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Accoglienza e produzione istituzionale di marginalità

copertinadi Dario Inglese

I primi anni Novanta rappresentarono un fondamentale spartiacque nella percezione italiana del fenomeno migratorio. La crisi politico-sociale albanese e la fuga dai Balcani di migliaia di uomini e donne verso le coste pugliesi costrinsero l’Italia a scoprirsi Paese d’immigrazione, a ripensare in tutta fretta il proprio ruolo nel Mediterraneo e a costruire quasi da zero una politica di gestione dei flussi. Le immagini delle navi cariche di disperati che attraversavano l’Adriatico e lo scandalo dei corpi sofferenti stipati, dopo lo sbarco, in ricoveri di fortuna abbastanza grandi da contenerli tutti (lo stadio della Vittoria di Bari, ad esempio) ebbero una vasta eco e plasmarono profondamente l’idea delle migrazioni via mare nel nostro Paese. Gli approdi di massa del 1991, costantemente rilanciati e amplificati da media e politica, diedero il via alla lenta ma inesorabile costruzione dello scenario di potenziale minaccia cui far fronte che, da lì in avanti, avrebbe accompagnato e guidato le politiche nazionali in materia d’immigrazione. È in quel preciso momento storico che la retorica dell’emergenza divenne la chiave di lettura privilegiata del fenomeno saldandosi a due atteggiamenti distinti ma complementari: l’urgenza della cura e la necessità di controllo. Da una parte, infatti, la vicenda tragica dei migranti non poteva che generare grande commozione; dall’altra, l’arrivo di migliaia di profughi tendeva facilmente a essere considerato un rischio per la sicurezza nazionale e a innescare la paura, montata ad arte da non pochi speculatori, di possibili invasioni.

Il discorso pubblico italiano sull’accoglienza ebbe origine proprio in quel periodo e si accompagnò alla fortuna dell’immagine del clandestino arrivato spettacolarmente dal mare con mezzi fatiscenti. Un’immagine tanto potente da resistere nel tempo e dettare modi e tempi della discussione ancora oggi, dopo più di venticinque anni: per quanto gli sbarchi non siano mai stati, storicamente, la causa principale della cosiddetta immigrazione irregolare, essi restano infatti il terreno privilegiato dello scontro politico e alimentano posizioni che spaziano da ambigue retoriche securitarie e umanitarie a derive apertamente razziste.

 Dopo l'approdo, un racconto per immagini e parole sui richiedenti asilo in Italia

Dopo l’approdo, un racconto per immagini e parole sui richiedenti asilo in Italia

Si può, in effetti, individuare una sorta di filo rosso nella politica italiana sulle migrazioni via mare; un trait d’union che, pur nella diversità dei governi in carica e delle soluzioni individuate, accomuna le diverse gestioni del fenomeno. Lungi dal vedere viaggio e spostamento come dinamiche strutturali si tende a pensarli come momenti eccezionali da monitorare, guidare e contenere attraverso politiche ad hoc rispetto a quelle destinate alle questioni interne. Soprattutto, si fissa lo sguardo sulla spettacolarità degli sbarchi per proporre una visione parziale della migrazione, intesa come fenomeno avulso dal macro-contesto economico, sociale e politico. Grazie anche alla forte carica emotiva delle immagini, il focus sul momento dell’approdo (o del salvataggio in mare) costruisce la migrazione come un oggetto esogeno che riguarda solo un generico altro arrivato da lontano e mette in secondo piano le azioni del Paese accogliente (misconosciuto nel suo ruolo di attore politico sullo scacchiere locale e, ovviamente, globale). In altre parole, soffermarsi sull’arrivo depoliticizza il fenomeno migratorio. Vede – secondo le diverse sensibilità – i migranti come potenziali delinquenti da arginare o come mute vittime cui fornire prima accoglienza indipendentemente dalle politiche perseguite dallo stato ricevente; in ogni caso, li tratta come soggetti da isolare dal corpo sociale nazionale. Si concentra solo sul presente dimenticando il prima e il dopo e alimenta un sistema che passa freneticamente da un’emergenza all’altra.

Meritori sono dunque, nell’asfittico panorama italiano, quei contributi in grado di allargare lo sguardo per cogliere ciò che Abdelmalek Sayad definiva “la funzione specchio” delle migrazioni, cioè la capacità che i migranti hanno di mostrare il funzionamento nascosto e apparentemente naturale della macchina statale. Dopo l’approdo – Un racconto per immagini e parole sui richiedenti asilo in Italia (2017), pubblicato da Editpress, è uno di questi lavori. Curato da Barbara Pinelli (Università degli Studi di Milano Bicocca) e Luca Ciabarri (Università degli Studi di Milano), il volume guarda all’Italia come «punto strategico d’osservazione delle migrazioni forzate nell’area euro-mediterranea» e «luogo centrale da cui far partire una riflessione critica sulle dinamiche di protezione rivolte a migranti e richiedenti asilo». La finalità dichiarata è far uscire il sistema di accoglienza dall’ovvietà epistemologica cui è stato confinato «dando storicità alle categorie» e togliendo molte pratiche che avvengono sotto i nostri occhi dallo stato d’ineluttabile necessità in cui sono entrate.

Dopo l’approdo raccoglie i risultati di un ampio studio sui richiedenti asilo in Italia: dai centri di prima accoglienza del sud fino alle grandi città del centro e del nord (Roma e Milano). La ricerca copre un arco temporale di circa due anni: inizia idealmente con i tragici naufragi dell’ottobre 2013 nel Mediterraneo e analizza, fino al 2015, il dispiegarsi della politica italiana evidenziando il modo in cui, al di là delle diverse risposte fornite, tutti i provvedimenti si siano sempre basati sul ricorso a misure di emergenza.

 Messina, stazione, ph. Alessio Genovese.

Messina, stazione, ph. Alessio Genovese

Un richiamo quello all’emergenza – scrive efficacemente una delle autrici, Emanuela Dal Zotto – «confortevole e affascinante», paradossalmente il vero tratto strutturale dell’operato italiano. Il risultato è un riuscito dialogo tra indagine etnografica, giornalismo d’inchiesta e fotografia sociale che punta i riflettori sulla vita – scandita da rituali burocratici sovente opachi, schizofrenici e incomprensibili a migranti, osservatori e a molti operatori del settore – che inizia dopo l’approdo. Gli studiosi coinvolti hanno così cercato di rendere visibile ciò che solitamente è nascosto all’osservazione: la violenza istituzionale cui i migranti incorrono una volta entrati nelle maglie dell’accoglienza; l’emergere paradossale delle soggettività sotto l’azione coercitiva degli apparati burocratici. L’intento, scrive chiaramente Barbara Pinelli, non è solo analitico e descrittivo bensì politico:

«lavorando in modo critico sulle categorie e raccontando i processi con cui si diventa richiedenti asilo intendiamo contrapporci allo sguardo opaco e miope che svia l’occhio dalle forme di marginalità, categorizzazione e sorveglianza che investono i rifugiati. Solo così le esperienze dei soggetti smettono di rimanere sul piano della colpa o dell’encomio – che separa il rifugiato vero e meritevole da quello che non merita riconoscimento – per divenire percorsi segnati da fattori strutturali e spesso violenti, dove dure regole sociali e istituzionali pesantemente incidono sulle loro vite».

Da questo punto di vista, l’imponente sezione fotografica del testo riveste un ruolo fondamentale e si snoda proprio sulla dicotomia visibilità vs invisibilità. Gli scatti dei fotografi che hanno partecipato al progetto (Alessandro Sala, Giovanni Diffidenti, Alessio Genovese), infatti, si discostano dal repertorio iconografico che accompagna la stereotipata narrazione della migrazione in Italia. Se quest’ultimo, come già accennato, tende a ritrarre un solo momento della parabola dei migranti –  l’approdo – oscurando quanto c’è dopo e adeguandosi, di fatto, allo sguardo pietistico (migrante come puro martire) o a quello severo e inflessibile (migrante come minaccia) imperanti, le fotografie qui proposte seguono i richiedenti asilo sulla terraferma. Li ritraggono concretamente alle prese con le forze sociali che hanno il potere di determinarne l’identità e, allo stesso tempo, ne rivelano l’agency e i tentativi di affrancarsi dal ruolo di vittime passive delle circostanze. Assolvono questo compito fuggendo un mero ruolo verificante rispetto a quanto sostenuto nei contributi scritti e, insieme, allontanandosi dal luogo comune che vuole nell’immagine l’unica attestazione del vero.

 Messina, tendopoli, ph. Giovanni Diffidenti.

Messina, tendopoli, ph. Giovanni Diffidenti

Tali scatti, dunque, dialogano col testo scritto più che esserne mero corredo. Oltre a mostrare, vogliono costringere lo spettatore a porsi delle domande e fuggire le reazioni diverse ma speculari della pietà o della repulsione per svelare l’impatto delle politiche sui corpi e sulle soggettività e, contemporaneamente, le azioni creative e i margini di manovra che gli asilanti riescono a ritagliarsi. Il lettore potrà così vedere i ricoveri di fortuna sorti ai margini di strutture ricettive piene o al collasso. Potrà altresì rendersi conto che, nei pressi di un CARA, organizzare una banale partita di calcio su un terreno polveroso diventa un atto dalle forti valenze simboliche. Nessuna spettacolarizzazione però, bensì la consapevolezza che l’immagine, avulsa dalla storia, non esaurisce tutta la realtà. Come sosteneva Jean Baudrillard, del resto:

«quella fotografica è la più pura delle immagini, perché non simula né il tempo, né il movimento e si attiene al più rigoroso irrealismo. […]. L’intensità dell’immagine, infatti, è proporzionale alla sua discontinuità e alla sua astrazione massimale, vale a dire alla sua presa di posizione di denegazione del reale. Creare un’immagine consiste nel togliere all’oggetto tutte le sue dimensioni a una a una: il peso, il rilievo, il profumo, la profondità, il tempo, la continuità e certamente il senso».

I due saggi iniziali – Politiche, persone, immagini di Barbara Pinelli e Corridoi migratori via mare verso l’Italia di Luca Ciabarri – posizionano le azioni implementate dal nostro Paese all’interno del più ampio spazio europeo e mediterraneo e fanno risaltare i punti deboli e le contraddizioni di un sistema che, contrariamente all’opinione corrente, non fa acqua perché sottoposto alla pressione di numeri troppo grandi; bensì perché strutturalmente basato su improvvisazione e mancata pianificazione. Nel 2012, dopo la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo per le indiscriminate politiche di respingimento del 2009, l’Italia intraprendeva un’inversione di rotta e, pur continuando a lamentare il disinteresse dei partner europei, approntava un nuovo approccio agli arrivi via mare.

L’operazione Mare Nostrum, interamente finanziata dal Governo e diretta dalla Marina Militare, partiva nell’ottobre del 2013 sull’onda emotiva delle tragedie appena avvenute nel Mediterraneo (nel Canale di Sicilia, a poche miglia da Lampedusa, il 3 ottobre; fra le coste libiche e maltesi l’11 ottobre) e rivelava uno stretto connubio tra campagne di salvataggio e azioni di polizia. Durata circa un anno e interrotta, tra le polemiche, per l’eccessivo costo (circa 9 milioni di euro al mese) e le accuse di costituire una forza d’attrazione per i migranti, Mare Nostrum era riuscita comunque ad evitare altri naufragi nel breve periodo. Non era stata, però, affiancata da un adeguamento dell’accoglienza a terra e, lavorando sulle emergenze, aveva spinto istituzioni ed enti locali a improvvisare moltiplicando il numero delle strutture d’accoglienza e affidandosi sovente ad attori sociali scarsamente preparati.

Campobello, ph. Alessandro Sala.

Sicilia occidentale, ph. Alessandro Sala

Discorso analogo può essere fatto per l’erede di Mare Nostrum, Triton. Più snella ed economica (Triton operava nel raggio di trenta miglia dalle coste italiane e non, come le imbarcazioni della Marina Militare, fino a settantacinque), Triton vedeva l’Europa assumere un ruolo di primo piano e spostava ancor più l’asse verso il contenimento dei viaggi in mare. La nuova operazione, sostenuta da Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera), s’inseriva nella più ampia politica europea di gestione dei flussi migratori i cui tratti salienti sono riassunti da Pinelli: a) esternalizzazione della frontiera tramite pattugliamento dei confini e accordi bilaterali con i Paesi extra-europei; b) implementazione del sistema dei campi e creazione di zone di frontiera interna (hotspot); c) controllo della circolazione degli asilanti sul territorio comunitario attraverso i regolamenti di Dublino (1990, 2000, 2013) e il database d’impronte digitali EURODAC.

Con Mare Nostrum e Triton, la politica italiana (allineata a quella europea) certificava «l’indistinzione fra logiche umanitarie e securitarie» e rafforzava una visione che spostava il problema oltre i confini comunitari, lo circoscriveva al momento delle partenze e degli sbarchi e non discuteva la propria gestione del post-approdo e, a monte, la propria relazione con gli stessi Paesi di partenza. In barba alle crisi politico-umanitarie e ai conflitti che destabilizzavano il Mediterraneo e il Medio Oriente in quegli anni (primavere arabe, crisi libica, guerra civile siriana; per non parlare dei flussi migratori di più lunga data dall’Africa sub-sahariana o dal Corno d’Africa), ci si preoccupava solo di prevenire o ridurre gli arrivi piuttosto che rivedere l’intero sistema d’accoglienza.

Pinelli descrive così l’opaco iter burocratico seguito dai richiedenti asilo ai tempi di Mare Nostrum e Triton e del passaggio, senza soluzione di continuità, dall’Emergenza Nord Africa all’Emergenza Siria; un’analisi valida ancora oggi. Pone l’accento sull’ovvietà che, agli occhi dell’opinione pubblica, ammanta le politiche di confinamento/segregazione e propone una geografia dei centri d’accoglienza (CARA, CAS, CDA, CPSA, SPRAR) evidenziando le ambiguità di un ingranaggio che produce marginalità più che integrazione. Legge lo stesso fiorire di sigle e denominazioni per gli spazi preposti a ospitare i migranti come indice di decisioni estemporanee prese sull’onda delle nuove crisi. Sviscera la commistione tra assistenza, educazione e controllo che alimenta le pratiche d’accoglienza.

Messina-ph.-Alessio-Genovese.png

Messina, ph. Alessio Genovese

Racconta la violenza istituzionale cui vanno incontro i soggetti, tanto all’interno delle strutture (controlli serrati, pianificazione delle giornate e delle attività, opacità delle procedure e dei regolamenti, frammentarietà delle informazioni, isolamento fisico e sociale, confusione tra sorveglianza e cura) quanto all’esterno (esclusione dagli alloggi riconosciuti, disoccupazione, code infinite agli sportelli dei vari uffici, sospetti e retoriche razziste). Integrando le riflessioni di Nicholas De Genova sulle scelte politiche che identificano una persona come legale o illegale, mostra quindi le storture di un apparato che avvicina pericolosamente asilanti e beneficiari di protezione al mondo dell’informalità, se non dell’illegalità.

Lo stretto legame tra funzionamento della macchina umanitaria e generazione di esclusione è affrontato anche da Luca Ciabarri nel suo contributo:

«la via per mare non è mai stata luogo di produzione dell’immigrazione irregolare o clandestina poiché gli arrivi via mare sono nella maggior parte intercettati. [...] la produzione d’irregolarità è piuttosto una produzione burocratica, legata ai fallimenti, per lentezze, lacune, farraginosità di controlli e procedure, della gestione degli arrivi e dei successivi processi d’integrazione nel sistema di accoglienza e asilo o eventualmente di espulsione».

Il problema non va rintracciato solo a valle, cioè nelle oscurità della concreta gestione dei centri e nelle debolezze di un sistema che fatica a tradurre diritti formali in diritti sostanziali: tutti fattori che concorrono a spingere richiedenti asilo e rifugiati verso condizioni di disagio sociale o a fuggire consapevolmente il soffocante abbraccio dell’accoglienza. All’origine, infatti, è lo stesso comportamento italiano a muoversi senza un’apparente logica e a giocare in modo informale con le normative europee dando quasi l’impressione di tenere scientemente persone che, secondo le regole vigenti, difficilmente potrebbero beneficiare di piena protezione.

Milano, stazione, ph. Giovanni Diffidenti.

Milano, stazione, ph. Giovanni Diffidenti

La politica del laissez passer verso altri Paesi europei tenuta tra il 2013 e il 2014 con i profughi siriani, muniti di passaporto e con ottime possibilità di essere riconosciuti, parla chiaro. Oltre a ricordare curiosamente l’atteggiamento ambiguo della Libia di Gheddafi prima e dopo la firma del Trattato di Amicizia con l’Italia, getta una pesante ombra sull’intera gestione dell’accoglienza e della protezione offerta dal nostro Paese. Un’ombra che si allunga in modo macabro sullo strettissimo nesso tra migrazione, accoglienza e caporalato nelle campagne del Meridione e che alimenta quelle leggende mediatiche rafforzate, come rileva anche Dal Zotto, dalla mancanza di un piano organico e dalla logica dell’emergenza: dal soggiorno in alberghi cinque stelle dei migranti agli smartphone loro offerti, fino ad arrivare all’esorbitante cifra di 1000 euro al mese di cui essi beneficerebbero alla faccia dei cittadini italiani.

Il resto dei contributi al volume indaga puntualmente diversi aspetti: il nesso tra migrazione e lavoro nero (Enrica Rigo e Nick Dimes); la quotidianità degli asilanti in una grande città come Milano tra attese infinite, impossibilità di accedere al mondo del lavoro formale e creazione di una geografia urbana di reti, conoscenze e contatti informali (Elena Fontanari); la questione abitativa dei rifugiati etiopi ed eritrei a Roma in assenza di un adeguato piano comunale (Osvaldo Costantini); le risposte nazionali ed europee alla crisi siriana (Ilenia Careddu); gli scandali nella gestione dei fondi destinati all’accoglienza, uno di quei temi che suscitano indignazione e attacchi razzisti ignorando come le prime vittime di tali malversazioni siano proprio i beneficiari di protezione (Marco Bova); l’emergenza come cifra stilistica dell’accoglienza italiana (oltre alla già citata Dal Zotto, Raffaella Cosentino; Alessio Genovese). Tra i vari apporti, Antonio Maria Morone presenta il risultato di un’indagine etnografica nel campo di detenzione di Gharyan in Libia discutendo l’evoluzione dei rapporti tra il Paese nordafricano e l’Italia nel passaggio dal regime di Gheddafi al caos degli ultimi anni. Una testimonianza che andrebbe mostrata a chi – anche alla guida d’importanti Ministeri della Repubblica – oggi loda la serietà dei campi libici e non ha imbarazzo nell’annunciare energicamente la chiusura dei porti italiani.

Campobello-ph.-Alessandro-Sala

Campobello, ph. Alessandro Sala

Barbara Sorgoni, da parte sua, analizza l’importanza della narrazione per le procedure di accoglimento o respingimento delle domande di asilo e descrive il processo di produzione di racconti che vede coinvolti più attori: migranti, operatori sociali, volontari, avvocati, prefetture. Un processo – opaco, ambiguo, intrusivo – in cui al richiedente asilo, in assenza di segni di violenza fisica da mostrare, è richiesta la testualizzazione di una buona storia in grado di adeguarsi agli standard del Paese ricevente. Chiara Marchetti, infine, collega la continua fioritura di etichette e forme di protezione durante le varie crisi al progressivo indebolimento complessivo del sistema di accoglienza. Il “frazionamento burocratico” della figura del rifugiato, a suo avviso, non si limita solo a seguire la disordinata evoluzione dei flussi migratori. Tenta, piuttosto, di pilotarla attraverso un lavoro che mira più a salvaguardare i confini che a garantire assistenza.

Ancora una volta, insomma, le operazioni di categorizzazione ci dicono molto di più su chi ha il potere di nominare che su chi è nominato. Non a caso Marchetti apre il suo scritto con un interrogativo: le distinzioni giuridiche così finemente approntate dagli apparati europei «hanno una qualche rilevanza sociologica e antropologica?». Corrispondono, cioè, a qualcosa di concretamente esistente là fuori?

Si tratta, a mio avviso, di una domanda decisiva che giustifica lo sforzo di tutti i partecipanti al volume e che dovrebbe sempre orientare il nostro sguardo e le nostre riflessioni rispetto al fenomeno migratorio. Se, come ammonisce Ulf Hannerz, «dobbiamo essere consapevoli che quando i burocrati definiscono una cosa come reale, questa diventa comunque reale nelle sue conseguenze», allo stesso tempo non dobbiamo mai smettere, da studiosi e da cittadini, di chiederci perché le cose vanno proprio come stanno andando. Non dobbiamo mai considerare, cioè, naturali e ineluttabili gli spazi in cui viviamo e le zone di esclusione e marginalità che ci stanno attorno, anche quando non ci toccano direttamente. Dopo l’approdo è allora un grande esempio di lavoro critico sulle categorie in grado, con la forza delle parole e delle immagini, di smantellare o disarticolare gli effetti di quelle che David Graeber definirebbe «strutture immaginarie asimmetriche». Forze che impattano su corpi e soggettività e che alimentano la violenza burocratica anche quando questa si nasconde dietro grigi tecnicismi.

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.
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