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Addio a Paul Rabinow, antropologo del diario e del contemporaneo

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Paul Rabinow

di Pietro Clemente

Il 7 aprile scorso alle 5,13 Lia Giancristofaro mi ha mandato un messaggio su Whatsapp in cui mi diceva della morte di Marshall Sahlins e della sua ammirazione e affetto per lui. Io le ho risposto alle 6,39 e le ho chiesto di ricordarlo su Dialoghi Mediterranei (vedi il suo testo in queste pagine).  Alle 9 dello stesso giorno Lia ha aggiunto «Morto pure Rabinow: ossignore».  E poi abbiamo pensato insieme a chi avrebbe potuto ricordare Rabinow; dopo qualche tentativo e pochi riscontri ho pensato che avevo qualche debito verso Rabinow e forse lo dovevo ricordare io. Rabinow è morto il 6 aprile scorso, era nato il 21 giugno del ‘44, aveva l’età di mio fratello minore Carlo, morto nel ‘99. Insomma era più giovane di me. E questo fa sempre un certo effetto. Cerco di spiegare perché ho qualche debito verso questo mio ‘fratello minore’ così più illustre di me.  Ma prima voglio dare spazio ad una notizia di agenzia abbastanza precisa nel restituire il percorso di Rabinow, apparsa su Il dubbio, l’11 aprile scorso.

Antropologi: addio a Paul Rabinow, studioso delle metamorfosi delle modernità
Los Angeles, 10 apr. – (Adnkronos) – L’antropologo e filosofo statunitense Paul Rabinow, studioso del rapporto tra il ruolo delle arti e quello delle scienze nelle metamorfosi della modernità, è morto in California di 76 anni. Era professore emerito di antropologia all’Università della California, con sede a Berkeley, dove ha diretto l’Anthropology of the Contemporary Research Collaboratory e in precedenza era stato il responsabile dell’Human Practices for the Synthetic Biology Engineering Research Center: da questa sua esperienza è nato il libro Fare scienza oggi. PCR: un caso esemplare di industria biotecnologica (Feltrinelli, 1999), dove offriva una lettura critica sull’industria del futuro, quella della ricerca biotecnologica, all’epoca in fase nascente. Rabinow si è occupato, in particolare, delle innovazioni tecnologiche viste nei termini di “nuove narrative e nuove metafore”, della centralità data ai concetti di distanza e prossimità, totalità e interconnessione, dunque a dimensioni spazio-temporali determinanti nella recente svolta socioantropologica dei linguaggi digitali e della società delle reti, dove si gioca il destino dell’individualismo moderno. Tra i suoi libri in italiano anche Pensare cose umane (Meltemi, 2008) e un saggio in Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia (Meltemi, 1999).
Seguendo la linea teorica del filosofo francese Michel Foucault, Rabinow mirava ad assemblare «una scatola degli attrezzi concettuali» che possa guidare il pensiero dell’uomo contemporaneo. E proprio di Foucault era considerato uno dei maggiori esperti e commentatori. All’influente pensatore ha dedicato il volume La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente (con Hubert L. Dreyfus, La Casa Usher, 2010).

Ma il ‘mio’ Rabinow non è questo, la mia lettura è precedente a questa fase, ed è centrata su un testo Reflections on Fieldwork in Morocco, University of California Press, 1977 mai tradotto in italiano (ma in spagnolo, francese e giapponese). Trent’anni dopo il volume fu ripubblicato da Rabinow (University of Columbia Press 2007), con una postfazione di Pierre Bourdieu che mi incuriosì e mi stupì non poco, pensai che apprezzava Rabinow per criticare Geertz, certe volte i grandi pensatori lo fanno. L’altro testo che lessi è Le rappresentazioni sono fatti sociali. Modernità e postmodernità in antropologia (in J. Clifford e G. E. Marcus, Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Roma, Meltemi 2001, cura e nuova traduzione di Piero Vereni). Credo che sia noto, almeno ai meno giovani, quanto Scrivere le culture sia stato testo importante di una svolta detta in vari modi: riflessiva, postmoderna, decostruttiva, retorica. 

In Italia fu Amalia Signorelli ad apprezzarlo molto, per le sue forti implicazioni politiche e critiche, e fu anche un gruppo senese, alla fine degli anni Ottanta-primi Novanta, composto da me, Alessandro Simonicca e Fabio Dei, passati poi tutti per Roma, e che di lì a poco avremmo lanciato questi temi anche sulla rivista Ossimori (durata il tempo dell’ultimo decennio del Novecento). Mi muovevo intellettualmente tra la grande attenzione e lo straordinario fascino intellettuale degli scritti di Clifford Geertz, e il radicalismo del gruppo di Writing culture, e mi trovai davvero tra l’incudine e il martello quando usai nella ricerca e nella didattica il libro di Geertz, Opere e vite. L’antropologo come autore (Il Mulino 1990, ed. or. 1988). Infatti il gruppo di Writing Culture criticava Geertz; ma Geertz rispondeva pesantemente.

9780691115665«Vorrei prendere in esame… tre esempi recenti che…condividono palesemente come modalità comune (la malattia del diario ndr): Reflections on Fieldword di Paul Rabinow, Tuhami di Vincent Crapanzano; e Moroccan Dialogues di Kevin Dwyer». Dalla pagina 97 alla pagina 106 di Opere e vite è un crescendo di randellate ironiche in bello stile su questi tre testi. Tre testi che io apprezzavo assai e anche proponevo come esempi per un approccio critico alla mitologia della ricerca sul campo. Rabinow le prende di santa ragione: il suo vagabondare per il Marocco incontrando gente un po’ a caso, l’avere alle spalle la cultura del ’68, il suo scrivere un diario anziché parlare come un ‘autore’, sono assai criticati. Dwyer, invece, seguendo una pista aperta da Oscar Lewis nella ricerca in Messico, pubblicò pari pari le interviste fatte a una famiglia marocchina. Crapanzano raccontò e commentò uno strano dialogo a tre tra un anziano nativo del Marocco (Tuhami, un po’ bizzarro e intensamente credente), il traduttore e l’antropologo. In effetti si tratta di tre testi esemplari di una critica alla monografia di villaggio alla Malinovski, e via citando. Ma Geertz li assimila non al Malinovski della monografia trobriandese Argonauti del Pacifico, ma al Malinovski del Diario nel senso stretto senso del termine (ovvero Giornale di un antropologo, Roma, Armando, 2016 ed. or. 1967) pubblicato dalla vedova dopo più di venti anni dalla morte. E li inchioda come esemplari dell’io testimoniante e infine dell’antropologo che parla di sé e non di loro, o peggio che si fa ventriloquo e parla in modo fittizio con la voce degli altri. 

Mi colpiva come il Marocco abbia messo insieme questo strano gruppo di americani litiganti: anche Geertz aveva una importante esperienza di campo in Marocco a Fez sulla quale torna nel libro (davvero bello) Oltre i fatti [1]. E Rabinow si occupò del Marocco anche seguendo le tracce della cultura francese, e le vicende del colonialismo e della scrittura del potere (Foucault). Io sono riuscito a continuare ad apprezzare l’approccio interpretativo di Geertz, facendo mie però le ragioni dei tre accusati. Tentai una critica anche epistemologica a Geertz [2]. Ma in linea generale non volevo perdere il dialogo con questo autore con le cui parole avevo aperto la mia prima lezione di Antropologia Culturale all’Università di Roma (autunno 1991), dove ero stato chiamato a sostituire Alberto Mario Cirese. Parlai di Geertz in modo positivo davanti a Cirese, uomo di grande apertura, che nel raccomandarmi al voto del Consiglio di Facoltà, per l’accettazione del mio trasferimento, aveva anche detto che non mi voleva per sostenere le sue idee ma perché ero uno spirito critico [3].

Perché ho un debito verso Rabinow allora? Perché a mio avviso il suo coraggioso diario di viaggio in Marocco apriva lo sguardo sul retroscena dell’esperienza antropologica, faceva entrare nella monografia di campo l’aria della vita quotidiana, della casualità degli incontri, dell’infondatezza di modelli scientifici nel racconto dell’altro. Mentre Dwyer aveva l’audacia e l’ingenuità di mettere le voci altrui trascritte nella pagina, che non erano la sua voce deformata e spettacolare come nel ventriloquismo, ma un modo di togliere totalità all’autore antropologo, di mettere sulla scena voci altrui, di aprire il mondo delle voci alla polifonia. Un modo di aprire l’antropologia alla polivocalità. E ciò vale anche per Crapanzano.

41nmgnlwhql-_sx331_bo1204203200_Insomma a mio avviso l’antropologia di Geertz diventava subito vecchia, se non dava spazio a nuovi modi del racconto dell’altro. Doveva entrare anch’essa nella polifonia e non negarne la possibilità.  Così pensavo allora, e forse anche ora.  Ma già Rabinow mi deluse un po’ nelle pagine di Scrivere la cultura. Dove costruiva a sua volta una critica verso uno dei curatori del volume, James Clifford, a base di citazioni di Foucault, il grande intellettuale francese cui Rabinow ha legato i propri orientamenti teorici. Lungo gli anni ho trovato in James Clifford un autore di grande equilibrio e di prospettiva innovativa, capace di fare entrare la sua scrittura nei nodi della contemporaneità in modi più aperti e meno dogmaticamente radicali [4] di altri autori, professandosi come storico e critico della cultura più che come antropologo, ma essendolo in profondità, forse nel modo più simile a quello proprio della storia della antropologia italiana.

rabinow-french-modernMa la mia libreria è ricca anche di testi diversi del Rabinow di dopo. Della ricerca sull’Europa e la contemporaneità. Ad esempio ho in fotocopia il suo tomo French Modern. Norms and Forms of the Social Environment del 1989. È pieno di appunti a matita. Annotavo che nel libro rilanciava i grandi temi del marxismo e del suo sviluppo europeo, e che si parla della Francia anche in chiave di colonialismo (e qui si ritorna al Marocco, e io mi ritrovo nei miei primi studi su Franz Fanon e l’Algeria). Un libro teorico di 450 pagine, che non ricordo bene. Ma che è legato a un aneddoto: il libro vero lo aveva acquistato Paola De Sanctis, mia collega a Roma, e da lì veniva la mia fotocopia. Ma Paola poi me la richiese perché il suo gatto aveva usato il libro di Rabinow per esercitare i denti e lo aveva tutto rosicchiato. Questa storia del gatto che rosicchia il libro mi è sempre parsa molto bella, per non prenderci troppo sul serio. E – come è noto – Marx aveva parlato del suo progetto di libro L’ideologia tedesca, come abbandonato (forse in cantina) alla rodente critica dei topi.  Dai topi ai gatti.

Ma poi, lo scopro ora nella mia libreria (non ne avevo memoria), ho continuato a seguire Rabinow e in specie due libri Marking Time, del 2008 [5] sul tema del contemporaneo, che ho largamente annotato a penna, e il dialogo tra Rabinow e Marcus, Designs for an Anthropology of the Contemporary [6] sempre del 2008.  Ne traggo una breve definizione entro un intenso dialogo proposto dal libro:

9780691133638Paul Rabinow:

«Così come sì può prendere in considerazione il “moderno” come ethos e non come periodo, si può prenderlo in considerazione come fattore in movimento, piuttosto che come prospettiva. In questa luce, la tradizione e la modernità non si oppongono ma sono appaiate; “la tradizione è un’immagine in movimento del passato; è opposta non alla modernità ma all’alienazione” [7]. Il contemporaneo è un’immagine in movimento della modernità, che si muove attraverso il passato recente ed il prossimo futuro in uno spazio che misura la modernità come un ethos che si va già facendo storico. Il contemporaneo non è interessato in maniera specifica al “nuovo”, o a distinguersi dalla tradizione. Piuttosto, chi lo frequenta invita ad osservare la distinzione moderno/contemporaneo in un contesto in cui gli insiemi di elementi e le configurazioni del moderno sono visti nel loro processo di disaggregazione e riconfigurazione.

Il “contemporaneo” indica un modo di storicizzazione di scala relativamente modesta, di relativamente breve portata. In questa modalità ed osservati a partire dall’attuale, molte tipologie di oggetti si rendono disponibili all’analisi. ..

L’antropologo del contemporaneo deve stare vicino alle cose mentre succedono, ma, dato il proprio intento analitico, mantenere una certa distanza, adiacenza, intempestività» (da una traduzione di Sandra Ferracuti che circolava nel gruppo di lavoro di SIMBDEA sui temi del contemporaneo tra 2008 e 2010). 

61jes75enclOccorre dire che proprio in quegli anni nell’ambito della riflessione progettuale di SIMBDEA (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demo-Etno-Antropologici) lavorammo sul concetto di contemporaneo [8], per combattere la tendenza dei nostri musei a finire sul versante della sola memoria e del passato. E usammo questi concetti guida di Rabinow, che venivano anche coniugati da un libretto di Agamben sulla ‘inattualità del contemporaneo’ che aveva forti sintonie con le riflessioni di Rabinow e, credo, alle spalle aveva Nietzsche e Foucault [9]. Questo tema fu al centro del congresso Simbdea di Matera nel 2010 Essere contemporanei che fu accompagnato anche da una mostra di installazioni etnografiche [10].

Ecco un altro debito verso Rabinow, anche se questo orientamento e soprattutto quello di Agamben, rischiano di essere piuttosto un messaggio etico, di una sorta di avanguardia neo-futurista. Rabinow però ha cercato di coniugare il suo ‘contemporaneo’ con ricerche su tematiche delle bioscienze e biotecnologie. Nel 2010 a Matera con Simbdea provammo a rendere utile al nostro lavoro sul patrimonio  queste coniugazioni del contemporaneo. Non so dire a distanza con quale successo.

Rabinow e Sobrero

Voglio chiudere connettendo questi due fratelli minori, Alberto assai più fratello che Rabinow. Alberto Sobrero era del 1949 ed è morto improvvisamente il 18 febbraio a 71 anni. Lo abbiamo ricordato in una larga comunità di amici, di colleghi, di allievi, e siamo impegnati a farlo ancora con un libro dedicato a lui. Ma cercando tra le sue scritture mi è capitato di trovare un passo dedicato a Paul Rabinow, il Rabinow delle mie prime letture e interessi, quello del Diario.

E così voglio chiudere con una citazione di Alberto Sobrero, che rilancia, a mio avviso, i temi che sentivo miei nei primi anni Novanta ma in una cornice diversa che era specifica della ricerca di Sobrero, quella del rapporto tra antropologia e letteratura:

«Il rapporto fra letteratura e antropologia è allora la storia dei diversi modi nei quali questa duplice paradossale relazione è stata percepita e affrontata. Problema fondamentale dell’antropologia, riproposto ormai più di trent’anni fa da Clifford Geertz. Il più delle volte e senza troppi scrupoli, il nodo è stato reciso sul campo, nella convinzione di poter passare facilmente dall’osservazione di quel che gli altri fanno alla comprensione di quello che pensano. Più di recente, nella gran parte dei casi, si è trattato di aggirare il paradosso mettendo piuttosto in primo piano la relazione con l’altro e costruendo situazioni, pretesti, episodi artificiali, affidandosi a strategie retoriche che permettano di rendere credibile una sorta di reciproca intimità. È il caso di Paul Rabinow (1977), o di Vincent Crapanzano (1980), emuli dell’artificio retorico messo in scena dallo stesso Geertz nel suo saggio sulla lotta dei galli a Bali. “Per i Balinesi, e in certa misura per noi stessi, eravamo non persone, spettri, uomini invisibili….fino a quando…”. Altre volte ancora si è cercato di spingere il più avanti possibile la relazione con l’altro senza artifici, ma facendosi carico di tutta la sua paradossalità, come Michel Leiris ne L’Afrique fantôme (1936, trad. it.: 426) (“Io non parlo. Con chi dovrei parlare? Mangio i semi che mi danno, bevo il caffè che mi porgono […] e sento più che mai il mio irrimediabile isolamento”). Altre volte ancora se n’è restati vittime, come José Arguedas»[11].
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Oltre i fatti. Due paesi, quattro decenni, un antropologo, Bologna, Il Mulino, 1995.
[2] Oltre Geertz: scrittura e documentazione nell’esperienza demologica, «L’uomo», 1, 1991: 57-69.
[3] Alberto Cirese era nato il 19 giugno del 1921, a breve festeggeremo i suoi 100 anni virtuali e i 10 anni dalla morte.
[4] Ho trovato prezioso Returns: Becoming Indigenous in the Twenty-First Century del 2013 con un interessante uso di Gramsci, e la capacità di affrontare molti aspetti delle identità native. Credo che Rabinow lo criticherebbe più o meno allo stesso modo e citando Foucault.
[5] Marking Time. On the Anthropology of the Contemporary, Princeton University Press
[6] Con interventi di James Faubion e di Tobias Rees, Duke University, Durham, London, 2008
[7] Rabinow, Symbolic Domination: Cultural Form and Historical Change in Morocco, Chicago: University of Chicago Press, 1975.
[8] Museografie del contemporaneo: pratiche e temi degli antropologi, in «Antropologia Museale», n.22, 2009
[9] G. Agamben, Che cosa è il contemporaneo, Roma, Nottetempo, 2008, questo era il nucleo centrale: «Contemporaneo non è colui che cerca di coincidere e adeguarsi al suo tempo, ma chi aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo; non chi vede le luci del suo tempo, ma chi riesce a percepirne l’oscurità».
[10] P. Clemente, V. Padiglione, Oggi, nel corso della vita. Riti di passaggio. Mostra collettiva di istallazioni etnografiche, Imola, La Mandragora, 2013
[11] A. Sobrero, Il cristallo e la fiamma, Antropologia tra scienza e letteratura, Roma, Carocci, 2009: 12-13.

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021)

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