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Verba et incantamenta carminum. Sulla medicina popolare siciliana
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2018 @ 00:25 In Cultura,Società | No Comments
di Gian Mauro Sales Pandolfini
Il frutto di questa indagine matura in anni di studi personali e alla luce dei contributi formativi, attinenti la sfera magico-rituale tradizionale, per i quali la conoscenza di Elsa Guggino, di cui sono stato allievo, si è rivelata in tal senso determinante. Ho rivolto, in particolare, la mia attenzione a ciò che Pitrè definisce “verminazione”, ossia la credenza e la pratica dei vermi, ancora oggi molto diffusa in Sicilia.
Per vermi si deve intendere tanto l’organismo presente nell’intestino, quanto la malattia in sé e per sé, una forma di parassitosi che investe gli organi dell’apparato digerente e che, in qualche modo, coinvolge anche lo stato di salute generale, psicosomatico, del paziente, specialmente del bambino.
Gli informatori insistono sul fatto che nel nostro corpo vi siano degli «agenti patogeni biologici (…) del tutto innocui, se non proficui al suo funzionamento, finché un accidenti qualunque non ne determina un mutamento di status, rompendo il loro primigenio equilibrio» (Guggino 2006: 22).
I vermi starebbero in una sacca, come un “gomitolo” (ghiòmmaru) o una “ciambella” (cuddùra), nella vucca du stomacu (‘bocca dello stomaco’) o vucca di l’arma (‘bocca dell’anima’), ossia nella zona epigastrica, zona liminare tra il basso del corpo e l’alto della mente, ad alto rischio, quindi, per la stabilità e la vita dell’individuo. In questo stato non sono dannosi, anzi coadiuvano la fisiologia dell’individuo. Allorché un qualsiasi accidenti esterno, come uno scantu (‘paura improvvisa’), uno stato di stress o una intensa emozione, agiti la loro quiescenza, la sacca si disfà e i vermi possono salire perfino alla gola provocando la morte per soffocamento. Allo scantu sono esposte le persone considerate per natura più deboli, donne e specialmente bambini.
Si tratta in effetti di un caso emblematico di quella che Cirese definisce «discesa culturale» di elementi e saperi, discesi cioè dalla “medicina culta” ufficiale e sottoposti a un processo di folklorizzazione, di appropriazione reinventata alla luce di codici e funzioni vissuti dalle collettività popolare.
Dico “vissuti” giacché la nozione di malattia va riletta in un’ottica diversa da come siamo abituati a intenderla: essa, come suggerisce Augè, manifesta tutta la sua efficacia simbolica, si fa carico del disagio psicologico o sociale del paziente, delle sue asimmetrie neurofisiologiche, diviene segno esplicito del mal-essere, di un disagio sociale. Attraverso l’intervento codificato del guaritore si riassesta dunque ciò che Galimberti definisce il “ben-essere nel mondo”. La malattia è avvertita come una colpa, una vergogna che riduce il senso dell’individuo nel mantenimento delle logiche sociali (autosussistenza e condivisione delle mansioni), ragion per cui la nascita di un eventuale bambino insano o infermo, viene giustificata alla luce di un intervento soprannaturale, per deresponsabilizzare la madre, il figlio e in generale l’intera famiglia dall’effettiva “crisi della presenza”.
«La credenza di tutti […]», scrive Mauss, «è effetto del bisogno di tutti, dell’unanimità dei desideri […]; il bisogno avvertito da tutti suggerisce a tutti il fine da perseguire» (Mauss 2000: 128). Ecco come la magia palesa il suo senso, permette di reinventare la vita, diviene ciò che Miceli definisce un “codice di riserva” da cui attingere, un codice sociale condiviso, una realtà alternativa da sostituire e vivere. Esemplare a tal proposito la novella Il figlio cambiato di Pirandello, in cui, come nelle tradizioni popolari isolane, le donni di fora – entità mediane tra il mondo soprannaturale (spiriti) e quello carnale (maghe), accomunate da un collasso emozionale, magari per una maternità negata e per un sentimento di invidia – hanno cambiato il figlio sano con uno loro, malaticcio, di cui la madre – e di conseguenza tutta la collettività – dovrà prendersi cura, se vorrà che il suo bimbo continui a vivere felice nell’aldilà. L’immaginazione, la magia, restituiscono senso e ordine al caos della vita e il bimbo insano viene reintegrato nella comunità.
Se a volte ci si può realmente imbattere in un’infestazione da vermi, come l’ossiuriasi, diffusa specialmente nei bambini, altre volte i vermi non sono scientificamente riscontrabili, ma vengono comunque diagnosticati.
L’evento vermi trascina l’intera comunità, parenti, amici e vicinato, in una vorticosa girandola di scambi simbolici, garantendo una proficua occasione di partecipazione solidale, come anche la possibilità di drammatizzare sugli accidenti della vita, sul καιρός che altera, mosso dal destino o dalla necessità, gli equilibri pur sempre precari della vita. Ci si deresponsabilizza, s’individua nell’esterno, ad esempio come nell’accidente scantu, la causa generatrice del male: il male non risiede in noi, ha origine da cause esterne, naturali e casuali – ma anche sociali quando si parla di magia (per cui lo scantu diviene anche medium d’eccezione, durante la fattura, per la trasmissione e l’ingresso dell’essere). Nel corso della terapia, dunque, lo scambio collettivo si fa intenso, e ammalato e gruppo diventano attori di un unico psicodramma il cui fine è ristabilire l’equilibrio, la salute sociale ritrovata attraverso l’intervento codificato del guaritore.
Al di là della sua effettiva presenza, la malattia si manifesta con precisi sintomi che il paziente lamenta: febbre, insonnia, disturbi alla bocca dello stomaco (nell’area dell’epigastrio), gastrite, fetu ri vermi (‘alito cattivo dovuto ai vermi’), male allo stomaco, ai reni o alla milza, ittero, ingorgo mammario, insolazione, foruncoli, prurito al naso o stridore dei denti, ascessi, dolori alla schiena, alla testa e alle gambe, persino slogature e, in rari casi, mali per malocchio. Inoltre sono riscontrati problemi relativi allo stato psichico del paziente, come ansia, agitazione, stati confusionali, convulsioni, senso di sfinimento. Il mio informatore di Altofonte, Tonia, sostiene che «è psicosi» e che «siamo tutti vermi noi dentro». Guggino, d’altro canto, ricorda di aver sentito più volte dire dai suoi informatori, che in fondo «nervi e vermi sono la stessa cosa» (2006: 24).
Ci si rivolge allora alle guaritrici – più raramente si tratta di uomini – che vengono considerate e che si autorappresentano come “medici empirici”, depositari di un antichissimo sapere tradizionale, in grado di agire efficacemente e in modo alternativo alle cure del medico, cui spesso si sostituiscono: la differenza tra il medico e la guaritrice è nella metodologia terapeutica.
Le guaritrici sono chiamate in Sicilia in vari modi, ciarmavermi, amazzavermi, chidda chi cala u stomacu, chi dici a razioni/divizioni, chi pircanta i vermi/u scantu. Guggino ha privilegiato il termine ciarmavermi, poiché condensa appieno la relazione diagnosi-terapia, rivelata dal composto che è costituito dal nome del male diagnosticato più diffuso, i vermi, e dalla formula magico-terapeutica che viene recitata, il ciarmu (lat. carmen), detto anche arazioni, raziunedda, divizioni, priera, pircantu e più di rado scunciuru.
Queste donne possono essere anche indicate con il nome proprio o con un soprannome, spesso preceduto dall’appellativo za (zia), oppure con espressioni che evidenzino il loro operato (chidda chi ciarma i vermi, chidda chi cala u stomacu, chidda chi cogghie i vermi). Godono di un favore collettivo diffuso e sostengono, di frequente, di aver acquisito ritualmente l’antico sapere di cui sono in possesso: le formule magiche possono essere trasmesse solo in occasioni speciali, come la notte di Natale o il pre mortem di un’anziana ciarmavermi, momenti in cui l’arazione incrementa il suo valore e la sua forza apotropaica. Il rituale d’iniziazione si apre o si conclude con la recitazione di un padrenostro. Altre volte le ciarmavermi parlano, invece, di dono naturale, escludendo però categoricamente ogni analogia, rapporto o vicinanza con le maghe, che, oltre a vantare la possibilità di gestire forze soprannaturali, gli esseri, sono capaci nondimeno di effettuare il rituale per la cura dai vermi. Gli esseri talvolta evocati rimangono però figure benefiche, come i santi, che intervengono come guida, ispirazione o protezione, e non come comando per fatturare.
Le ciarmavermi fanno uso di elementi, come erbe (ruta in primis, ma anche alloro, aloe), infusi, estratti naturali, vino (che, in quanto alcolico, solleva l’organismo debilitato), aceto, petrolio impuro o nafta, semi di limoni, pere o mele (i vermi si attaccherebbero a essi per poi venire espulsi con le feci), sostanze in alcuni casi con effettive proprietà curative, con rinomata valenza simbolica e che possono agire per ingestione diretta o per uso esterno. L’aglio è l’ingrediente più diffuso, noto in effetti come vermifugo, ma il suo uso rituale lo carica nondimeno di potenti proprietà magiche: viene fatto annusare, inghiottire o viene spalmato con l’olio sullo stomaco, direttamente o tramite tazzine di caffè (u ciccarieddu), e in virtù del suo intenso odore e sapore, ha la capacità di «affascinare, incantare i vermi che non si riesce ad ammazzare o a fare uscire» (Pitrè 1978: 391), di stordirli e ridurre il loro stato di agitazione.
Il rituale comprende una parte gestuale coordinata a un’altra verbale. Generalmente sullo stomaco del paziente viene applicata una tazzina di caffè, capovolta e con i bordi inumiditi da un intruglio d’aglio ed olio. Si tratta di una fase al tempo stesso diagnostica e terapeutica: qualora la tazzina rimanesse attaccata allo stomaco, con una sorta di effetto “ventosa”, i vermi sarebbero presenti nel paziente. Le ciarmavermi procedono, allora, con massaggi locali e/o con la recitazione di specifiche formule incantatorie, facendo segni della croce sull’addome (“crocioni sull’addome”, scrive Pitrè), fin quando una volta riapplicata la tazzina, essa lentamente si staccherà dallo stomaco. I vermi saranno tornati in basso, ordinati nella loro posizione iniziale e in uno stato proficuo di quiete.
La formula è costituita da una parte iniziale, l’historiola, una breve storia in cui si narra in modo esemplificativo un evento del passato, mitico, in cui da una condizione iniziale problematica si arriva a una soluzione, la parte finale, la formula scongiuratoria vera e propria. Si tratta dunque di una vicenda ciclica di morte e rinascita. Tra le altre, di maggiore ampiezza e articolazione, l’arazioni più diffusa è:
Lùnniri ssantu Màrtiri ssantu Mèrcuri ssantu Iòviri ssantu Vènniri ssantu Sabbatu ssantu A Ruminica ri Pasqua E stu vermi ‘nterra casca.Il succedersi dei giorni della settimana evoca chiaramente il periodo della Settimana Santa, la Passione, la Morte e la Resurrezione di Cristo. Il paziente “morto” a causa della malattia, come Cristo, guarirà risorto a nuova vita: un chiaro esempio di sincretismo magico-religioso.
L’arazione viene bisbigliata, in quanto protetta da segretezza, ed è rivolta agli stessi vermi, che, come spesso viene detto, la sentono. Ciò evidenzia chiaramente l’idea di uno “stomaco vivente”, che ascolta e reagisce agli stimoli esterni, come una coscienza informe. Una “psichicità” addominale che non è prerogativa esclusiva della Sicilia: la ritroviamo, ad esempio ricorda Guggino, nella cultura classica o tra i Moudang del Ciad.
Il mio informatore, Tonia (Altofonte, Palermo, 1957), desidera rimanere anonima. Donna magmatica, di una simpatia e di una loquacità unica, si definisce una casalinga “tuttofare”, sempre curiosa e appassionata di documentari scientifici, nonché capace di cucinare particolarmente bene e di riparare guasti idraulici, elettrici e apparecchi domestici. Diplomata al magistrale, è sposata da più di trent’anni con un idraulico che lavora in strutture ospedaliere, e con il quale ha avuto due figli, un ragazzo che lavora a Milano in una piccola azienda edile di proprietà e una ragazza impiegata presso una celebre industria locale di cosmetici. Una ricercatezza lessicale vagamente scientifica caratterizza il suo modo di parlare e porsi, quasi a voler continuamente ostentare le competenze tecniche acquisite con l’esperienza e la lettura di libri.
È il cinque di novembre 2007, una frizzante giornata d’autunno. Siamo ricevuti nel primo pomeriggio nella casa della madre di Tonia, Maria, sposata da oltre cinquant’anni con don Saro, che ha sempre dedicato la sua vita al lavoro nei campi, in attività di policoltura destinate al consumo familiare e che oggi si limita a lavoretti sporadici.
Mi accompagnano Giuseppina Burruano, originaria dello stesso paese e che ha fatto da mediatore, essendo don Saro il suo giardiniere, e le mie amiche antropologhe, Valentina Rametta e Valeria Dell’Orzo, che sono state fondamentali per agevolare il mio ingresso in un mondo tutto al femminile. Non abbiamo neanche il tempo delle presentazioni che Maria ci offre del caffè e degli ottimi buccellati fatti in casa. Poco dopo arriva Tonia. Le spiego le ragioni dell’indagine e inizia un dialogo che presto si trasforma in una polifonia d’incastro stile Ars Antiqua, che è stato difficile interpretare dalle sbobinature. Parlano tutti, ma Tonia e Maria (che scopro essere pure una ciarmavermi, anche se non più attiva), riescono a prendere il sopravvento e spiegarmi.
Sono i bambini del paese i pazienti più comuni se non addirittura gli unici possibili. Gli adulti, di entrambi i sessi, non si sottopongono alla terapia, considerata unicamente appannaggio del mondo infantile. Tonia si dedica, ormai da diversi anni, alla cura dei bambini. Ma la cosa interessante è che non è stata sua madre Maria, pure una ciarmavermi, a “iniziarla”, ma un’anziana signora del paese. Maria tiene a sottolineare che le sue modalità operative – ereditate a sua volta dalla madre – non hanno nulla a che fare con il rituale della tazzina di caffè che fa Tonia: tre segni della croce, realizzati con uno spicchio d’aglio, in tre punti dilicati del corpo, ossia la fronte, la gola e lo stomaco, – luoghi nevralgici di un organismo vivente, che ne determinano la stabilità psicofisica – accompagnati dalla recitazione del padrenostro e poi della celebre preghiera incentrata sulla Settimana Santa di cui faccio riferimento sopra.
Un meccanismo sincretico che si avvale della forza della fede cristiana e, di conseguenza, dell’energia profusa dalla sfera divina, e che possiede un intenso potere magico – non usa però mai questa aggettivazione – e guaritore, in grado di agire su quei punti somatici, corrispondenti alle localizzazioni possibili dei vermi, che possono “salire” dall’intestino crasso, dove si trovano attaccati, in uno stato di quiescenza, fino allo stomaco, generando il più delle volte dolori locali e dissenteria, o alla gola, minacciando il paziente di soffocamento e persino alla testa. Il fine della terapia è il medesimo, ricacciare i vermi invasati al loro posto, localizzato nella zona intestinale.
Tonia, come già accennato, racconta di aver ricevuto questo “dono” da una signora anziana, che però, al momento della morte, non è riuscita a concludere la recitazione di quella orazione segreta che le avrebbe permesso di accedere a un potere taumaturgico ben più alto. Limita il suo operato alla recitazione della preghiera e all’uso della tazzina con l’aglio e l’olio. Non esegue alcun tipo di massaggio o strinta di pancia e non conosce altre arazioni, se non quella da me sopracitata, sebbene con la variante finale “Duminica di Pasqua, sutta ‘ste manu u verme casca”.
Il male da scantu è la causa più diffusa, mentre i sintomi generati dai movimenti dei vermi nell’apparato gastroenterico vanno dal semplice prurito rettale al dolore addominale, d’intensità variabile, all’insonnia e al pianto convulsivo. A volte possono salire fino alla gola e provocare vomito e senso di soffocamento. I vermi, infine, sentono la voce e gli odori, avvertono la forza della preghiera e l’odore acre emanato dall’aglio, un vero e proprio antivapiro (‘antivampiro’), che li fa “scappare”. Nulla però sembra aver a che fare direttamente con la magia. Tonia e Maria mostrano una profonda ostilità nei confronti della figura del mago. Il loro operato è guidato dalla fede e dall’intercessione divina, non da esseri soprannaturali indefiniti. Sostengono infine di non avere un particolare nome o soprannome, anche se indirettamente mi fanno sapere che l’espressione “la signora che raccoglie i vermi” è quella più diffusa a Altofonte.
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
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