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Visioni dall’infra-ordinario: incroci di sguardi al Museo Ettore Guatelli

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2022 @ 00:57 In Cultura,Società | No Comments

Mostra presso il Museo Guatelli

Mostra Visioni dall’infra-ordinario presso il Museo Ettore Guatelli

omaggio a Guatelli

di Monica Citti, Anna Giulia Della Puppa, Matteo Volta

«I giornali parlano di tutto, tranne che del giornaliero. Quello che succede veramente, quello che viviamo dov’è? Il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo descriverlo? Forse si tratta di fondare la nostra propria antropologia: quella che parlerà di noi, che andrà cercando dentro di noi quello che abbiamo rubato così a lungo agli altri. Non più l’esotico, ma l’endotico» (George Perec, L’infra-ordinario).

Un giorno d’estate del 2021 al Museo Guatelli, durante uno degli eventi che hanno puntellato quest’anno di “Ettore100”, Mario Turci ci ha chiesto se ci interessava essere coinvolti in un progetto che si configurava come un dialogo tra tre antropologi e tre artisti contemporanei e che avrebbe dovuto terminare nell’allestimento di una mostra al museo.

Come neo-formato gruppo “Strade”, in omaggio al testo di James Clifford che celebra la possibilità dell’antropologia di farsi strumento di analisi e comprensione dell’esistente anche in quei contesti che fuoriescono dagli scenari in cui sino a quel momento si era soliti pensare al lavoro etnografico, ci è sembrata una occasione d’oro per cimentarci nel lavoro collaborativo, un tratto che contraddistingue gli interessi di tutti e tre noi e permette una cliffordiana ibridazione con altri regimi di senso e altri registri espressivi.

Nel corso dell’estate, quindi, per diversi incontri collettivi e attraverso il medium comunicativo delle piattaforme di videoconferenza, estremamente interessante da un punto di vista etnografico, per il tipo di relazione e per lo spazio al contempo reale e virtuale che questo comporta (tema che non riusciremo ad affrontare in questo scritto) è cominciato il nostro viaggio attraverso il progetto “Visioni dall’Infraordinario”, insieme a Francesca Martinelli, Luca Piovaccari e Joachim Silue, tre artisti molto diversi per linguaggi espressivi e tecniche compositive, ma tutti in un certo senso guatelliani per la sensibilità verso quello che bell hooks, autrice femminista afroamericana chiama il margine, come «uno spazio radicale […] uno spazio di resistenza. Uno spazio che ho scelto» (bell hooks, Nadotti 2021), ma che è un tema molto dibattuto all’interno della cornice delle arti e dell’antropologia dell’arte da autori come Donald Kuspit (1991) o Jean-Loup Amselle (2005).

È però in questa idea di scelta che ci è sembrato risiedere il profondo legame con la poetica (e la politica) di Ettore stesso e col museo che, come gruppo di ricerca Strade, è il nostro primo interlocutore, il nostro dispositivo interrogante. 

Mostra Visioni dall'infra-ordinario presso il Museo Guatelli

Mostra Visioni dall’infra-ordinario presso il Museo Ettore Guatelli

La storia della casa-museo e di Ettore Guatelli ha molti elementi di contatto con il modo di intendere la figura del museo come luogo di partecipazione e piazza di incontro nella vita della società locale. L’attitudine a meravigliarsi «dell’ovvio, del quotidiano, dell’ordinario» – parole utilizzate dal maestro Guatelli per spiegare la sua creazione – rappresenta la conseguenza di ciò che il museo cerca di contenere e comunicare: il movimento di vite, storie e testimonianze.  Ma quale compito ha oggi il museo rispetto al proprio contesto locale (Clemente, Giancristofaro, Zingari 2020) e al fluire del tempo?

Ciò che mantiene attiva la connessione tra il museo Guatelli e la complessità del contemporaneo è la capacità di fare della relazione il punto fondamentale di partenza e di arrivo di ogni attività. L’esito dell’enorme lavoro di raccolta dal basso, la conservazione e interpretazione di tutto ciò che è in grado di raccontare “qualcosa” del mondo è finalizzata a fornire, alle persone che quotidianamente si spostano, si incontrano e si rapportano in diversi modi con l’ambiente naturale, la consapevolezza degli elementi che hanno costruito l’ordinarietà del presente. Qui, il mantenimento dei contenuti della memoria collettiva e delle molteplici forme di coscienza di luogo (Beccatini 2015) si realizza grazie al contatto con le persone. Infatti, oltre alle attività ordinarie di visita, il museo fa propria la vocazione ad aprirsi come un luogo di scambio e spazio del possibile, come una piazza di partecipazione e osservazione permanente (Dei 2018) delle dinamiche che intervengono nel territorio.

Gli spazi materiali e immateriali del museo interrogano costantemente, mediante l’esposizione e le progettualità che via via vengono realizzate, il divenire contemporaneo restituendo l’idea di un soggetto attivo che si muove fra temporalità complesse (Balzano-Tulisi 2013) per offrire stimoli e suggestioni a chi si trova e “frequenta” il tempo presente. Infatti, molte delle iniziative riconducibili sotto il termine di processi partecipativi trovano terreno fertile nel museo Guatelli che interpreta pienamente il ruolo di soggetto-partecipe (Lattanzi 2021) del luogo in cui è inserito. Queste forme progettuali, che prevedono la partecipazione di una eterogenea collettività, fungono da catalizzatori di idee, di relazioni che formulano significati che si sedimentano nei luoghi al dì là del semplice risultato tangibile e fungono da vettori per la riappropriazione degli elementi che costituiscono il paesaggio (Magnaghi 2010).

In particolare, le discussioni prodotte dalla sovrapposizione tra la lente antropologica e quella artistica, scaturite dalle riflessioni emerse con il progetto “Dialoghi dall’infraordinario”, rappresentano la volontà del museo di farsi spazio di provocazione e di stimolo per differenti sguardi e professionalità mantenendo al contempo la forma di luogo di incontro, di narrazione e di capacità di immaginare insieme. La realizzazione di un’attività partecipativa in una realtà museale ha dunque il valore di costruire delle piccole comunità di pratiche che, seppur nella loro entità non durevole, catalizzano l’attenzione su molteplici temi e significati dell’esistente a partire dalla relazione e dalla collaborazione di più punti di vista. In questo frangente il museo si fa spazio di possibilità, oltre che di esposizione, spostando l’asse dell’attenzione da sé alle relazioni fra le persone e i luoghi che acquisiscono significati eterogenei grazie ad un utilizzo attivo del patrimonio culturale.

Mostra Visioni dall'infra-ordinario presso il Museo Guatelli

Mostra Visioni dall’infra-ordinario presso il Museo Ettore Guatelli

L’apertura di spazi e momenti di confronto permette di entrare a contatto con le molteplici sezioni della realtà e di comprendere le svariate forme di conoscenza locale a partire da un luogo fisico, come il museo, e dai contenuti del patrimonio territoriale (Magnaghi 2020). Inoltre, le diverse occasioni di incontro e di condivisione delle esperienze lasciano alcune “tracce” utili per continuare a seguire delle linee d’azione definite da Arjun Appadurai forme di “democrazia profonda” (Appadurai 2014) praticata e immersa nella vita quotidiana.

La possibilità di formulare un progetto inteso come un’azione costruita e vissuta collettivamente permette dunque di considerare il museo come il luogo della fruizione partecipata dei beni patrimoniali che sono, come indica la Convenzione di Faro sul valore del patrimonio culturale, beni comuni aperti a tutta la popolazione.

Infatti, attraverso l’attività di conservazione, fruizione e partecipazione alla vita del patrimonio culturale la collettività diviene, come definisce Faro, una “comunità patrimoniale”[1] ovvero un gruppo: 

«Costituito da persone che attribuiscono valore a degli aspetti specifici del patrimonio culturale, che essi desiderano, nel quadro di un’azione pubblica, sostenere e trasmettere alle generazioni future» (Consiglio d’Europa – Convenzione di Faro 2005). 

Nella progettazione di processi partecipativi, il museo trova quindi la sua più compiuta realizzazione posizionandosi come entità aperta e disponibile, che riconosce il patrimonio culturale come elemento di proprietà delle sensibilità e degli sforzi di tutte le persone che lo vivono e se ne prendono cura. 

Il Museo è qui. È questa la scritta che accoglie il visitatore al suo ingresso nelle stanze del Museo Ettore Guatelli. In questa scritta può essere ravvisato uno spunto per riflettere sul ruolo del Museo etnografico contemporaneo e sull’importanza del suo “essere presente” nel qui ed ora.

Nel suo saggio L’artista come etnografo, Hall Foster ci ricorda quanto il concetto stesso di tempo sia fortemente radicato su un presupposto: il tempo è immanente perché consustanziale al mondo e, per tale ragione, ogni entità mondana può essere indagata in virtù del suo essere inserita in una “relazione temporale”. Una simile mappatura del tempo può essere utile per ricordarci quanto il posizionamento di un soggetto in uno specifico punto dell’asse temporale, definisca il suo rapporto con l’alterità. In altre parole, come scrive Foster:

«Non c’è dubbio che la proiezione del sé nell’altro sia fondamentale per una pratica critica dell’antropologia, dell’arte e della politica. Con dinamiche come quella surrealista, con l’uso dell’antropologia come autoanalisi (come in Leiris) o con la critica sociale (come in Bataille) questa proiezione diventa culturalmente trasgressiva, persino politicamente significativa» (Foster 1996).

Il rapporto che i Musei hanno intessuto, sin dalle loro origini, con la memoria influisce sulla percezione che di essi ancora oggi primeggia. Ci chiediamo quale significato si debba attribuire all’aggettivo “etnografico” qualora il proposito consista nel rendere evidente una possibile distinzione di intenti tra un Museo di cultura popolare e un Museo di etnografia.

Mostra Visioni dall'infra-ordinario presso il Museo Guatelli

Mostra Visioni dall’infra-ordinario presso il Museo Ettore Guatelli, incontri per Parma 2020-2021 capitale della cultura

Potremmo cominciare la nostra riflessione affermando che il Museo etnografico può forse essere tale solo se accoglie al suo interno l’Antropologia, facendone uno specchio per decodificare e riflettere sui processi socioculturali che ogni patrimonio, proprio perché tale, è in grado di generare. Il Museo etnografico, attraverso l’Antropologia, può radicarsi nel contemporaneo facendosi dono in grado di creare relazioni, riconoscendo nel pubblico lo specchio di una società civile che si vuole proiettare verso il futuro e producendo immagini per mezzo delle proprie collezioni. Sono collezioni fatte di oggetti, di cose, che divengono strade e suggestioni capaci di abbattere le pareti del Museo per espandersi verso “il fuori”, verso l’oggi di una collettività che contribuisce anch’essa alla definizione di un patrimonio culturale come tale.

Giunti a questo punto, radicati nell’era della surmodernità, della tripla accelerazione (Augè 1992), ci chiediamo in che termini e attraverso quali modalità debba intendersi il recupero di un tempo legato alla memoria culturale, all’arte del saper fare, all’intelligenza creativa della mano che modella e trasforma la materia. Ci domandiamo, in particolare, in che modo un richiamo a tale tempo possa agire sulla contemporaneità, trovando luogo nello spazio dell’alterità, dove con questo termine non si intende unicamente la diversità culturale ma, in senso più ampio, qualsiasi elemento capace di scardinare il nostro modo di osservare il mondo, ponendoci di fronte a quello “straniamento” in grado di restituirci, metaforicamente, la facoltà di vedere.

In altre parole, si tratta di recuperare quella capacità di svelare le pieghe del mondo contemporaneo prendendo le mosse proprio dal suo aspetto più tangibile, ovvero dagli oggetti che ci circondano, con cui quotidianamente interagiamo e che spesso divengono medium privilegiato di valori, gesti e simboli che, andando ben oltre la loro dimensione materiale, si fanno dono allo sguardo di chi li osserva, veicolo di memoria che diviene narrazione, attraverso il recupero della meraviglia dell’ovvio. Ecco che contenere l’antropologia vuol dire farsi ponte con la società civile per promuoverne la partecipazione attiva, offrendosi come zona di contatto, luogo di negoziazione dei significati, in dialogo con il territorio con il quale instaura processi di relazione.

Il Museo Etnografico diviene, in tal senso, un museo della narratività patrimoniale perché fa della pratica etnografica un mezzo per costruire un patrimonio condiviso, e dell’antropologia lo sguardo attraverso il quale il Museo può vivere non per se stesso ma per creare reti di connessione, occasioni di incontro, di racconto. Patrimonio, in tal senso, che può essere valorizzato anche nella sua accezione di bene comune, fatto di storie, di memorie, di visioni del mondo non univoche ma condivise. Sono storie di vita, quelle custodite nelle sale del Museo etnografico che si fanno testimonianza di un patrimonio vivente che si offre come spunto di domanda senza mai fornire una risposta precostituita. Spazio aperto alla possibilità, all’immaginazione, ad uno sguardo globale sul mondo e sulle questioni che lo animano.

Il Museo Ettore Guatelli partecipa a questa negoziazione di significati per sua stessa natura, perché è un Museo realizzato attraverso la pratica di un uomo che ha raccolto più di 60 mila oggetti che non rappresentano solo la passione, la curiosità di un collezionista, ma che sono lì per offrirsi al visitatore facendosi parola e narrazione. Sono oggetti che si lasciano leggere come se fossero dei segni, delle tracce, nelle quali ciascuno è libero di rispecchiarsi, di ricordare e di ricordarsi. Un Museo quale luogo di scrittura espositiva, una grande opera all’interno della quale oggetti “dell’ovvio” divengono porte attraverso cui narrare e stabilire un patto con l’osservatore, un patto di riflessione sulle storie delle persone che con quegli oggetti sono entrate in contatto e, in un certo senso, sull’esistenza intera.

Un museo quale luogo partecipativo, dove prendono forma infinite e molteplici “relazioni di dono”. Come ha infatti affermato il Direttore del Museo Ettore Guatelli, Mario Turci:

 «[…] il museo del dono partecipativo è il modo del museo di dichiarare il suo bisogno di collettività, la sua incompletezza, la sua esposizione ai rischi di una solitudine avara di relazione» (Turci 2012).
Per la mostra Visioni dall'infra-ordinario presso il Museo Guatelli, per Parma 2020-2021 capitale  della cultura.

Mostra Visioni dall’infra-ordinario presso il Museo Ettore Guatelli, incontri per Parma 2020-2021 capitale della cultura

Gli oggetti ci chiedono di essere investiti di senso, e questo senso parla di un’intimità plurale proprio perché carica di relazione. Entrare tra le stanze del Museo Ettore Guatelli significa intraprendere un viaggio alla scoperta del quotidiano attraverso lo stupore e la meraviglia, predisponendosi al recupero della capacità di osservare e domandare ma, al contempo, relazionandosi con uno spazio che è radicato nel presente in cui si colloca, nell’attimo e nel tempo in cui il passo si muove e lo sguardo sfiora le cose, nella contemporaneità.

E ciò avviene, presumibilmente, come conseguenza del fatto che non esistono oggetti di per sè etnografici, se con l’utilizzo di tale aggettivo si vuole indicare una loro ipotetica specificità culturale, o per meglio dire:

 «[…] forse esiste una etnografia degli oggetti che può conciliare l’antropologia e le cose. Forse non esiste modo di far parlare le cose senza l’idea della vita come uso, delle cose come aspetti dell’uso della vita»(Clemente 1999).

Il Museo etnografico può divenire quindi come un terzo spazio in cui nuove prospettive di azione e nuove chiavi di lettura possono essere messe in pratica. L’approccio dell’antropologia all’arte, e viceversa, diventa in tal modo molto più che una visione dell’arte come oggetto d’indagine, ma una collaborazione tra due realtà per mezzo delle quali è possibile indagare il mondo. Una sfida a cui rispondere ribaltando il nostro punto di vista, così pesantemente sopraffatto dalle categorie del mondo organizzato, per varcare la soglia del Giardino planetario, simbolicamente immagine del Terzo paesaggio, frutto del residuo, dello scarto e dell’abbandono, luogo che si sottrae al territorio antropizzato per fornire la possibilità che deriva dal suo essere riserva della diversità (Clément 2005).

C’è quindi da chiedersi come mai un museo di antropologia, così come l’abbiamo configurato e com’è il Guatelli, decida di ospitare l’arte contemporanea. Prima di tutto crediamo sia fondamentale mettere in luce la strettissima relazione che intercorre tra la volontà di mostrare, che è propria delle esposizioni artistiche e l’azione di un museo, che non mostra solo gli oggetti che contiene, ma che, per citare George Bataille, può essere considerato uno “specchio colossale” (Bataille 1974).

Se la mostra, infatti, come atto del mostrare – non a caso da monstrum latino, cioè “cosa insolita”, “prodigio” deriva il nostro “mostro”, in grottesca continuità con gli zoo umani dell’Ottocento –, restituisce pure tutto il respiro culturalmente connotato, “occidentale”, di un’azione mirata al collezionare e, appunto, mostrare per stupire, al contempo parla di noi, molto più di quanto gli oggetti esposti (“strani”, “incredibili”) non suggeriscano. Come infatti scrive Clifford in I frutti puri impazziscono: 

«In ogni collezione le inclusioni rispecchiano regole culturali più ampie di tassonomia razionale, di genere, di estetica. Una brama di avere smodata, talora persino rapace, si trasforma in desiderio ricco di significato, sottoposto a regole» (Clifford 1993). 

Il museo, infatti, come “spazio significante”, dove le persone possono (oppure no) riconoscere pezzi di sé, della propria storia umana e collettiva, rimanda a chi lo attraversa la sua appartenenza. Si è fuori o dentro a questa narrazione? Questa domanda, questa inquisizione diremmo metaespositiva è fondante al Museo Guatelli, le cui sale incalzano, interrogano il visitatore precisamente su quale sia la parte di sé che riconosce in quegli oggetti. Un compito che, quando era in vita, si riservava Ettore e che adesso è svolto dalle pareti della grande casa-museo.

In questo grande dispositivo espositivo e specchiante allo stesso tempo, ci sono diverse questioni importanti che riguardano la nostra domanda di partenza, molte delle quali hanno che vedere con la questione della rappresentazione. Per chi e per cosa stanno gli oggetti esposti in un museo? Cosa rappresentano, cosa c’è oltre quella che il poeta polacco Adam Zagajewski chiamava «la pelle levigata degli oggetti [è] tesa come la tenda di un circo» (2012)? Soprattutto, chi ha il potere di rappresentare e chi viene rappresentato?

Nella primavera del 2020, a seguito della morte di George Floyd, negli Stati Uniti e in tutto il resto del mondo abbiamo assistito ad una sovversione totale delle rappresentazioni pubbliche nelle nostre città. Le statue di personaggi come Cristoforo Colombo, Edward Colston, ma anche alle nostre latitudini quella di Indro Montanelli, che continuavano nel nostro spazio pubblico a raccontare la storia da un unico punto di vista, quello coloniale, sono state abbattute, interrogate, risignificate. Questo interessantissimo ed epocale momento ha fatto emergere e concretizzato in azioni reali sul patrimonio pubblico (sia materiale, le statue, che immateriale, cioè quello che quelle statue significavano) una questione apparentemente teorica, ma che in realtà ci riguarda come esseri umani le cui storie e la cui Storia si intrecciano e la cui dignità va ristabilita ad un livello paritario. Come infatti scrive Ivan Bargna: 

«Il monumento non si limita a rappresentare l’ordine esistente e a sancirne la legittimità, ma contribuisce a renderlo effettivo, perché richiede una risposta: non solo un’accettazione, ma una presa in carico che si esprime, non tanto e non solo con un gesto volontario (quello ad esempio delle celebrazioni rituali) ma con un processo di “naturalizzazione” che lo rende parte costitutiva dell’ordine delle cose. Le statue danno così forma a corpi che non sono solo individuali ma collettivi, a corpi espansi, come ad esempio quelli delle raffigurazioni ottocentesche della “madre patria”» (Bargna 2021). 
Mostra Visioni dall'infra-ordinario, incontri per per Parma 2020-2021 capitale  della cultura.

Mostra Visioni dall’infra-ordinario, presso il Museo Ettore Guatelli, incontri per Parma 2020-2021 capitale della cultura

Il diritto all’autorappresentazione, da una parte, che il colonialismo ha negato e la cui narrazione spesso autoassolutoria continua a negare, e dall’altra la possibilità che lo sguardo dell’altro su di noi racconti una storia diversa rispetto a quella che noi raccontiamo di noi stessi. Questa eredità difficile (Marschall 2008) è ciò che fa continuare questo continuo gioco di specchi nel quale, nel museo così come nello spazio pubblico delle nostre città costruite per appartenere a qualcuno e per essere inospitali per altri, guardiamo e veniamo guardati, siamo rappresentati e rappresentiamo, oppure ci troviamo estranei. Sono infatti le relazioni che intercorrono tra le persone, lo spazio e gli oggetti, quel paesaggio che si sviluppa attraverso un processo temporale (Ingold 1993) che costituisce ciò che noi chiamiamo patrimonio, fatto di scontri e di incontri, di risonanze e di disaccordi, sempre contemporanee, proprio perché soggette al fluire storico e quindi per definizione mai cristallizzabili. Relazioni dalle quali non si può prescindere eppure inarchiviabili, come le definisce l’antropologa dell’arte Giulia Grechi (2021), nel doppio significato di «impossibili da dimenticare», ma anche «impossibili da contenere in un archivio (o in un museo)».

In virtù di tutto questo, da anni si ragiona molto, in ambito museale, sulla necessità di ripensare le pratiche espositive e, soprattutto, di mettere in discussione i regimi di rappresentazione (chi rappresenta? cosa viene rappresentato? a chi si rivolge?), riconoscendo il gioco dello specchio, ma cercando anche modi di eludere questa logica binaria. Il ruolo dell’arte contemporanea, sembra essere fondamentale in questo processo. Come sottolineano sia Giulia Grechi (2021) che Valentina Lusini (2013), è stato attraverso la vocazione del contemporaneo ad ibridarsi con l’alterità e a sperimentare con le forme espressive che le due discipline sono entrate in contatto, tanto da stringere legami che ormai nel mondo dell’arte sono assodati e riconosciuti. Si pensi all’importante testo di Hal Foster The Artist as ethnographer (1995), che racconta come questo incontro sia avvenuto e anche le insidie di un mercato dell’arte le cui logiche spesso cozzano con le finalità della etnografia con le quali tuttavia non condividono il “peccato originale” dell’essere state, all’inizio della storia della disciplina antropologica, uno degli strumenti principali di reificazione dell’alterità.

Un binomio, quello dell’antropologia e dell’arte, che a nostro avviso non può che configurarsi con il lavoro collettivo collaborativo, proprio in virtù di quella svolta della disciplina che già Clifford intravvedeva ne I frutti puri (1993) e che ora si fa più attuale che mai: quella di allontanarsi da una raccolta di “dati di campo” come «pratica collezionistica di reperti che vengono strappati al contesto e condotti a casa nostra, dove gli attribuiamo significati che in realtà hanno più a che vedere con le carriere accademiche o museali che non con l’epistemologia» (Einzing, Hiller 1996), e piuttosto aprirsi alla possibilità di linguaggi e tecniche che mantengano forti gli intenti di analisi etnografica, ma che sperimentino attraverso le arti.

Noi, due antropologhe e un antropologo, un assaggio di questa pratica ibrida che mescola intenti, linguaggi e strumenti l’abbiamo sperimentato con la mostra “Visioni dall’Infra-ordinario”, che ci ha viste e visti protagoniste/i, in un dialogo profondo con due artisti e un’artista contemporanei.

Ma in che modo ci si può dire contemporanei, fuori e dentro il mondo dell’arte? E, in fondo, in cosa consiste e a cosa ci serve? Giorgio Agamben in un suo breve ma ricchissimo saggio dal titolo emblematico di Cos’è il contemporaneo? (Agamben 2007) ci dice che essere contemporanei vuol dire vivere il proprio tempo, ma con una sfasatura, una sconnessione rispetto ad esso. Vuol dire, ci dice, vedere del proprio tempo non solo le luci, ma anche e soprattutto le tenebre e saper quindi guardare ed agire in modo dissonante, portare nell’attuale una consapevolezza che chi coincide troppo pienamente con la sua epoca non ha. In questo senso, l’essere contemporanei può venire a configurarsi con la rottura del gioco dello specchio o, quantomeno, con la sua piena consapevolezza. Può significare utilizzare gli spazi significanti dei musei per tessere marginalità.

L’arte contemporanea, quindi, così come i musei antropologici e non meramente “etnografici”, quelli cioè, come abbiamo detto, che hanno in loro la tensione verso “l’incontenibile”, “l’inarchiviabile”, dove le relazioni più che l’estetica degli oggetti hanno il loro spazio privilegiato, ha il compito di incalzare, di porre domande, di mostrare le contraddizioni del nostro tempo e Francesca, Luca e Joachim in questo senso sono pienamente contemporanei. La loro arte, complice e sorella del museo Guatelli, è un mezzo potente per mettere in scena, per mostrare questa sfasatura: stare qui ed ora e contemporaneamente in ciò che è inattuale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1]Nel caso italiano è definita anche “comunità di eredità” in riferimento all’art.2. della Convenzione che definisce l’eredità culturale “un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”. Consiglio d’Europa, 2005, Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società- (CETS NO.199). Faro. 27. X. 2005. 
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Monica Citti, dopo la laurea triennale in Lettere presso l’Università degli Studi di Catania, con una tesi in Filologia della letteratura italiana, nel 2017 consegue con lode la Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Bologna, con una Tesi in Antropologia del Sistemi Religiosi dal titolo: “La memoria nei beni culturali. Prospettive e narrazioni della festa di Sant’Agata a Catania”. Nel marzo 2019 ottiene il Diploma di Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici con l’Università degli Studi di Perugia, discutendo una tesi dal titolo: “I percorsi del quotidiano: dal design spontaneo al ready made contemporaneo. Suggerimenti dal Museo Ettore Guatelli”. La sua ricerca si concentra sugli studi di cultura materiale, con particolare attenzione per gli oggetti della collezione del Museo Guatelli che appartengono al mondo del Design Spontaneo. Attualmente con Sandra Ferracuti, è coordinatrice del progetto europeo Rubbish! promosso dalla House of European History di Bruxelles.  
Anna Giulia Della Puppa, dopo la laurea triennale in lettere moderne conseguita presso l’Università di Bologna, si è laureata alla magistrale in Antropologia culturale, etnografia ed etnolinguistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e infine si è perfezionata in antropologia museale e dell’arte all’università di Milano Bicocca, dopo molti anni di ricerca sul campo ad Atene, in Grecia, come visiting researcher presso la VU di Amsterdam. Si occupa di culture urbane, comunità patrimoniali, processi educativi e di trasmissione della memoria culturale e costruzione dei nazionalismi mediterranei. Fa parte del gruppo di ricerca di antropologia pubblica Montagne in Movimento, collabora col Centro Studi Movimenti Parma ed è consulente scientifica di Comunità dei Musei di Parma e provincia.
Matteo Volta, laureato alla magistrale di Sociologia in Gestione delle Organizzazioni e del Territorio presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Trento. Nella tesi magistrale ha studiato il ruolo dei musei etnografici e dei piccoli musei locali nella conservazione e costruzione della memoria collettiva nel territorio dell’Appennino parmense. Nel 2021 ha frequentato il corso di perfezionamento Project Management per la Montagna presso Unimont- Università degli Studi di Milano. I suoi interessi scientifici riguardano i temi della sociologia del territorio e dei processi culturali, l’antropologia culturale e museale. Fa parte del gruppo di ricerca-azione Montagne in Movimento che si occupa, in maniera multidisciplinare, di antropologia pubblica e processi partecipativi in aree interne e territori montani.

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