Stampa Articolo

Al-Jazeera ovvero le ambiguità politiche di un fenomeno mediatico

The logo of  Al Jazeera Media Network is seen at the MIPTV, the International Television Programs Market, event in Cannesdi Lisa Riccio

L’ultima crisi del Golfo ha posto al centro dell’attenzione mondiale non solo le ormai vecchie rivalità e antagonismi fra le due più potenti petromonarchie, ma anche il nuovo peso che una rete televisiva, che dovrebbe essere mezzo di informazione e non strumento di pressione politica (secondo almeno l’etica giornalistica occidentale), può assumere nei negoziati volti a porre fine a una crisi diplomatica. Ancora una volta, infatti, al-Jazeera sembra aver assunto un ruolo talmente cruciale e importante in seno alle dinamiche di potere interne allo scacchiere geopolitico del Golfo da fare della sua chiusura uno dei punti principali delle richieste saudite quali precondizioni alla riapertura delle relazioni diplomatiche.

È indubbio che in modo crescente e con diverse articolazioni, dalla fine del xx secolo ad oggi, il network al-Jazeera sia andato confermandosi, tanto a livello locale, quanto a livello globale, come uno dei principali mezzi di informazione e produzione di discorsività. Proprio il suo rinnovato ruolo mediatico e politico chiave,  la sua capacità di modellare nuovi rapporti di forza nell’attuale panorama geopolitico e l’ormai affermato successo di diffusione globale, hanno portato molti analisti [1] ad interrogarsi su vari, fondamentali aspetti che la riguardano. I principali interrogativi, di fatto, concernono: valori e orientamenti editoriali; ruolo politico e strategico; metodologie di ricerca e produzione dell’informazione; diversificazione dei produttori e destinatari della notizia; natura integrata o alternativa; ruolo egemonico o subalterno.

A mio avviso, al-Jazeera non può essere categorizzata semplicemente come medium alternativo, e nemmeno come discorsività radicale o spazio di diffusione di opinioni di opposizione e dissenso politico. Il network qatariota è infatti tutto ciò e molto di più, e per provare ad analizzarlo, usare solo le categorie epistemiche occidentali, specie quelle standard dedicate ai nostri media, rischia di mettere in ombra alcuni aspetti, caratteristiche e sfaccettature fondamentali. Valga, su tutti, un esempio: si usa spesso classificare al-Jazzera come medium alternativo, senza tuttavia spiegare rispetto a chi ed in quale contesto. Il tentativo di analisi nasce dunque dalla volontà di indagare la natura così apparentemente contraddittoria e “altra” di un medium che ormai da anni è oggetto di dibattito tra quanti, ottimisticamente e, aggiungerei, con scarsa lungimiranza, vi intravedono una fonte di informazione alternativa promotrice di cambiamento sociale e quanti piuttosto la categorizzano quale broadcast radicale e come spazio di diffusione di opinioni di opposizione e dissenso politico.

In linea con questo obiettivo ho ritenuto opportuno partire dalla spiegazione di cosa può essere considerato “alternativo” – quali sono le caratteristiche fondanti di questa categorizzazione e in che modo esse differiscono dalle caratteristiche dei media mainstream – e i modi di costruzione identitaria dell’alterità, da cui deriva la costruzione e concettualizzazione del carattere alternativo di un media rispetto ad un altro. Servendosi di questi strumenti teorici, questo contributo cerca di comprendere non solo se, come anticipato, al-Jazeera presenti le caratteristiche di base del modello teorico di media alternativo delineato, ma anche se proprio questo tipo di categorizzazione risulta essere adatta all’analisi del fenomeno al-Jazeera oppure si tratta dell’ennesimo tentativo di riordinare secondo schemi e categorie nate all’interno della tradizione occidentale un fenomeno che proprio a causa della sua contraddittorietà necessita di una categorizzazione e dell’attribuzione di un assetto familiare analizzabile.

1

Manifestazioni di palestinesi contro il network Al Jazeera per la divulgazione di documenti sulle negoziazioni fra Israele e Palestina (ph. Hazem Bader, Getty Images, Hebron, 28 gennaio 2011)

Secondo Atton [2] la categorizzazione di un media come “alternativo” si fonda su un proprio modo di costruzione della notizia basato su una proposta di valori alternativi che si allontanano dunque da quelli tradizionali di obiettività e professionalità, nonché su nuovi meccanismi e modalità di raccolta delle notizie e, conseguentemente, un nuovo tipo di accesso al processo di produzione della notizia. Quest’ultimo aspetto risulta essere particolarmente rilevante nella definizione della categoria concettuale di media alternativo. Nel suo modello di propaganda, Chomsky [3] fa proprio dell’accesso alla proprietà dei media e, dunque, dell’accesso al modo di produzione delle notizie il primo filtro attraverso cui le notizie devono passare prima di arrivare alle redazioni. Filtro che trova la sua origine nell’«esistenza di profonde diseguaglianze nella disponibilità delle risorse economiche in termini di accesso al sistema privato dei media e di capacità di incidere sulla sua attività e gestione» [4].

L’accesso, dunque, inteso come capacità e possibilità di entrare nel circuito informativo di produzione di significato, definisce l’obiettivo stesso dei media alternativi, ossia garantire l’accesso al processo di produzione del messaggio-notizia a quelle categorie sociali che sono, anche e soprattutto a causa delle disparità economiche, non solo escluse ma anche incapaci di entrarvi con la stessa facilità delle élite. Se nei media mainstream dunque vi è un flusso unidirezionale di notizie da un produttore a un destinatario e quest’ultimo non ha possibilità di accesso al processo di produzione della notizia, il concetto di media alternativo prevede, invece, un modello contro-egemonico basato su una struttura orizzontale opposta al sistema gerarchicamente strutturato di produzione della notizia dei media mainstream. In altre parole, tale categorizzazione presuppone non solo un diverso ed eterogeneo contenuto del messaggio rispetto a quello proposto dai media mainstream, ma anche e soprattutto diversi modi di produzione e diffusione dello stesso.

Centrale nel modello di media alternativo è, dunque, la possibilità degli attori sociali di superare il tradizionale schema informativo, che vede un produttore del messaggio e più fruitori dello stesso (centro>periferia), consentendogli di poter divenire produttori attivi di contenuti [5]. Conseguentemente risulta necessario accennare alla situazione comunicativa di base per comprendere in che modo nei media alternativi i processi comunicativi e le relazioni fra le varie posizioni comunicative si trasformano e si allontanano da quelle su cui i media mainstream si basano. In una situazione comunicativa semplice un emittente invia un messaggio, tradotto in un codice, ad un destinatario tramite un determinato canale comunicativo. Nell’applicazione di tale modello ai media alternativi occorre osservare come in esso le due posizioni comunicative di mittente e destinatario sono polari e fisse mentre in questi ultimi esse tendono non solo a sovrapporsi ma a confondersi l’una nell’altra dando vita ad un nuovo tipo di posizione comunicativa. Tale posizione, non presupponendo più un ricevente passivo, si caratterizza piuttosto per la sua dinamicità nel passaggio da fruitore a produttore della notizia in un sistema orizzontale e non gerarchizzato [6].

2Ne emerge una situazione in cui è il destinatario del messaggio-notizia a decidere non solo il contenuto di quest’ultimo, secondo criteri di responsabilità e importanza sociale propri, ma anche la forma che esso assumerà. Qui risiede la specificità dei media alternativi rispetto a quelli mainstream. Le nuove alternative modalità di “accesso”, infatti, permettono di pensare un tipo di giornalismo in cui ai valori di obiettività e oggettività viene sostituita un’etica basata sui principi di responsabilità, partecipazione sociale e sulla messa in discussione dello status quo legittimato e istituzionalizzato [7], in cui i mittenti-destinatari della notizia, nello svolgimento di un ruolo attivo nella produzione della stessa, «could make thei rown news, wether by appearing in it as significant actors or by creating news relevant to their situation» [8]. È proprio in questo passaggio, allora, che il tradizionale fruitore della notizia viene attivamente coinvolto nella creazione di contenuti rilevanti ai fini di cambiamento e trasformazione sociale.

Nella sua tipizzazione di alternative media, Atton si spinge ancora oltre mettendo in evidenza l’inscindibilità e compenetrazione degli stessi ruoli di scrittore ed editore che non trovandosi più su scalini diversi della scala gerarchica (con riferimento sia alla proprietà sia all’organizzazione interna di un’emittente) offrono un modello informativo multidimensionale strutturato orizzontalmente e basato su principi etici, modalità di costruzione, forme e contenuti, diversi e alternativi a quelle dell’informazione mainstream. Tirando le somme, dunque, il processo di raccolta e costruzione delle notizie all’interno dei media alternativi trova la propria peculiarità nel suo basarsi su un sistema orizzontale e non gerarchizzato che, ispirandosi a valori alternativi quali importanza e responsabilità sociale, rende possibile la scelta di contenuti, creati dalle stesse categorie subalterne (intese qui come coloro che non hanno possibilità di accesso all’interno del circuito informativo) e destinati a generare un sensibile impatto sulla loro realtà e quotidianità.

La ricognizione sulla situazione comunicativa semplice ci permette di introdurre il secondo punto di riflessione, ossia la costruzione identitaria dell’alterità da cui derivano la costruzione e la concettualizzazione del carattere alternativo di un media rispetto ad un altro. Uno stesso messaggio-notizia, infatti, può ed è assimilato tramite filtri dettati dal contesto culturale, sociale, legale ed economico nel quale è calato. Ne deriva che la stessa concettualizzazione di ciò che è alternativo è relativa e dipendente non solo dalla definizione di un’identità “altra” ma anche dall’auto-attribuzione di un’identità. “L’essere alternativo” può derivare non solo da ciò che categorizziamo come esogeno, diverso e lontano da noi ma anche dall’auto-rappresentazione di un’identità, un’identità che, essendo auto-prodotta, è interiorizzata come “nativa”.

Poiché nel modo di produzione orizzontale e contro-egemonico della notizia lo scrittore ed editore non è semplicemente creatore di un messaggio-notizia bensì partecipante e protagonista attivo degli eventi in corso, la prospettiva da cui avrà origine la narrazione sarà una prospettiva endogena, nativa, su cui poi si innesta una narrazione fortemente incentrata su tematiche rilevanti alla comunità stessa da cui il racconto emerge. Una narrazione dunque in cui i protagonisti si autorappresentano portando con sé tutte le problematiche e complessità della loro quotidianità. Si noti, inoltre, come l’autorappresentazione della propria identità come “nativa” o “indigena” rispetto ad un’altra, possa suscita nel pubblico un’idea di affidabilità e maggiore vicinanza alla realtà poiché sarebbero i suoi stessi protagonisti ad auto-narrarsi.

Dunque, la concettualizzazione di “nativo” o “indigeno”, che nasce dallo scontro-opposizione con ciò che proviene dall’esterno, è attivamente coinvolta nel processo di costruzione di un’identità alternativa rispetto a ciò che nativo non è. Se contestualizzato all’interno del campo dell’informazione odierno, l’opposizione esogeno”/“endogeno potrebbe essere correlato alla  dicotomia confronto-scontro, trattata in Della Ratta, fra il monopolio occidentale sulla narrazione degli eventi − in questo senso tali media vengono identificati come strumenti dell’imperialismo dei media occidentali [9] − e la rivendicazione del diritto a una narrazione “nativa”, “indigena” e “altra” rispetto alla prima da parte di organizzazioni media nati all’interno della stessa regione araba. Una narrazione in grado di far emergere un percorso interpretativo della realtà basato su categorie di pensiero e ragionamento diverse da quelle che hanno impregnato la narrazione occidentale della storia.

3

The Daily Blog 24 giugno 2017

Può questo modello comunicativo, etichettato come “alternativo”, essere applicato ad uno hub dell’informazione quale al-Jazeera? In altri termini, può al-Jazeera incarnare bisogni, idee, opinioni, valori e prospettive della realtà che si prefigge di raccontare e dunque essere considerata una voce endogena, nativa e alternativa? Oppure è essa stessa a imporsi strategicamente quale medium alternativo rispetto a voci estranee allo sfaccettato e variegato mondo rappresentato dalla regione araba? Se sì, in che modo?

Secondo Iskandar [10], la categorizzazione di un medium come alternativo è costruita tramite due processi che sono, contemporaneamente − e interdipendenti, poiché solo nel loro lavorare assieme riescono a originare l’idea di “diverso” e dunque “alternativo”. Mentre nel primo processo di costruzione dell’alterità il ruolo centrale è svolto dall’emittente stessa che nel suo processo di costruzione identitaria fa dell’alterità un principio fondante (auto-attribuzione), il secondo consiste nell’attribuzione di tale identità da parte del pubblico e dunque del ricevente del messaggio-notizia. Vale dunque la pena soffermarsi sul modo in cui la stessa emittente si auto-rappresenta e dunque sul modo in cui essa si posiziona sul mercato dell’informazione.

«I media governativi erano dominanti quando è nata Aljazeera e venivano usati come mezzo di propaganda e disinformazione. La nostra audience ha visto che Aljazeera era uno di loro, non un’imposizione straniera né un network che voleva imporre un’agenda di parte. La gente si fida di noi perché siamo oggettivi e rappresentiamo “the voice of the voiceless”» [11].

Nata a Doha nel 1996, al-Jazeera si impone sin dal suo esordio come strumento di pressione e influenza politica volto a rimodellare i rapporti di forza e di potere sulla scacchiera regionale, in uno dei contesti più caldi e importanti a livello planetario: il MediOriente. Centrali nella propria costruzione identitaria sono i concetti di “rottura”, “discontinuità” e il tentativo, perseguito almeno a parole, di prendere le distanze da un tipo di giornalismo incapace di liberarsi dalle strette maglie dell’influenza esercitata da gruppi di potere ed élite. Nelle parole di Wadah Kanfar, prima amministratore delegato poi direttore generale dell’emittente,

«Al Jazeera chose from the beginning to be the ‘voice of the voiceless’, thuscurbing the deeply rooted impulse of the power towards control and dominance of the media. The channel built a strong bastion to separate its news room from the influence of the lobbies of the palaces» [12].

Questa nuova filosofia editoriale necessita di una duplice chiave interpretativa. Nel tentativo, infatti, di assumere una posizione nuova, diversa e alternativa all’interno del mercato dell’informazione all-news, l’emittente ha costruito la propria immagine di alterità in opposizione a due soggetti distinti, uno “regionale” e uno “transnazionale”. L’auto-accreditamento come altro e alternativo è stato infatti giocato sia in relazione ai media “protocollari” −  o “tribal media” per chiamarli con le parole di Rinnawi [13] −  sia in relazione ai media all-news occidentali che sino al momento di svolta, rappresentato dalla Seconda Guerra del Golfo, erano stati i detentori del monopolio informativo sulla regione araba.

4

Studio Al Jazeera English Doha (Getty Images)

La Seconda Guerra del Golfo, infatti, aveva sancito l’imporsi il della CNN quale unico narratore del conflitto interarabo, svelando «il punto debole della regione, l’assenza di un’unità di visione, di uno sguardo panarabo sugli avvenimenti» [14]. La grande intuizione dell’emittente, fu dunque quella di rivendicare una fetta fondamentale del mercato mediatico, quello dell’informazione in senso stretto, che sino a quel momento non era stata coperta. Precedentemente al secondo conflitto del Golfo, sia i diversi media nazionali della regione (emblema della propaganda dei regimi totalitari in carica e il cui obiettivo era il consolidamento e la sopravvivenza del regime quale precondizione per la sopravvivenza dello Stato) [15] che quelli trans-regionali sauditi, si attenevano a un sistema “protocollare” [16] in cui l’informazione era limitata alla copertura delle attività dei capi di Stato, ed era sottoposta ad un tacito sistema di “regole di buon vicinato” per cui non era permesso: «insinuare dubbi sulla legittimità dei governi degli altri Stati arabi, dare spazio alle opposizioni dei regimi in carica e introdurre elementi di destabilizzazione al potere» [17].

A questo paradigma informativo, al-Jazeera ha contrapposto la costruzione di una retorica dell’informazione fondata sul principio dell’«opinione e l’opinione contraria» [18], che si è tradotta nell’analisi di ogni tema da due punti di vista contrapposti, e nella pratica di dar voce sia alle diverse opposizioni interne ai diversi Stati arabi sia ai regimi arabi stessi con un’unica e importante eccezione, l’opposizione interna allo stesso Qatar [19]. Sono due, a mio avviso, i punti importanti al fine dell’analisi della costruzione identitaria sulla base di valori “alternativi” o supposti tali: il primo è che al-Jazeera nel suo dichiarato obiettivo di presentare diversi punti di vista su uno stesso fatto non sembra discostarsi molto da quelli che sono considerati i valori etici di base del giornalismo di stampo occidentale [20]: imparzialità, oggettività e obiettività [21]. Secondo, l’obiettivo di dare voce a categorie sociali tradizionalmente escluse dalla costruzione del discorso mediatico le ha, da una parte, permesso di concedere larghissimo spazio a tutte le opposizioni politiche (consentendole di non tradire almeno formalmente i propri principi etici), mentre dall’altra l’ha tenuta al riparo da identificazioni con una in particolare delle diverse opposizioni presentate.

In diverse occasioni l’emittente è stata accusata di filo-sionismo (quando trasmise interviste concesse a militari israeliani), di essere finanziata dalla CIA (quando concedette interviste a cittadini americani), e di assumere posizioni filo-terroriste (quando mandò in onda i video di Osama Bin Laden in seguito all’attentato alle Torri Gemelle). Tuttavia non si riuscirebbe a identificarla con nessuna specifica posizione fra quelle sopracitate. D’altra parte, infatti, le è stato attribuito un fondamentale ruolo mobilitante nella seconda Intifada del 2000 ed è stata descritta come «the default go-to source on Arab Spring updates for many other organizations, including New York Times, The Huffington Post, Reauters and Wired» [22] nella più recente tempesta rivoluzionaria del 2011. Se da una parte dunque viene tacciata di parzialità, partigianeria e riverenza nei confronti dei poteri forti, d’altra parte essa stessa è stata vista come utile piattaforma di lancio per notizie utili, sul piano dell’impatto politico e sociale, per la società civile in generale e per le minoranze escluse dal processo informativo in particolare. Identificazioni diverse e contrastanti che contribuiscono ad attribuirle quel carattere contraddittorio, non categorizzabile e, per certi versi “altro”, chiave del suo successo.

Ciò contribuisce a corroborare la posizione di Iskandar per cui

«Alterity is manufactured by the station to promote its image as an alternative news provider. Self attributed alterity it selfis not an un customary practice among mainstream media organizations who market their brand by emphasizing uniqueness, distinction, and contrastto their competitors» [23].

Come anticipato, il secondo processo di costruzione identitaria di una emittente passa per le definizioni che lo stesso pubblico dà di quest’ultima. Definizione dunque dipendente da ciò che il pubblico interiorizza come alternativo. Per comprendere in che modo e da dove derivi l’attribuzione di parte del pubblico di un carattere “alternativo”all’emittente, vanno tenuti in considerazione i processi di raccolta notizie, lo spazio che l’emittente riserva a contenuti prodotti dai fruitori stessi dell’informazione, protagonisti degli eventi, e dunque la misura in cui questi ultimi si vedono rappresentati. Indicativo del tentativo diretto di coinvolgimento del pubblico in un rapporto di “dialogo”, come è definito dall’emittente stessa in un suo spot, è il modo in cui l’emittente ha coperto i movimenti sociali iniziati con la rivoluzione tunisina nel 2011.

5

Hamad bin Khalifa al-Thani e sua moglie a Doha, 1 novembre 2006 (ph. Karim Jaafar, Getty Images)

Durante le rivolte del 2010-2011, nonostante le difficoltà pratiche, essa riuscì ad offrire una copertura estensiva e sempre aggiornata degli eventi nel loro svolgersi. Al-Jazeera fu abile nel compensare la mancanza di personale in grado di raccogliere notizie di prima mano, con la messa a punto di una nuova strategia di raccolta delle notizie che operava su due distinti binari. Da una parte l’emittente offriva un’informazione immediata, in costante aggiornamento e a ciclo continuo attraverso l’uso estensivo di user-generated-content, dall’altra offriva un tipo di informazione più approfondita ospitando membri dell’opposizione tunisina, attivisti, giornalisti e avvocati che contribuirono ad articolare il discorso [24]. Essa, infatti, potè usufruire in larga parte di video girati dai manifestanti, impattanti dal punto di vista mediatico per quanto scadenti dal punto di vista tecnico, che furono resi fruibili grazie a delle piattaforme create ad hoc per incentivare l’attività di citizen-journalism [25]. Un esempio è Sharek.aljazeera.net [2,6], un canale interattivo che, consentendo a chiunque di caricare video relativi ai fatti in corso, incoraggia la produzione di materiale prodotto dai cittadini stessi. Un aspetto da sottolineare – e che, in parte, deriva proprio dallo sfruttamento di user-generated-content – è l’approccio fortemente emotivo adottato dall’emittente. Essa, infatti, mandò in onda, a ripetizione, video che riprendevano le proteste in tutta la loro violenza e drammaticità non indugiando nel mostrare scene di sangue e il caos generale in cui versava il sud della Tunisia [27].

Se si considerano le potenzialità mobilitanti di immagini drammatiche trasmesse in continuazione, talvolta accompagnate da un sottofondo musicale grave mixato appositamente, risulta più facile comprendere sia il ruolo che l’emittente ha giocato nella rivolta tunisina sia la sua capacità di influenzare e mobilitare l’audience araba. Capacità quest’ultima già ampiamente dimostrata anni addietro nella copertura della seconda intifada palestinese del 2000 che ne fece «la fonte di informazione sul mondo arabo, non una qualunque» [28]. Al-Jazeera, infatti, dal 1999 rete all-news, fu l’unica emittente satellitare pan-araba a seguire in maniera estensiva la rivolta [29], fornendo un racconto sempre aggiornato fatto di immagini e video che raggiunsero nello stesso momento l’intero pubblico regionale. In maniera molto simile all’approccio emotivo adottato durante la rivoluzione tunisina del 2011, l’emittente sfruttò abilmente lo stretto legame identitario che unisce i Paesi arabi alla causa palestinese, trasmettendo a ripetizione il video del docente palestinese ucciso dai soldati israeliani sotto gli occhi impotenti di suo padre. L’effetto mobilitante fu dirompente e in tutta la regione si susseguirono manifestazioni di solidarietà per il popolo palestinese.

Ciò ha inevitabilmente contribuito a costruire l’immagine di emittente che lascia spazio di parola agli stessi protagonisti della storia. Questi ultimi, da parte loro, identificano inevitabilmente l’emittente come vicina alle proprie problematiche semplicemente perché, tramite la riappropriazione del discorso sugli eventi, vi si vedono rappresentati. Da qui l’attribuzione di alternativo rispetto a quei media in cui invece la loro voce non è rappresentata o non lo è nella stessa misura. Un secondo aspetto da sottolineare, già precedentemente anticipato, è che in più di un’occasione l’emittente è risultata “alternativa” perché è stata, nei fatti, l’unica opzione possibile. Valga su tutti il ruolo giocato dal canale durante la guerra in Afghanistan. Essendo l’unica emittente al mondo ad avere corrispondenti nelle zone sotto controllo Talebano e a Kabul [30], rappresentò l’unica fonte di notizie di prima mano e l’unica rete in grado di fornire una copertura sempre aggiornata 24 ore su 24 degli eventi [31]. Proprio con l’attacco americano in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001, infatti, il monopolio narrativo di matrice occidentale su un conflitto passa nelle mani dell’emittente qatariota e «Il mondo viene introdotto al “fattore al-Jazeera”» [32]. Da qui,  l’idea di al-Jazeera quale voce narrante “nativa” ed “endogena”, capace di produrre un’immagine diversa e altra rispetto a quella dei media mainstream occidentali.

Indubbiamente, dunque, da una parte, i metodi di news-gathering dell’emittente, spaziando dalla raccolta di feedback dai vari social network e creazione di piattaforme virtuali di dibattito volte al citizen-journalism alle più tradizionali forme di raccolta notizie (garantita dai numerosi uffici di corrispondenza aperti nelle zone calde della regione), e l’attenta e minuziosa costruzione di una politica editoriale aggressiva, contribuiscono a impostare l’immagine di al-Jazeera come medium dinamico e multidimensionale, attento al ruolo della società civile, delle minoranze e delle opposizioni tradizionalmente escluse dal circuito comunicativo-informativo. Tuttavia, d’altra parte, l’impalcatura gerarchicamente strutturata dell’emittente, la disponibilità di capitale fornito da coloro a cui potremmo riferirci con un generico ‘gruppi di potere’, e il modo stesso in cui l’emittente è nata, fanno sorgere dei dubbi sulla reale natura “altra” e identità “alternativa” dell’emittente, ovvero medium capace di far emergere un discorso indipendente dal basso specchio delle realtà non rappresentate nei media mainstream. A rinvigorire tale dubbio, come accennato, contribuiscono non solo il luogo in cui il suo progetto al-Jazeera originariamente è nato ma vari eventi che, da una parte, mettono in discussione l’indipendenza del network dal governo qatariota, e dall’altra l’idea di voce estranea alle dinamiche e influenze del potere e, conseguentemente, la sua natura diversa e alternativa.

Mideast Davos Forum Arab Spring

Foto scattata durante la rivoluzione egiziana del 2011 (ph. Ben Curtis, Al Jazeera 25 gennaio 2016)

A partire dalla metà degli anni ’90, a seguito del colpo di Stato incruento che vide la detronizzazione dell’ormai sessan- tatreenne sheikh Khalifa bin Hamad al Thani a favore di suo figlio, il nuovo emiro del Qatar procedette, tramite varie politiche di riforma, alla costruzione di un’immagine nuova e moderna del piccolo Stato sorto appena 24 anni prima (1971). Nel suo tentativo di attribuire un’immagine liberale al Paese l’emiro, sheikh Hamad bin Khalifa, inaugurò il nuovo corso della politica interna con l’abolizione del Ministero dell’Informazione, organo adibito al monitoraggio e censura dei media, la concessione del diritto di voto alle donne e l’introduzione di elezioni per la Camera del Commercio [33]. Punto cardine di questa politica di modernizzazione fu proprio l’idea, emersa già nel 1994, di dar vita ad un canale televisivo all-news privato che riuscisse ad incarnare il nuovo spirito riformatore del Qatar. Con un finanziamento iniziale di 137 milioni di dollari nasceva così al-Jazeera. Se da una parte, con essa, il nuovo emiro del Qatar mirava a creare un’emittente privata e indipendente e, soprattutto, «non subordinata agli introiti derivanti dalla pubblicità, monopolio saudita»[34], d’altra parte, il fatto che il finanziamento iniziale, di 137 milioni di dollari [35], derivasse dalla Casa reale, ci aiuta a comprendere come il “progetto al-Jazeera” si inscrivesse all’interno di un progetto politico più ampio e dal duplice obiettivo: scalzare il monopolio televisivo e pubblicitario saudita [36] e aumentare la propria influenza e prestigio politico in seno alla regione, riducendo il peso e l’autorità dell’Arabia Saudita [37] all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e garantendo al Qatar una voce forte e indipendente tesa a porre fine alla marginalizzazione di questo piccolo Stato, visto fino ad allora come un Paese satellite della potenza saudita [38].

Al ruolo che la famiglia reale ha assunto nel finanziamento di quest’emittente, che tra l’altro non ha mai tratto un profitto e continua ad essere finanziata dal governo [39], va aggiunto il peso che negli anni quest’ultima ha assunto nello stesso consiglio di amministrazione dell’emittente. Non solo il presidente del consiglio di amministrazione è Sheikh Hamad bin Thamer Al Thani, membro della famiglia reale ed ex sottosegretario del Ministero dell’Informazione, ma anche gli altri membri del consiglio vengono selezionati direttamente dal governo [40]. Altro elemento che mette in discussione la reale indipendenza del medium sono gli eventi che nel 2011 hanno portato alle dimissioni, dopo otto anni, del suo direttore generale Wadah Khanfar. Secondo alcuni documenti pubblicati da wikileaks, infatti, gli stretti legami fra il direttore generale del network televisivo, la diplomazia statunitense e i servizi di intelligence americano avrebbero influenzato gli stessi contenuti dell’emittente portando a dei cambiamenti su alcuni reportage [41]. Al suo posto venne nominato Ahmed bin Jassim bin Mohammed Al Thani, membro della famiglia reale e vice presidente della Qatar Petroleum.

Ma la storia non sembra finire qui, i legami fra l’emittente e la famiglia reale, infatti, non sono univoci. Nel 2013 proprio Jassim bin Mohammed Al Thani lascia la direzione di al-Jazeera per ricoprire la carica di ministro dell’economia nella formazione del nuovo governo ad opera del nuovo emiro Tamim bin Hamad al-Thani. Non solo dunque le scelte dei componenti del consiglio di amministrazione provengono dalla famiglia reale ma, come afferma Alma Safira, «l’emiro recluta direttamente negli uffici del network» [42].

7

Campagna pubblicitaria al Jazeera (Fonte The Dots.com)

Partendo dall’assunto che l’indipendenza, e conseguentemente obiettività e natura realmente “alternativa”, di un network dovrebbero essere misurate in maniera direttamente proporzionale alla indi- pendenza finanziaria, risulta chiaro come la genesi di questo network sia inscindibilmente legata ad un progetto politico orchestrato dal palazzo e non, invece, il frutto di un tentativo di sottrarre dalla sfera di influenza dei poteri forti un campo, quell’informazione, fondamentale ai fini di controllo, monitoraggio e costruzione dell’opinione pubblica.

La genesi dell’emittente, lungi dall’essere limpida e pulita, la stretta dipendenza finanziaria dal governo e le sue relazioni con i luoghi del potere portano, dunque, a porre in questione non solo l’immagine di media votato alla rappresentanza delle classi subalterne ma anche e soprattutto la rappresentazione, strategicamente e minuziosamente costruita, di network fondato sugli ideali di rottura e discontinuità con il panorama mediale arabo precedente alla sua nascita. L’apparente libertà di cui gode l’emittente −  alimentata dalla fama  di essere megafono della voce di gruppi di opposizione politica con l’unica ma significativa eccezione costituita dall’opposizione interna al Paese ospitante − , la sua politica editoriale tagliente e contraddittoria che nel contesto dei media arabi non potrebbe non spiccare, il suo tono moderno, aggressivo e dinamico,  sembrano in linea con le mire espansionistiche e le politiche di modernizzazione del Qatar, e funzionali al suo obiettivo di rappresentare un Stato forte e immune da pressioni, condizionamenti e influenze provenienti in particolare dalla prima potenza nell’area, l’Arabia Saudita.

Un media dall’immagine “indipendente” e “diverso” in un Paese che, sorto nel 1971 e con una popolazione composta per la maggior parte da espatriati e lavoratori stranieri, mira a crearsi una propria e unica identità nel Golfo e ad assumere un tono forte che gli permette di emanciparsi giocando un ruolo di mediatore in varie situazioni di crisi [43], di promuovere una politica estera in cui gli stretti legami economici con Israele e le relazioni non conflittuali con l’Iran [44] non passano inosservati e, infine, di porsi – tramite l’emittente panaraba − come pioniere della diffusione dell’unità culturale araba sottraendo tale ruolo all’Arabia Saudita e all’Egitto [45].

Per concludere, dunque, lontana dal rappresentare una joint venture nata e diretta dal basso, vicina e sensibile alle problematiche della società civile e delle classi subalterne, al-Jazeera rappresenta un utilissimo e prezioso strumento non solo di rivalità inter-araba [46] ma anche di costruzione di nuove relazioni di forza sul piano transnazionale, in cui il Qatar gioca la parte del leone. Un network che negli anni è riuscito con successo a costruirsi un’identità “altra” e “alternativa” che altro non è che una attenta strategia di marketing basata sull’inglobazione e interiorizzazione di un discorso nella cui genesi sono le classi tradizionalmente escluse dal processo di costruzione di significato ad avere il ruolo da protagonista. Interiorizzazione tale da garantirgli non solo l’identificazione con esso ma anche la sua categorizzazione quale media alternativo e partecipativo in grado di mettere in discussione lo status quo istituzionalizzato e legittimato.

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Note
[1] Vedi: Zayani (2005), Miles (2006), Della Ratta (2005), Valeriani (2010), Iskandar e El-Nawawi (2002), Seib (2008).
[2] C. Atton, Alternative Media, Sage publications, London, 2002.
[3] N. Chomsky E. S. Herman, La Fabbrica del Consenso, il Saggiatore, Milano, 2014.
[4] Ibid: 16.
[5]  M. Castells, Comunicazione e Potere, EGEA Università Bocconi Editore, Milano, 2009.
[6]C. Atton, Whatis ‘alternative’ journalism, Sage Journals, Vol. 4 (3): 267–272, http://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/14648849030043001
[7] C. Rodriguez, Fissures in the Mediascape: An International Study of Citizens’ Media, Hampton Press, 2001.
[8] C. Atton, Alternative Media, Sage publications, London 2002: 11.
[9] K. Rinnawi, InstantNationalism. McArabism, al-Jazeera and Transnational Media in the Arab World, University Press of America, 2006.
[10] A. Iskandar, Isal-Jazeera Alternative? MainstreamingAlterity and AssimilatingDiscourses of Dissent, TBS Journal, Arab Media & Society, http://tbsjournal.arabmediasociety.com/Archives/Fall05/Iskandar.html
[11] A. Safira, Le dimissioni del direttore imbarazzano Aljazeera, Limes, http://www.limesonline.com/le-dimissioni-del-direttore-imbarazzano-al-jazeera/26825
12 A. Valeriani, Effetto al-Jazeera. Transnazionalismo e ibridazioni nei sistemi del giornalismo arabo contemporaneo, Emil di Odoyasrl, 2010:.162.
[13] K. Rinnawi, InstantNationalism. McArabism, al-Jazeera and Transnational Media in the Arab World, University Press of America, 2006.
[14] D. Della Ratta, Al Jazeera. Media e Società arabe nel nuovo millennio, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2005: 69.
[15] K. Rinnawi, Instant Nationalism. McArabism, al-Jazeera and Transnational Media in the Arab World, University Press of America, 2006.
[16] D. Della Ratta, op. cit.:58.
[17] Ibid.
[18] A. Valeriani, op. cit.
[19] M. Zayani, The Al JazeeraPhenomenon. Critical perspectives on New Arab Media, Pluto Press, 2005.
[20] D. Della Ratta, op. cit.
[21] N. Chomsky E. S. Herman, op. cit.
[22] Philip N. Howard e Muzammil M. Hussain, Democracy’sfourthwave? Digital media and the Arab Spring, University Press, 2013.
[23]A. Iskandar, Isal-Jazeera Alternative? MainstreamingAlterity and AssimilatingDiscourses of Dissent, TBS Journal, Arab Media & Society, http://tbsjournal.arabmediasociety.com/Archives/Fall05/Iskandar.html
[24] M. Zayani, “Network ed publics and digital contention. The politics of everyday life in Tunisia”, New York 2015.
[25] F. M.  Corrao, Le rivoluzioni arabe. La transizione Mediterranea, Mondadori Education Milano 2011.
[26] “Sharek” sta per “partecipare”.
[27] Heinrich Böll Stiftung, Media lives up to itsnameas game changers in spread ingarab revolutions, 2011
https://www.boell.de/sites/default/files/perspectives_middle_east_issue_2.pdf
[28] D. Della Ratta, op. cit. : 134
[29] Il network qatariota, infatti, aveva aperto nuovi uffici di corrispondenza nella zona nonostante la sua sede fosse stata già messa sotto pressione dalle autorità palestinesi infastidite dallo spazio concesso all’opposizione di Hamas.
[30]  M. Zayani, The Al JazeeraPhenomenon. Critical perspectives on New Arab Media, Pluto Press, 2005.
[31] M. El-Nawawy& A. Iskandar, The Minotaur of ’ContextualObjectivity’: War coverage and the pursuit of accuracy with appeal, TBS Journal, Arab Media & Society, http://tbsjournal.arabmediasociety.com/Archives/Fall02/Iskandar.html
[32] ibid.
[33] M. Zayani, op. cit. 
[34] M. Corrao, op. cit.: 94.
[35] L’emittente sarebbe dovuta diventare finanziariamente indipendente in cinque anni.
[36] In seguito alla guerra del Golfo, che aveva sancito la totale assenza di un racconto ed una visione pan-araba sulla guerra e, per contrasto, il monopolio delle emittenti occidentali, in particolare la CNN, sulla copertura degli eventi, l’Arabia Saudita si lanciò in un progetto di creazione di emittenti satellitari pan-arabe private direttamente finanziate dalla famiglia reale. Nacquero così la MBC, con base a Londra, ART e ORBIT.
[37] È bene sottolineare che questo progetto qatarense si inserisce in un contesto politico che vide accresce le tensioni politiche fra i due Paesi soprattutto in seguito all’incidente al-Khafus nel settebre 1991.
[38] Francesco Brunello Zanitti, Il Qatar: l’emergere di una piccola-grande potenza, Geopolitica – Rivista trimestrale dell’Isag, vol.1 n.2, estate 2012
https://www.academia.edu/2436380/Il_Qatar_lemergere_di_una_piccola-grande_potenza?auto=download.
[39] J. Buchan, https://www.theguardian.com/books/2005/feb/12/highereducation.news2
[40] D. Della Ratta, op.cit.
[41] A. Safira, Le dimissioni del direttore imbarazzano Aljazeera, Limes, http://www.limesonline.com/le-dimissioni-del-direttore-imbarazzano-al-jazeera/26825
[42] Ibid.
[43] M. Zayani, The Al JazeeraPhenomenon. Critical perspectives on New Arab Media, Pluto Press, 2005.
[44] F. B. Zanitti, Il Qatar: l’emergere di una piccola-grande potenza, Geopolitica – Rivista trimestrale dell’Isag, vol.1, n.2, estate 2012,
 https://www.academia.edu/2436380/Il_Qatar_lemergere_di_una_piccola-grande_potenza?auto=download.
[45] D. Della Ratta, op. cit..
[46] K. Rinnawi, Instant Nationalism. McArabism, al-Jazeera and Transnational Media in the Arab World, University Press of America, 2006.
 ________________________________________________________________________________
Lisa Riccio, ha conseguito il titolo di Laurea in Lingue e Comunicazione, con focus sulla lingua inglese e araba, presso l’Università di Cagliari discutendo una tesi sul ruolo dei social network nella rivoluzione tunisina del 2011. Ha vissuto un periodo di quattro mesi in Marocco al fine di conseguire un certificato di lingua araba e attualmente studia e lavora a Londra in vista del completamento dei suoi studi in Relazioni Internazionali del Medio Oriente.

________________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>