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Virus, imperialismi, strategie: tra meta-complotti (quasi tutti) inventati e complotti reali
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2020 @ 00:25 In Attualità,Politica | No Comments
di Lauso Zagato
4 aprile
Premessa
Malattie contagiose ed epidemie hanno sempre rappresentato armi politico-militari, hanno forgiato e fatto crollare imperi, prodotto genocidi: vuoi in quanto arma consapevole di sterminio con tanto di target, cioè con intento genocidario proprio, nel senso contemplato dal diritto internazionale [1] (i mongoli che gettavano animali morti infetti dentro le mura delle città assediate; l’invio semi-coatto di prostitute bianche sifilitiche nelle zone abitate dai nativi americani nel XIX secolo, quello programmato di indumenti infetti nelle riserve dopo la resa delle tribù), vuoi in modo casuale (epidemia di morbillo che sterminò alla metà del XIX secolo la popolazione delle Hawaii e delle isole Figi) o misto. Intendo con questo ultime termine accadimenti in origine non specificamente voluti, e/o incontrollabili, ma che hanno visto un intervento umano cosciente in itinere, e/o la capacità di avvalersi degli effetti, a posteriori. I conquistadores, per esempio, inizialmente non erano neppure coscienti delle malattie mortali che portavano con sé: le Americhe furono conquistate dal vaiolo, endemico tra i soldati, che distrusse non solo la popolazione di Tenochitlan, ma si propagò nelle Americhe tutte [2]. Va notato che anche la meso-america era ben dotata nella prima guerra “batteriologica” della storia: si trattava peraltro di armi di difesa certo letali, che prendevano le viscere, ma ad effetto ritardato, non paragonabili alla micidialità dei virus portati dai nuovi giunti. I conquistadores vittoriosi, in effetti, sarebbero morti cagando, alla lettera, sopraffatti e annegati nei liquami. Ma tutto ciò sarebbe avvenuto in seguito, quando era già tardi per i nativi [3].
Comunque sul ruolo politico/economico/militare delle epidemie nella storia hanno scritto grandi specialisti, la materia torna oggi più che mai al centro degli studi, non solo storici: lasciamo lavorare gli esperti. Tra l’altro per andare avanti su tale terreno bisognerebbe saper distinguere in modo appropriato epidemie virali da epidemie di origine batterica (peste, difterite), che hanno natura diversa. Al mio livello di conoscenze il virus corona C19 è abbastanza impegnativo. Ciò che mi preoccupa, e che mi induce a scrivere, è piuttosto il rendermi conto di come il sapere storico-scientifico accumulato circa la politicità delle epidemie e (soprattutto) dei loro esiti venga oggi ricacciato nel limbo; dopo un primo momento in cui giravano le più fantasiose ipotesi meta-complottiste (virus prodotto in laboratorio da scienziati malvagi; oppure virus diffuso ad arte da qualcuno per scopi strani, oppure inesistenza del virus), a partire da un certo momento le lezioni del passato anche recente sono state di colpo cancellate, ed è diventata dominante l’opinione che questo è un maledetto e sventurato accidente, giunto dall’esterno, e che va combattuto come una guerra. Solo dopo che la guerra sarà finita con la nostra vittoria, si potrà riprendere la vita normale. Per i movimenti, certo, la vita normale è quella segnata dalle lotte; però per l’oggi prevale intanto un atteggiamento passivo, con motivazioni scientiste, talora d’accatto [4]. A me sembra che qui di obiettivo e fatale non ci sia nulla, salvo il virus Sars-CoV-2, della famiglia dei C-19, che fa il suo lavoro.
Ciò mi terrorizza: io non credo ai meta-complotti (intendendo con questo termine le narrazioni che vogliono l’evento epidemico opera umana ab initio, nella sua causa stessa) ma ai complotti in itinere credo eccome: ne sono in corso anche oggi, sotto i nostri occhi. Ricordiamolo, la gestione economico/politico/militare delle epidemie, come delle altre crisi maggiori, ha spesso effetti definitivi, crea cioè fatti compiuti irreversibili [5]. Escludiamo quindi il laboratorio del dott. Mabuse e la diffusione ad arte [6], come pure l’inesistenza del Sars-COV-2: sono complotti degni di… terrapiattisti, Al contrario, esiste una pluralità di complotti intersecantisi che via via via nascono, si combattono, si aggregano, scanditi dal dipanarsi dell’epidemia
Ma intanto: la risposta negativa vale proprio per tutte le ipotesi di meta-complotto, o una forma di meta-complotto esiste in realtà, ed è in pieno svolgimento?
In che senso esiste davvero un meta-complotto
Un meta-complotto, colossale, esiste davvero: è quello contro l’ecosfera ad opera del capitalismo. Se preferiamo, è la distruzione dell’ecosfera condotta alle sue estreme conseguenze nella fase dell’Antropocene in cui viviamo o, per dirla meglio con Donna Haraway, nell’età che si può definire Capitalocene [7]. E la natura reagisce. Mi rendo conto del pericolo, esprimendomi in questo modo, di entrare in una logica di discorso pericolosa, nel senso di personalizzazione della natura – la rivolta di Gaia di cui parlava Lovelock [8], ma anche altri [9] – e mi ancoro all’intervento del prof. Piovani, di rara chiarezza, giustamente ripreso dai social e dai gruppi di discussione virtuosi.
Il virus, questa antichissima creatura (questo programma?), fa il suo lavoro, e utilizza al massimo il comando implicito di riprodurre copie di sé dovunque possibile [10]. La società contemporanea ha creato le condizioni ideali per il diffondersi dei virus in genere, dei corona, e in specifico del Sars-CoV-2, in particolare: masse umane concentrate in megalopoli che effettuano spostamenti rapidissimi, distruzione dell’ambiente naturale di molte specie animale che convivono con determinati virus, addirittura trasferimento di questi animali, parte vivi parte morti proprio negli ambienti dove gli uomini sono affollati. Ma è inutile andare avanti, il generale stress del vivente attorno a noi è oggetto di letteratura [11], L’inquinamento, sappiamo da autorevole fonte «produce infiammazione cronica, nelle mucose delle vie respiratorie e rappresenta quindi un fattore di rischio aumentato per le complicanze polmonari indotte dal virus»[12]. Non solo: studi cinesi ed ora un rapporto derivante da uno studio di alcune Università italiane [13] dimostrano il ruolo delle polveri sottili come fattore di diffusione del virus.
È questo il reale meta-complotto che sta dietro l’epidemia; per questo mi scandalizza leggere o sentire i complottisti sostenere che il pipistrello è una scusa, ci deve essere ben altro dietro! Il pipistrello indica il salto di specie virale, la cosa più pericolosa che esista, anche in proiezione futura [14], ed è un segno dello stress raggiunto dal sistema. Proprio questo è il segno del meta-complotto, di un livello tale di gravità che i complottisti con la loro mancanza di visione di fondo non riescono neppure ad immaginare.
Una ultima osservazione, per dovere di coerenza. Io dubito sia realistico porci l’obiettivo del riequilibrio, siamo purtroppo oltre l’ipotesi della ricostruzione del rapporto corretto con la natura. Per capirci, Negri scrisse negli anni ’80 del secolo scorso di seconda natura antropizzata, volendo criticare certo integralismo naturista dei verdi tedeschi di allora [15]. Ma qui siamo oltre, siamo ormai allo sfacelo finale della seconda natura antropizzata, e il sistema reagisce in stato di stress. La prossima volta andrà peggio, pensiamo che sono passati meno di venti anni dalla Sars, 8 dalla Mers. I tempi si accorciano, i virus della serie Corona evolvono, si adeguano.
Non intendo evocare scenari da fine del mondo; vogliamo sopravvivere su questo “pianeta infetto” evitandone il collasso definitivo per quanto si potrà; il fatto stesso che la congiura del silenzio sia stata rotta e che il TG1 serale del 20 marzo abbia dato notizia puntuale dei risultati degli studi sul rapporto tra virus e polveri sottili è un segnale positivo. Malgrado tutto, forse l’epidemia stessa ci fornisce armi per (provare a) combattere il meta-complotto. Chiudo questo punto allora – per la serie: animismo fino in fondo! – riproponendo la bella metafora di Massimiliano Sassoli de’ Bianchi (Center Leo Apostel for Intedisciplinary Studies, Vrije University, Bruxelles): «Il coronavirus è un hacker creato dalla natura per mostrare la vulnerabilità del nostro sistema prima che collassi completamente»[16].
Strategie di Enti-apparato di governo
Una proposta di lettura, per quanto non molto condivisibile nel merito, ha il pregio di offrire un approccio valutativo delle strategie in atto da parte dei diversi soggetti statuali interessati, e consente di calarci in una valutazione fredda di questi, pur frammentari, procedimenti [17].
L’articolo di Roberto Buffagni [18] individua due diversi stili strategici di gestione dell’epidemia riconoscibili nei comportamenti politici degli Stati interessati. Tali stili rifletterebbero fedelmente «l’etica e il modo di intendere l’interesse nazionale e priorità politiche degli Stati e, in misura minore, anche delle nazioni e dei popoli». L’uno sarebbe fondato sulla cura dei malati (una volta manifestatosi il contagio: modello, dice l’autore, tedesco, britannico, parzialmente francese); l’altro sarebbe quello del contrasto/contenimento del contagio tramite provvedimenti emergenziali (essenzialmente isolamento della popolazione: modello cinese, sudcoreano, italiano).
Il modello 1 implicherebbe una spietata analisi costi/benefici, sacrificio cosciente di una parte della popolazione, più o meno ampia a seconda delle disponibilità di terapia intensiva. Va da sé che il non contenimento (seguo il ragionamento dell’autore) implica un numero alto di contagiati, e nessuna sanità nazionale sarebbe in grado di resistere; si tratterebbe quindi di scegliere prima chi salvare e chi no, dipendendo dalla forza del sistema sanitario nazionale, in relazione alle diverse fasce di popolazione. Il motivo di tale scelta sarebbe da ricercarsi nei costi folli del secondo modello, e nella constatazione che i condannati sarebbero in gran parte i già vittime di altre patologie, e/o i più vecchi, appartenenti agli strati disagiati e alle etnie periferiche della popolazione. Da ciò anzi nascerebbero addirittura situazioni di vantaggio per il sistema economico e per il Paese in proiezione ripresa industriale. Quest’ultima risulterebbe favorita anche nella crescita della quota di giovani, più disposti a spendere e a investire, nell’insieme della popolazione dopo la fine dell’epidemia. Elemento centrale è comunque il vantaggio competitivo formidabile sui Paesi che adottano il secondo modello.
Per perseguire tale modello, dice Buffagni, è necessario un ceto politico saldo nel perseguimento spietato dell’interesse nazionale, e una forte disciplina sociale (proprio questo renderebbe difficile per non dire impossibile il perseguimento di tale modello da parte della Francia). Insomma: una scelta di guerra, liberarsi della zavorra umana sfruttando il virus, per essere avvantaggiati nei confronti degli altri Stati, i veri nemici che proprio l’epidemia del virus consentirà di sconfiggere.
Chi sceglie il modello 2 di converso, in particolare la Cina, sarebbe guidato da un ambiente culturale prevalentemente comunitario, da un diffuso rispetto per gli anziani (e culto degli antenati), una valutazione strategica di lungo periodo, fondata sull’importanza della coesione del corpo sociale.
Ciò detto, l’autore si chiede il perché della scelta del modello 2 da parte dell’Italia, scelta invero improbabile all’inizio della crisi. Ne trova la base culturale-ideologica nel Controriformismo cattolico (che raccoglie il familismo addirittura precristiano proprio delle civiltà del Mediterraneo), sulla cui base si installa il pacifismo caratteristico del secondo dopoguerra. Ancora, giocherebbero in tal senso dal conflitto tra forze politiche e tra Stato e Regioni (quindi corsa alla legittimazione da parte delle istituzioni), e la tradizione politica di imboccare la linea di minor resistenza di fronte alle crisi, in questo caso il contenimento del contagio. Ironicamente, gli Stati che scelgono il modello 1 assumono comportamenti che, in astratto, si identificano con modelli di libertà: le persone mantengono libertà di movimento, chi si ammala a livello tale da richiedere terapie intensive, potrà avendone i mezzi curarsi, gli altri moriranno; il modello 2 richiede invece l’esercito, lo stato di eccezione, etc. Conclude dicendo che, anche se ha l’impressione che la cosa sia stata casuale, è contento che l’Italia abbia fatto la cosa giusta.
Questo contributo è il primo da me letto ad aver posto in termini di scontro politico tra sistemi-Paese – e implicitamente, il conflitto tra le classi al loro interno – la vicenda che stiamo vivendo, sottraendola agli imbonitori militanti che, con il richiamo sguaiato al nemico esterno cercano di privarci delle capacità di ragionare. Di ciò va dato merito all’autore. Peraltro, la stessa tesi di fondo non è ben calibrata, e risulta superata dai fatti; soprattutto però risulta troppo facile la decostruzione degli elementi interni su cui la doppia ipotesi si fonda. Per esempio, non occorre tornare al familismo del Mediterraneo pre-cristiano, in Italia il rapporto fisico tra generazioni si presenta secondo modelli che mettono in diretto contatto le classi di età, più di quanto avvenga altrove. Si è diffuso negli ultimi decenni un sistema di badantato domestico che non ha l’eguale in Germania o Francia, con conseguenti aspetti di sfruttamento del lavoro servile e compressione dei diritti umani della forza-lavoro femminile non unionista [19] (ma qualche volta anche appartenente a Paesi membri dell’est europeo), funzionale ad un generale orientamento a trattenere in famiglia pensionate/i e … pensioni. Donde maggior forza del rapporto affettivo, come anche un livello acuto se pur nascosto nelle pareti domestiche (ecco, qui si emerge in tutta la sua forza l’ipocrisia controriformista) di violenza nei confronti di anziane/i. Insomma, andiamoci cauti con la nobiltà del modello 2, applicato all’Italia. Le famiglie – mi scuso per il cinismo – hanno capito benissimo che se la persona anziana di casa è a rischio, lo è una quota di reddito fisso spesso essenziale alla sopravvivenza del nucleo. Inoltre, cosa più grave, circola un documento Siaarti (Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione, terapia intensiva), mai smentito, che suggerisce di fare una scelta tra i pazienti in caso di necessità (carenza di posti per terapia intensiva), privilegiando i meno anziani, e si moltiplicano le circolari interne (mi riferisco soprattutto alle strutture sanitarie del Veneto, perché qua la notizia è certa) che invitano il personale ad «evitare strategie assistenziali e difformi nel territorio della regione», applicando in modo omogeneo il documento Siaarti [20].
Quindi le “due linee” si accavallano. Sotto altro profilo, sarebbe opportuna cautela nell’equiparare il modello di comportamento seguito dall’Italia a quello cinese: bisognerebbe allora, come da più parti si sostiene, concludere criticamente sull’incapacità italiana di andare fino in fondo ed essere coerenti con il modello. L’8 marzo, se invece che alla stazione di Milano la fuga in massa fosse avvenuta alla stazione di Wuhan, ci sarebbe stata una strage. Ma …qualcuno pensa davvero che si dovesse fare così? Io starei attento a quanti sbraitano che vogliono ancor più durezza di quella messa in campo, e che bisognava fare come in Cina; ho il “sospetto” che costoro abbiano pessimi progetti in mente per il dopo virus, e stiano dando inizio a una serie di movimenti preparatori mentre l’epidemia è in itinere. Se proprio dobbiamo, poniamoci invece la questione in termini seri, tali da inchiodare le autorità nazionali, centrali e periferiche, alle loro responsabilità. Era davvero impossibile per il nostro Stato seguire il modello della Corea del Sud? [21]
Dubito anche, a dire il vero, che la Germania odierna, il cui ceto dirigente è particolarmente attento alla coesione sociale, possa essere fatta rientrare appieno nel modello opposto; quel Paese ha un sistema sanitario/di ospedalizzazione ancora in piedi malgrado i misfatti, anche là, del neo-liberismo, ed ha potuto prepararsi davvero ad una strategia di contenimento. D’altro canto il primo modello, nella sua forma esplicita, è stato teorizzato da Boris Johnson in una indimenticabile lezione pubblica di cinismo politico, salvo invertire la marcia sotto la pressione dell’opinione pubblica interna. A quanto ne so, solo il governo olandese persegue ancora la via teorizzata da Johnson e sintetizzata da Buffagni; quel governo, dai discorsi che fa, sembra peraltro più la vispa Teresa di turno sulla scena internazionale che una gelida entità policymaker espressione della destra tory ... (a meno non si tratti naturalmente di abilissimi attori) [22].
Le nuove élites britanniche avevano anche provato a entrare a piedi giunti nella questione dell’affrontamento europeo del virus, irridendo alla scelta italiana del controllo, ascritta senz’altro alla scarsa volontà di lavorare degli italiani; la stessa Bce in quei giorni, in una intervista della sua direttrice, aveva un po’ ammiccato ad un tale atteggiamento. La situazione è cambiata in poco tempo, governi e istituzioni UE sembrano a tratti, pur se in modo contraddittorio, rendersi conto che la Maginot neoliberista deve comprendere anche l’Italia, rimandando alcune rese dei conti interni alla nuova UE a più tardi. L’intervento quasi inaspettato in grande stile della Bce è stato sul breve periodo rilevante [23]. Voglio chiarire: la UE sta scegliendo se portarsi dietro o meno anche le anitre zoppe (Italia, Grecia) nella salvaguardia del sistema neo-liberista europeo, che è esattamente all’origine del disastro attuale; ai popoli europei il compito di de-strutturare e rivoltare dall’interno tale infausto modello [24]. Resta che almeno per ora non siamo rimasti balia dell’idiozia sovranista, e di quanti blaterano di moneta sovrana [25].
Facciamo un quadro d’insieme. Sul piano internazionale, è evidente che tra imperialismi storici in crisi, farneticazioni neo-coloniali (la nostalgia inglese dell’impero) che si sfaldano come neve al sole, non si vedono sistemi Paese che possano davvero sfruttare la crisi in itinere a proprio vantaggio. Più in generale, mi pare di vedere una accorta volontà di capitalizzare la propria superata emergenza da parte cinese a fini di recupero di consenso internazionale (e di coesione interna) sul lungo periodo, un precipitare dell’autorità USA nel mondo (si pensi alla figura di Trump che voleva comprarsi l’esclusiva delle realizzazioni dell’industria farmaceutica tedesca) [26], la scelta franco-tedesca di tenere in piedi la UE e non buttarsi in avventure isolate (salvo litigare poi sul come), una sostanziale paralisi della Federazione russa che non è in grado di approfittare sullo scacchiere internazionale dell’occasione, salvo indirettamente, e comunque a suo rischio dato il pericoloso compagno di merenda che si è presa … ecco, leggo purtroppo spalancata la via (già aperta peraltro) per un trionfo del peggiore dei sub-imperialismi in campo. Mi riferisco alla Turchia, ed alla totale libertà di mosse sullo scacchiere medio-orientale che quel governo si è ricavato, approfittando anche della gravità del dramma da virus iraniano. Tra le varie guerre proclamate o gridate, quella vera la sta conducendo con tutta calma ma spietatamente, senza gridarla, il regime turco in Siria (oltre che nella stessa Anatolia sud-orientale). Se non si riusciva a trovare il modo di opporsi efficacemente prima a quanto perpetrato ai danni della popolazione curda, figurarsi ora che c’è l’emergenza virus: i governi europei hanno tutti un alibi. Ecco una amara riprova di quanto affermato all’inizio: sul piano internazionale, la crisi epidemica in atto favorisce il realizzarsi di una situazione di fatto compiuto, in senso (anche) politico-militare.
Più che sul fronte del confronto tra Potenze e sistemi-Paese, i complotti più significativi che accompagnano la pandemia, e i piani in via di approntamento per spartirsi il bottino del “dopo”, hanno luogo nell’ambito della rete di relazioni di potere transnazionali operanti nel quadro neoliberista [27], rete che accompagna i passaggi della crisi epidemica, venendone scandita, ma marchiandoli a sua volta. A tali complotti si devono contrapporre forme di resilienza che in parte cominciano a rendersi visibili [28]. Affrontare tale tema richiede un diverso approccio, un lavoro non individuale, e quindi non può essere svolto in questa sede.
Prima di chiudere, va data una occhiata da vicino alla situazione italiana, perché è forte il timore che un paio di quelli che ho chiamato complotti in itinere siano in pieno svolgimento, e operino con metodo.
Crisi del sistema di presidio italiano e (drammatici) complotti in itinere
È disponibile il primo Rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità che prende in esame i primi 3200 deceduti [29]. Trattandosi di documento ufficiale, è estremamente cauto; tuttavia, per fronteggiare e ribattere adeguatamente al partito della paura, i dati che riporta sono più che sufficienti. Prende in esame la situazione dei deceduti al 18 marzo. I successivi Rapporti dell’Istituto sono più stringati, ma confermano pienamente il trend originale. I confronti verranno fatti con l’ultimo Rapporto disponibile, quello del 30 marzo, che si riferisce ai dati del 26 [30].
Il primo Rapporto conferma intanto quanto sapevamo: l’età media dei deceduti è di circa 80 anni, più alta di 15 anni dell’età media dei contagiati. Le donne sono il 29%. Per fascia d’età i morti sotto i 50 anni sono 36 (appena più dell’1% del totale), 93 avevano tra i 50 e i 60, 329 tra i 60 e i 70. Insomma solo 450 persone su 3200 (!) avevano meno di 70 anni al momento del decesso. Degli altri: 1134 avevano tra i 70 e gli 80, 1309 tra gli 80e i 90, mentre in totale gli ultra novantenni sono 298 (questa è inoltre l’unica fascia in cui, in termini assoluti, le donne superano gli uomini, ma ovviamente ciò avviene perché si tratta di una età cui giungono assai di più donne che uomini). I dati fin qui riportati non sono a campione, ma totali. Il documento aggiornato del 30 marzo prende in considerazione invece un campione di 6801 pazienti (un campione estremamente ampio, alla data) e presenta risultati assolutamente coerenti: età media tra i 78 e i 79 anni, le donne sono 2012, pari al 29/6%. I deceduti con meno di 50 anni sono 84 (1.2 %); dei quali 17 con meno di 40 anni.
Il Report del giorno 20 esamina poi le schede di un campione del 15%, pari a 481 deceduti, dei quali solo 6 non presentavano alcuna delle più gravi patologie, mentre tutti gli altri presentavano 1, 2 , 3 o più (48%) gravi patologie. Si parla, a riprova della serietà dello studio, di gravi patologie già attive negli ultimi quattro anni prima del riscontro della positività. La patologia più ricorrente non è il cancro né le varie forme di malattie cardiovascolari, da solo o insieme, ma l’ipertensione arteriosa, riscontrata nel 73% dei casi di decesso. Per capirci, al secondo posto abbiamo il diabete mellito con 33% (meno delle metà dei casi di ipertensione)[31]. Il Report del giorno 30, relativo ad un campione di 710 deceduti, presenta un quadro che si sovrappone in modo impressionante al precedente: solo il 2.1% (15 deceduti) presentava zero gravi patologie, il 21.3% (151) una grave patologia, il 25.9 % (184) due, il 50,7% (360) tre o più patologie. La media per i deceduti analizzati nel campione è addirittura di 2.7 patologie. La percentuale con cui l’ipertensione arteriosa domina il quadro resta all’imperioso 73%, il diabete è sempre secondo ma scende al 32.1%, mentre la cardiopatia ischemica è al 27 circa. La centralità dell’ipertensione arteriosa nelle morti da Sars-CoV-19 è un dato importante, sottaciuto dai più: è anzi la esclusione dal novero delle gravi patologie dell’ipertensione che consente poi ai venditori di paure di “scoprire” che il virus uccide massicciamente anche persone che non presentano alcuna delle più gravi patologie [32].
Che cosa vuol dire tutto questo? Prima di tutto che la diatriba tra “morti di” e “morti con” non ha veramente senso: morti di coronavirus, in senso proprio, non ce ne sono, (con buona pace dei soliti imbonitori), i morti sono praticamente tutti con coronavirus. Peraltro, va riconosciuto come anche tale definizione sia impropria e troppo generica: morti con coronavirus possono essere i morti per incidente domestico che risultavano casualmente positivi al momento del decesso, i morti con queste gravi patologie in forma avanzata, come anche le persone che, avessero o meno patologie, sono morte proprio per le complicazioni sorte in campo respiratorio a causa del contagio. Per queste ultime sarebbe più esatto dire morte per (presumibili effetti del contagio da) coronavirus, lasciando l’asettico morti con a quelli che, pur postivi, sono davvero morti per motivi affatto diversi, o che al contrario sarebbero morti lo stesso a breve termine.
Naturalmente il numero dei morti con o per coronavirus andrebbe considerato in relazione ai 1200 morti di media (consolidata negli ultimi anni) al giorno in Italia per varie patologie; i primi calcoli parlano di un raddoppio dei morti sulla media degli ultimi quattro anni nel Nord, con punte fortissime, di oltre quattro volte, nelle province più contagiate [33]. È lecito sospettare che all’inizio vi sia stata una “retorica di guerra” sproporzionata al peso reale dell’epidemia? È lecito ritenerlo, ma poi la situazione è presto cambiata. Abbastanza presto infatti, sono esplosi i decessi in Lombardia, o per meglio dire in un territorio composto da alcune province lombarde (Bergamo, Brescia, Lodi, Cremona) e province settentrionali dell’Emilia-Romagna (Piacenza, Reggio Emilia), con un pericoloso rialzo nel Veneto confinante con Bergamo e Brescia. Ma a parte l’impazzimento dei numeri in alcune aree del Nord, che senso avrebbe consegnarsi mani e piedi alla teoria della manipolazione? Sarebbe prima di tutto offensivo per quanti, anche tra i nostri amici, hanno perduto qualcuno, o hanno subito il contagio, o in qualità di appartenenti al personale sanitario stanno impazzendo di fatica e dolore. A nessuno di costoro possiamo andare a dire che è stata (inizialmente) una truffa, e in effetti non è così. Ma ancora di più, e mi scuso per la mancanza di pietas delle parole, io temo che, seguendo questa strada, cadremmo in un tranello, aiutando i portatori di vere e proprie responsabilità politico-criminali e/o economico-criminali, a trarsi d’impaccio.
Le responsabilità dell’impreparazione del sistema sanitario, frutto della folle corsa alla distruzione del sistema pubblico di protezione dei malati perseguito dall’inizio del secolo [34]; sono sotto gli occhi di tutti, le informazioni che ci giungono da pazienti, personale degli ospedali (di ogni categoria) risultano agghiaccianti. Negli ultimi 15 anni i posti di terapia intensiva in Italia sono stati ridotti di più della metà, al punto di non essere raffrontabili con il sistema tedesco o svizzero. E a proposito del presidio sanitario nazionale, si deve aggiunge il ruolo di aggravamento del contagio prodotto troppo spesso dalle strutture ospedaliere [35], e lo scandalo delle case di riposo, divenute vere e proprie strutture di morte, succedanee di Treblinka [36].
Osserviamo la singolare eterogenesi dei fini! Proprio la conoscenza diffusa tra la popolazione dello sfacelo della situazione ospedaliera nazionale, ha giocato un ruolo importante ai fini dell’accettazione di massa delle drammatiche misure di quarantena imposte, contribuendo così a dare proprio ai colpevoli della tragedia un potere di cui nessun gruppo aveva goduto nell’Italia del dopoguerra. Riassumiamo: si tratta di un virus influenzale, nuovo e quindi altamente instabile e dotato di forte aggressività. Crea quindi situazioni che producono particolari necessità di terapia intensiva nei pazienti deboli, pur avendo assai scarsa letalità diretta di suo [37]. È il disfacimento del presidio sanitario, evidente anche per quanto riguarda materiali di protezione (come indica il numero assurdo di positivi e di vittime tra il personale, mandato allo sbaraglio con attrezzature affatto inadeguate) ad aver fatto sì che la situazione divenisse da subito drammatica, anche quando i numeri non lo giustificavano ancora, come mostra l’evoluzione parallela (anche se sfalsata di un po’ di giorni) dell’epidemia in Germania. Insomma, il sistema italiano è entrato in sofferenza già su numeri clamorosamente bassi rispetto al successivo impazzire della curva di letalità in alcune aree del Paese.
Confrontiamo i dati di tre consecutive domeniche di marzo: non ci interessa la percentuale dei positivi, che dipende dai criteri utilizzati, come pure dalle emergenze sorte in aree particolarmente sensibili. La sera del 15 marzo il totale dei decessi era di 1809, mentre tra i positivi accertati al momento (20.603), le persone in terapia intensiva erano 1672. I morti in Lombardia erano un po’ più di 1200, dei quali 261 nella provincia di Bergamo. Sette giorni dopo i decessi erano 5476, i guariti 7024; i positivi a quella data 46.638, dei quali 17885 in Lombardia (6216 in provincia di Bergamo, 5317 in quella di Brescia), 6390 in Emilia.-Romagna 4644 in Veneto. I morti in Lombardia erano 3456, dei quali 1064 in provincia di Bergamo e 720 nel bresciano. Il 29 marzo sera abbiamo 73880 positivi allo stato, di cui oltre 25.000 in Lombardia (9527 nella provincia di Bergamo). I decessi sono 10.779, dei quali 6360 in Lombardia (1878 in provincia di Bergamo), 1443 in Emilia-Romagna.
Il presidente dell’ISS ha fatto ricorso, in relazione al gioco tra le vaie cause di mortalità, all’espressione co-morbosità, che mi pare non solo elegante, ma nel contempo di assoluta efficacia. Non vi è dubbio che al di là del virus in sé, proprio lo sfacelo del sistema sanitario nazionale in seguito alla politica dell’ultimo quindicennio, sfacelo ben presente nelle regioni più colpite e soprattutto in Lombardia [38], abbia avuto e stia ancora avendo un ruolo importante nel decorso dell’epidemia. A questo si aggiunge la citata presenza di una fascia di popolazione anziana particolarmente alta, e socialmente più mescolata con le altre fasce di quanto avvenga di norma in Europa, in Germania soprattutto [39].
Resta che per arrivare all’impazzimento di cifre e percentuali in alcune province ci vuole evidentemente dell’altro. Ciò tanto più che proprio da quelle province, come si è visto, viene l’indicazione che il numero reale dei morti con e per (effetto di complicazioni derivanti da) coronavirus è in realtà assai più alto: sono avvenute molte cremazioni di persone delle quali non era stato possibile verificare la positività o meno [40] e quindi non risultano nel numero. Tra gli ulteriori fattori che hanno contribuito al disastro va annoverato certamente il comportamento di molti attori politico-amministrativi: proprio il 28 febbraio, non dimentichiamolo, la Confindustria di Bergamo dava il via alla campagna “Bergamo is running/Bergamo non si ferma”, per tranquillizzare mercati e partners stranieri. I sindaci di Bergamo e di Alzano Lombardo all’inizio di marzo denunciavano con forza il disastro economico costituito dalla minacciata chiusura dei paesi e della città [41], convertendosi poi in men che non si dica alla linea dell’estremo rigore. Sono dati importanti, è possibile che il blocco in tempo utile della Val Seriana (o di tutta la bergamasca) avrebbe avuto degli effetti mitigatori, ma neppure questo basta a spiegare quella che viene chiamata impropriamente l’anomalia lombarda, che abbiamo visto però essere anomalia di una parte di quella regione cui si aggregano le province più vicine di altre regioni. Esistono altre cause di co-morbosità che si rendano evidenti icto oculi? [42]
Anche alla luce di alcune qualificate prese di posizione già riportate, è evidente l’incidenza dell’inquinamento atmosferico in pianura padana, soprattutto nelle zone in cui è massima la difformità dei decessi. Nelle province di Bergamo e Brescia nel 2019 i picchi di inquinamento hanno superato (spesso di molto!) i tassi di inquinamento atmosferico tollerato per oltre 200 giorni l’anno, e questo non può non avere evidenti conseguenze sullo stato di infiammazione dell’apparato respiratorio [43]. Insomma, vi è una presenza dei gas e delle polveri nell’aria (oltre all’effetto delle stesse polveri nella circolazione del virus [44]) che, crea uno status di infiammazione cronica, abbassa le difese e favorisce l’incremento della letalità. Da valutare è poi, specifico della Lombardia, il via libera alla deposizione di fanghi industriali e farmaceutici con valori nettamente superiori alla misure consentite dalla legge del 2006 ad opera ancora della giunta Maroni [45].
La narrazione dominante che scandisce le settimane del contagio, lo hanno notato in molti, usa i canoni elaborati durante la c.d. lotta al terrorismo. Ciò traspare dall’incessante martellamento che chiama alle armi. C’era però fin dall’inizio, e ora emerge con chiarezza, una differenza sostanziale. Provo a spiegarmi. All’epoca, la narrazione imposta dal potere e che scandiva il susseguirsi delle inchieste e dei processi, aveva come compito precipuo quello di cancellare la storia di oltre dieci anni di lotte, lasciando al suo posto una cronaca di congiure e crimini, che peraltro richiedeva numeri assai ridotti di persone contro cui scatenare l’infinita potenza dello Stato. Insomma, non potevano riempire gli stadi, avrebbero contraddetto la loro stessa narrazione. Naturalmente, come tutte le narrazioni di guerra e di terrore, aveva bisogno del fronte interno, del pericolo costituito dai c.d. fiancheggiatori perché non bisogna abbassare la guardia contro il nemico. In effetti si avvalsero della paura su una scala significativa, ma sempre prestando attenzione a non contraddire la narrazione sottostante: insomma, non potevano riempire gli stadi neppure di c.d. fiancheggiatori e complici.
Questa volta invece il nemico è astratto; la narrazione, all’inizio si fondava sulla specialità e pericolosità del contagio, e quindi il totale dei positivi doveva essere relativamente scarso rispetto agli ospedalizzati e ai necessitanti di terapia intensiva. Di qua l’accusa di follia e di spargere fake news a quanti opponevano l’ovvietà, e cioè che in realtà il numero dei positivi, ove seriamente controllato, sarebbe risultato enormemente più alto: lo scopo era evidentemente alzare le percezione della gravità, la sindrome da pericolo. A partire da un certo momento è divenuto però evidente che il meccanismo della guerra si alimenta solo con la presenza di molti, moltissimi nemici interni: i portatori sani, gli asintomatici, sono stati trasformati nei nuovi untori. L’esercito degli asintomatici, di per sé non colpevoli, dapprima considerato dal senso comune come formato da persone fortunate e/o particolarmente forti, si è trasformato in un batter d’occhio in un gruppo di individui comunque dai tratti ambigui, poi senz’altro sospetti: coloro che con i loro atteggiamenti irresponsabili si sono rivelati pericolosi, complici oggettivi del nemico [46]. Bisogna quindi tamponare, individuare, e poi raggiungerli, chiuderli, soprattutto vigilare. Si diffonde giorno dopo giorno un clima di rancore e di sospetti e denunce reciproche (anche tra familiari) che ricorda davvero la caccia all’untore [47]. Lo stesso sacrosanto, e di per sé condivisibile, appello ai volontari si è trasformato in un invito di massa alla delazione reciproca. Di più, e qui entriamo in un discorso davvero si è notato in alcuni blocchi la presenza di “volontari” civili, magari privi di mascherina e di qualsiasi protezione che fanno controlli, fermano, chiedono documenti, il tutto senza qualificarsi, “coperti” dalla presenza di qualche membro di forze dell’ordine.
Qualcuno sta pensando a legittimare formazioni paramilitari? Si configurerebbe allora un classico caso di complotto che si sviluppa in itinere e che va fermato subito. Perché bisogna dare una prima sbirciata al prossimo futuro, agli effetti, anche se il tema non rientra tra gli oggetti del presente lavoro. Se questa è una guerra contro un nemico estraneo e imprevedibile – e chi più lo grida sono quanti più hanno operato a scatenarla distruggendo l’apparato della sanità, inquinando oltre ogni limite aria, territori e falde, cercando di far andare avanti la vita produttiva come prima mentre il numero di malati gravi e deceduti esplodeva – cosa succederà dopo? Cosa farà il partito della guerra?
Qualcuno sta già lavorando alla creazione nel Paese di una psicosi da vittoria tradita, si comincia a cercare un nuovo nemico, da decidere se interno o esterno [48]. Abbiamo visto uscire allo scoperto personaggi inqualificabili della destra militare ormai in pensione, giustamente e con durezza ridimensionati. Ciò mi tranquillizza solo in parte perché, stante la stupidità fuori tempo e luogo della loro uscita allo scoperto, questa ha certamente infastidito anche chi avesse in mente – e qualcuno ci sarà – una sorta di “lunga marcia” attraverso le istituzioni verso una soluzione autoritaria. Invero, «l’ansia del controllo rafforza indubbiamente i poteri che dominano le nostre vite, ed è bene ricordare che, una volta assunte, misure come quelle di queste settimane rimangono nell’arsenale di ciò che è politicamente possibile» [49]. È un caso, o mero gioco politico, se quegli stessi esponenti della destra più sguaiata che prima gridava al pericolo di una stretta sui controlli per i commerci e lo sviluppo (tutto si riduceva ad una guerra commerciale con altri Paesi membri della UE, secondo il sapido slogan del front runner) si sono di colpo convertiti alle misure speciali che più speciali non si può? Le solite banderuole, il (comprensibile) desiderio di far dimenticare le cazzate che hanno combinato e detto fino a tre/quattro settimane fa? Sia permesso avere qualche dubbio. Mi pare piuttosto si siano rapidamente rese/i conto delle nuove e inaspettate occasioni che si aprono. Dall’altra parte, del problema della compatibilità delle misure prese con l’assetto costituzionale, e comunque dei rischi che si originano per tale assetto, sembra essersi reso conto solo il Presidente del Consiglio; nessuno degli altri ne parla, soprattutto tra gli esponenti politici della coalizione di governo. Insomma: gli eventi hanno consentito, (e in certa misura imposto) una sospensione soft di importanti previsioni costituzionali che diventa più pericolosa ad ogni momento.
Il complotto che si viene sviluppando in parallelo è quello che riguarda la comunicazione. Anche in questo caso il paragone con il ruolo giocato dai mass-media nella chiamata alla guerra contro il nemico interno durante gli anni ’70 è fuorviante. Allora, stampa e TV operavano di conserva in quanto monopolizzati dal coacervo di forze e di poteri spesso inconfessabili che coniò per se stesso l’espressione “unità nazionale”. Ora i media non si limitano ad accompagnare, ma guidano, plasmano il dipanarsi della narrazione. È un passaggio di qualità che ha sfondato con irrisoria facilità in un Paese che credevamo scettico e accorto, costruendo un format che d’ora in poi lavorerà attivamente, non facciamoci illusioni, alla neutralizzazione degli spazi residui di democraticità della nostra società. Qualcuno si è spinto fino a parlare di biofascismo [50].
È un format che, imponendo una unica visione, una unica lettura, facendo leva sulla paura dei portatori di contagio, aiutando i veri responsabili a cancellare le loro terribili responsabilità, antiche e molto recenti, espropriando i corpi intermedi della società di ogni ruolo, lanciando ad ogni piè sospinto richiami alla guerra ed al serriamo le fila, ha costruito con consapevolezza un quadro di narrazione che si fa realtà oggettiva a dispetto di tutto. Anche da questo non pare facile tornare indietro; tanto più che nell’armamentario ha fatto la sua comparsa uno strumento nuovo, temo destinato ad un futuro di successo: la denuncia di chi sparge notizie false e inesatte [51], cioè delle voci che ostacolano tale narrazione dominante.
Oltre quanto fin qui detto, si apre il terreno in cui complotti in itinere e costruzione degli effetti tendono a sovrapporsi, in cui si comincia a delineare chi ha vinto/sta vincendo e chi ha perso/sta perdendo, e quale possa essere il terreno di resistenza delle comunità e dei movimenti. Un lavoro su cui alcuni sono già impegnati, come leggiamo; ma su cui bisognerà impegnarsi in tanti; soprattutto, un lavoro che ha bisogno di narrazioni collettive.
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