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Verità processuali, verità storiche, verità negate
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2022 @ 01:07 In Cultura,Politica | No Comments
«È arrivato il momento di seppellire i nostri morti». Con queste parole, due anni fa, Claudio Fava aprì un nuovo capitolo del movimento antimafia, nell’anniversario della strage Borsellino. Proprio lui, orfano del padre Pippo, entrambi giornalisti, scrittori e uomini di cinema, falciato nel 1984 sotto il piombo dei killer. Un mormorio di sorpresa salì dalla platea del cinema arena Argentina a Catania, nella manifestazione organizzata da Memoria e Futuro, l’associazione che, come tante altre, si batte, in assenza di una completa verità giudiziaria, per costruirne una storico-politica sugli eccidi di Cosa nostra e sui grandi delitti.
Perché è notorio quanto la storia italiana del secondo Novecento sia anche una storia di attentati e di cadaveri eccellenti, una storia di stragi, in gran parte ancora senza colpevoli certi, e quanto il nostro sia l’unico Paese occidentale attraversato da una scia rossa di sangue lunga 45 anni, che muove da Portella della Ginestra e conduce sino a via D’Amelio, con l’autobomba che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta. Una storia di depistaggi, di carte e agende rosse sparite, di processi infiniti, bis e tris, di deposizioni fasulle e devianti per sparigliare le carte e di rivelazioni vere trascurate ad arte. Un pandemonio investigativo e processuale che, proprio adesso nel trentennale di Falcone e Borsellino, evidenzia un’ombra nera e minacciosa, un tumore nella storia recente del Paese, che dovremmo consegnare alle generazioni future.
La roccaforte dell’attacco allo Stato, con la complicità e i mandanti di una parte di esso, è la Sicilia che già nel 1943, dopo lo sbarco anglo-americano, diventa il laboratorio geo-politico della futura guerra fredda e della strategia della tensione. Si viene a formare in quei due anni di interregno una sorta di governo provvisorio che vede alleate figure istituzionali a personaggi oscuri, diabolica consorteria unita nell’intento di ristabilire l’ordine e stroncare le rivolte del movimento contadino alla fame. Ne accenno nel mio libro uscito lo scorso anno Non posso salvarmi da solo (Navarra Editore), reportage storico sulle orme di un giovane siciliano delle Madonie, partigiano per caso ed eroe civile per scelta.
Invece delle riforme, si fa politica con le bombe e la mitraglia. Da qui, l’uccisione di sindacalisti, Placido Rizzotto valga per tutti, sedi di partiti di sinistra e Camere del lavoro attaccate o distrutte, sino a Portella, la madre di tutte le stragi. Ne sono protagoniste le medesime componenti che firmeranno gli eccidi futuri nel Paese: criminali fascisti, mafia, servizi segreti stranieri, membri di istituzioni e latifondisti, la grande imprenditoria retriva del tempo, che intese mantenere quel sistema feudale da cui proviene il flusso migratorio successivo e l’arretratezza odierna dell’Isola.
Per confermare la tesi, basterà menzionare chi fossero i capi della polizia e dell’esercito con giurisdizione su tutta la Sicilia: il questore Ettore Messana e il generale Paolo Berardi, entrambi provenienti dalla Slovenia ed entrambi nell’elenco dei criminali fascisti delle Nazioni Unite, per il disastro umanitario compiuto dal regime italiano nei Balcani, entrambi prosciolti in modo sbrigativo a Roma e inviati a Palermo. Ai quali si aggiunge l’inquietante presenza per lunghi periodi, sia a Palermo che alle falde dell’Etna, del “principe nero”, quel Valerio Junio Borghese, mitico e oscuro comandante della Decima Mas, prima imputato e poi prosciolto, dopo pochi mesi di carcere, per crimini di guerra.
De Mauro, Scaglione, Impastato, Francese, Giuliano, Terranova, Mattarella, Basile, Costa, La Torre, Giaccone, Dalla Chiesa, D’Aleo, Chinnici, Montana, Cassarà, Grassi, Falcone, Borsellino. Una sequenza infernale e solo a Palermo e in sequenza cronologica solo i delitti più eclatanti, magistrati, giornalisti, medici, imprenditori, dirigenti di polizia, ufficiali dei carabinieri, deputati, un prefetto. Nonché le bombe e le vittime di via dei Gergofili a Firenze e di via Palestro a Milano, l’uccisione infine, a sigillo della fine della guerra di mafia, del parroco di Brancaccio, don Pino Puglisi. Effetto di quella feroce consorteria cresciuta nel dopoguerra.
Una via crucis, una via giudiziaria carica di ombre e coraggio, di gran lavoro di alcuni, sulla spinta morale per la morte dei colleghi, e di imbrattamento di prove e collusioni da parte di altri, affollata da organizzazioni segrete come la Gladio, Stay-behind, team paramilitare inventato dalla Nato per contrastare l’invadenza sovietica, la P2 di Licio Gelli, movimenti nazi-fascisti italiani, il gruppo Bilderberg, il club esclusivo della finanza mondiale, servizi nostrani deviati.
In questo quadro demoniaco, sembra dunque impossibile giungere a una verità giudiziaria sugli anni del terrorismo politico-mafioso che hanno manomesso il normale svolgimento della vita democratica e dello sviluppo economico del Paese? Risponde Armando Sorrentino, importante avvocato palermitano, parte civile nei principali processi sui delitti politici – Dalla Chiesa, La Torre, Borsellino – nonché autore di libri sugli intrecci tra mafia e politica.
Ascoltiamo adesso due giornalisti di provata esperienza sul campo, Giuseppe Lo Bianco de Il Fatto quotidiano ed Enzo Mignosi, per decenni cronista del Giornale di Sicilia e corrispondente del Corriere della Sera, entrambi palermitani e autori di libri.
Dice Lo Bianco:
Mignosi non ha dubbi:
Quasi cinquant’anni fa aveva compreso tutto Pier Paolo Pasolini, pubblicando in prima pagina sul Corriere della Sera di Piero Ottone quel celebre articolo-poema Io so: «io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre…». La poesia come la storia può offrire risposte inequivocabili.
Adriana Laudani, presidente di Memoria e Futuro e già docente universitaria, ha dedicato la sua vita alla cultura della legalità, dopo essere stata giovane assistente di Pio La Torre. Dice:
Innumerevoli indizi convergenti conducono a un movente unico. L’Italia ha pagato con il sangue e un corto circuito democratico non solo la presenza ingombrante di Cosa nostra – che all’oggi ha mutato strategia, non spara e ha allargato interessi e investimenti nel Centro e nel Nord del Pese, nonché in alcune città europee, come prediceva Leonardo Sciascia a proposito della famosa “linea della palma” – ma anche la sua posizione geografica troppo a ridosso della Cortina di ferro.
È arrivato il momento di seppellire i nostri morti. Il monito di Claudio Fava, citato all’inizio e criticato da alcuni perché non compreso da tutti, conduce nella medesima direzione: togliamo il lutto perenne, non chiamateci più familiari delle vittime ma dei patrioti che hanno offerto la vita per consegnare a chi verrà un Paese più libero e più civile.
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