questo genere di riflessioni Spina tematizza tanto l’impossibilità di tornare alla realtà precoloniale quanto la problematicità insita nell’imitazione dell’Occidente e delle sue categorie di pensiero. Pertanto, egli sceglie di trattare tale frangente della storia del Paese africano non celebrando acriticamente né la lotta verso l’indipendenza né l’arrivo alla modernità a esso presumibilmente connessa. Da un lato, dunque, Spina denuncia il progetto attraverso la delegittimazione del nativismo e del tradizionalismo, potenzialmente al servizio delle nuove élites al potere; dall’altro egli rifugge anche l’esaltazione del passato operata mediante la categoria di un’identità nazionale “pura” o “autentica”. In questo senso la retorica dell’identità non si configurerebbe come una semplice forma di resistenza, bensì sarebbe nuova forma di mistificazione. Pertanto, risulta evidente l’anti-essenzialismo dell’autore, manifestato nel rifiuto del presupposto epistemologico secondo cui le diverse forme dell’identità socioculturale non sarebbero altro che l’espressione di qualche attributo etnico innato e quindi fondate su principi astorici. Emblematicamente Spina manifesta la propria avversione sia verso l’etnocentrismo occidentale sia verso il nazionalismo anticolonialista tanto nella sua variante liberal-borghese quanto in quella di ispirazione marxista. In questo modo l’autore abbraccia uno degli imperativi etici delle strategie discorsive della futura critica postcoloniale.

24In ultima analisi, dunque, l’intero romanzo appare cogliere una tendenza generale, ovvero la crisi delle certezze associata all’inizio della decolonizzazione, processo che comporta la frammentazione di un’identità prima semplice e monolitica. Tale crisi colpisce tanto i colonizzati quanto i colonizzatori, ritratti nel momento di passaggio dal dramma collettivo del colonialismo all’incertezza delle sorti individuali, motivo per cui Spina stesso definisce i propri personaggi come intrinsecamente “vinti” usando il lessico verghiano. Il merito di Spina consiste, dunque, nell’esser riuscito a produrre un testo impregnato di ambiguità, tra l’avventura storica e letteraria, individuale e collettiva nel viaggio da una civiltà a un’altra, nelle due direzioni, dalla certezza al dubbio, dall’azione alla contemplazione. 

Alla luce di queste riflessioni appare estremamente difficile collocare questo autore e il suo testo nel panorama letterario italiano. Il caso della letteratura italiana risulta peculiare alla luce dell’assenza di una vera e propria migrazione verso la Madrepatria al momento della decolonizzazione e del successivo “ritardo” italiano nell’emergenza delle scritture postcoloniali – oltre che della quasi totale mancanza di quello che altrove è chiamato “periodo dell’assimilazione” in cui scrittori residenti nelle colonie prendono la parola nella lingua dei coloni. Di conseguenza, la produzione postcoloniale italiana è una zona letteraria dai confini sottili, labili, con ampie aree di sovrapposizione e condivisione [22]. 

A questa difficoltà di categorizzazione contribuisce anche la complessità insita nello stabilire se uno scritto o un autore nel suo complesso possano essere definiti “postcoloniali”; pertanto, è bene iniziare ragionando sui criteri di valutazione su cui è basata la distinzione per poi applicarla. La concettualizzazione generalmente riconosciuta, infatti, considera la postcolonialità come una prerogativa biografica, geografica e linguistica, prima che epistemologica e letteraria. Sebbene gli autori non vadano considerati come riflessi di un’ideologia, è evidente che i loro scritti prendano forma in tensione con lo spirito dell’epoca e, di conseguenza, risultino inscindibili dall’esperienza di vita di ciascuno di essi. Tuttavia, come sottolineato dalla studiosa Nora Moll [23], la capacità di produrre testi postcoloniali dei colonizzati non è legata alla condizione postcoloniale o alla genetica; allo stesso modo, secondo l’opinione di Claudio Milanesi  [24] non si può dar per scontata la potenzialità innata delle classi subalterne di rovesciare lo sguardo dominante.

Un’interessante conseguenza di ciò è sicuramente la riscoperta dell’autore, il quale, relegato ai margini nell’approccio testuale e interno di Roland Barthes, ricomparirebbe ora all’orizzonte analitico. Nonostante tutto è innegabile l’effetto sulla ricezione di un testo del dato esperienziale, il quale guida la fruizione dell’opera che, così, sembrerebbe intrattenere un rapporto privilegiato con la realtà messa in scena nei testi, un legame in un certo senso più legittimo. Tuttavia, ciò tende a chiudere l’opera e la sua interpretazione, facendo dell’autore una categoria ermeneutica e una norma di senso.

Sebbene la dimensione testimoniale rivesta una funzione centrale nella narrazione delle Storie e Controstorie in questione, è altrettanto importante considerare tutti gli altri aspetti che la rendono interessanti dal punto di vista critico. Tra di essi emergono la riscrittura di forme e generi con l’innovazione a essa connessa, l’impegno nel decentrare il discorso imperialista noi/loro e centro/periferia, ma anche l’impatto sul canone letterario e sulla narrazione tradizionale del passato. A tal proposito risulta funzionale il concetto di contro-narrazione segnalato così dalla studiosa Giulia Benvenuti: «Il racconto, infatti, serve a supportare un punto di vista alternativo e talora anche oppositivo, che ri-scrive la vicenda storica e il passato da un angolo di visuale differente da quello cui lo scrittore italiano “integrato” è solito guardare al proprio Paese e alla sua storia» [25]. Tale caratteristica, infatti, risulta sicuramente più indicativa per la categorizzazione di un autore. Spina stesso, nonostante l’identità ibrida legata alla sua biografia, non si fece guidare acriticamente da essa, ma scelse in maniera attiva e intenzionale il proprio posizionamento: «Non solo non ho sofferto né qui né lì: ma accettato da ambe le parti, rifiuto l’integrazione totale e conservo la parte di estraneo volontariamente. Sorta di scelta di libertà e del cammino più difficile (e fecondo). Bisogna che gli scandali avvengano! E l’estraneità è scandalo perpetuo» [26].

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Le prime linee indicate in A. Del Boca, Le conseguenze per l’Italia del mancato dibattito sul colonialismo, in «Studi piacentini», 5, 1989:115-128, sono state precisate da L. Pastorelli, Una precoce decolonizzazione. Stampa e ambienti coloniali italiani nel secondo dopoguerra, in «Studi piacentini», 2000, n. 28; G. Calchi Novati, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma, 2011. 
[2] Alla luce di queste considerazioni ho scelto di sottolineare all’interno del titolo l’internazionalizzazione che caratterizzò il fenomeno della decolonizzazione in Libia, la quale spinge a superare la visione tradizionale del colonialismo.
[3] Tale fortunata espressione è usata appositamente dal Segretario di Stato americano Cordell Hull all’interno del resoconto di questi eventi in C. Hull, The Memoirs of Cordell Hull, Volume II, Hodder & Stoughton, Londra, 1948: 1638.
[4] D. Vandewalle, A History of Modern Libya, Cambridge University Press, Cambridge, 2012: 40.
[5] G. Spivak, The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, a cura di S. Harasym, London, Routledge, 1990: 166.
[6] A distanza di cinquant’anni dalla sua teorizzazione appare sempre più necessario rimuovere tale rimosso. Tale concetto, infatti, è stato veicolato inalterato dal discorso pubblico-accademico per così tanto tempo da essere ormai canonizzato come categoria interpretativa; al contrario, è bene recuperare il suo portato etico e politico, riconoscendo una volta pe tutte la violenza insita nella stessa trama storico-strutturale della nazione come proposto dal professor Miguel Mellino nel contributo online M. Mellino, Che cosa ci facciamo con tutto ciò che sappiamo?, «Machina rivista», 4 marzo 2022, https://www.machina-deriveapprodi.com/post/che-cosa-ci-facciamo-con-tutto-ci%C3%B2-che-sappiamo, consultato in data 10/04/2025.
[7] E. W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; ed. or. Orientalism, Vintage Books, New York, 1978.
[8] Id, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Gamberetti, Roma, 1982; ed. or. Culture and Imperialism ,Knofp, New York, 1993.
[9] F. Sinopoli, Postcoloniale italiano, tra letteratura e storia, a Cura di Sinopoli F., Novalgos, Aprilia, 2013: 9.
[10] A.  Spina, postfazione a I confini dell’ombra, Morcelliana, Brescia, 2006.
[11] Id., Ingresso a Babele, Milano, Rusconi,1976.
[12] Id., Diario di lavoro, Morcelliana, Brescia, 2010: 191, appunto datato 29 settembre 1982.
[13] Id., postfazione a I confini dell’ombra, op.cit., 2006.
[14] A tal proposito segnalo il contributo G. Castellani, Storie e memorie dalla Quarta Sponda alla madrepatria: da coloni in Libia a profughi in Italia, «Dialoghi Mediterranei», n. 66, marzo 2024, consultato il 3 marzo 2025, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/storie-e-memorie-dalla-quarta-sponda-alla-madrepatria-da-coloni-in-libia-a-profughi-in-italia/;
[15] G. Spivak, Can the Subaltern Speak? in «Marxism and the Interpretation of Culture», a cura di C. Nelson e L. Grossberg, Urbana/Chicago: University of Illinois Press, 1988: 308
[16] A. Spina, Diario di lavoro, Morcelliana, Brescia, 2010.
[17] Ibidem: 133.
[18] A tal proposito si deve necessariamente rapportare questo dato con il profluvio di memorialistica di carattere privato che è nato e si è sviluppato in relazione all’abbandono delle colonie. I coloni, infatti, non solo subirono la maturazione delle istanze antimperialiste che portarono all’esodo, ma furono anche prontamente marginalizzati e dimenticati dalla propria stessa patria una volta rientrati come scomodo ricordo dell’avventura coloniale. Per una trattazione più estesa di tale problematica si veda il contributo di Maurice Actis-Grosso, Tra colonialismo ed espulsione, la duplice memoria defraudata degli italiani della Libia in Ghibli di Luciana Capretti«Narrativa», 33-34 | 2012, 1 maggio 2022, consultato il 1 aprile 2025, http://journals.openedition.org/narrativa/1473; DOI: https://doi.org/10.4000/narrativa.1473.
[19] A. Spina, Ingresso a Babele, Milano, Rusconi, 1976.
[20] G. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza (1941-1949), Giuffrè Editore, Varese, 1980: 581.
[21] A. Spina, Ingresso a Babele, Milano, Rusconi, 1976.
[22] Per una ricognizione esaustiva degli studi attuali si veda M. G. Negro, Il mondo, il grido, la parola: la questione linguistica nella letteratura postcoloniale italiana, Firenze, Franco Cesati, 2015. 
[23] N. Moll, “Studi interculturali e immaginari mondiali”, in A. Gnisci, F. Sinopoli, N. Moll, La letteratura del mondo nel XXI secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2010: 186
[24] C. Milanesi, Suggestioni postcoloniali nel new italian epic. Il caso Momodou L’anatra all’arancia meccanica, «Narrativa», 33-34, 2012: 275-283.
[25] G. Benvenuti, Il romanzo neostorico italiano. Storia, memoria, narrazione, Carocci, Roma, 2012.
[26] A. Spina, Diario di lavoro, Morcelliana, 2010, p. 191, appunto datato 29 settembre 1982.

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Giulia Castellani, studentessa della magistrale di Filologia Moderna presso l’università di Roma La Sapienza. È laureata in Lettere e culture moderne con una tesi dal titolo “Quarta Sponda: tra storia e memoria. Gli italiani in Libia, da coloni a profughi. Un approccio antropologico”, conseguita nell’anno accademico 2021-22.

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