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Uscita d’insicurezza

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2016 @ 00:39 In Attualità,Cultura | No Comments

La bandiera della Ue bruciata

La bandiera della Ue bruciata

di Nino Giaramidaro

Qualche colpo di gin, naso e gote rosate come i cicciottelli in salute, David Cameron, con la destra alzata alla Winston Churchill, ha detto la parola che ormai stanca di anni plana e si impenna sotto le perturbazioni dei cieli d’Europa come un avvoltoio “laico”, un grifone con ghigno, mentre i terrestri, sempre meno attoniti, dicono che non è cosa loro. Come i crasti della Sambuca di fronte al coltello del pecoraio che si avventa su uno di loro: «Non viene per me».

La parola è guerra. Sì, l’inglese di Down Street ha detto che se il Regno Unito fosse uscito dall’Unione Europea, ci saremmo messi a correre verso la guerra. E ora siamo ridotti a cercarci camminamenti sperando di non intrappolarci nei tanti cavalli di Frisia a norma Cee.

Ma a chi era diretta questa cucchiaiata di sale inglese, alla vigilia del sì o no Europa? Ai suoi votanti, che preferiscono continuare con il loro tè delle five o’ clock, magari servito da taciturni immigrati? Gentleman e non, adusi a lacrime e sangue e a filarsela all’inglese, che i francesi dicono, forse con più musica, filer à l’anglaise.

David Cameron – che non ha parentela con il Rod Cameron rimastomi simpatico malgrado tutte le Colt del feroce mondo western – ha agito motu proprio oppure “on the advice”, alias su consiglio (istigazione) del sovrano? Oppure trattasi di pronunciamento tipo parlo con te suocera perché mi senta tu nuora? Ma per chi? Contro la “minaccia russa”.

«In un mondo in cui la Russia invade l’Ucraina e uno Stato canaglia come la Corea del Nord testa armi nucleari – virgolettato sul The Guardian –, noi dobbiamo fronteggiare insieme queste aggressioni ed utilizzare la nostra potenza economica per fare pressioni su ciò che calpesta le regole stabilite e minaccia la sicurezza dei nostri popoli. Siamo un Paese forte. Siamo la quinta economia del mondo. Abbiamo un forte esercito».

Altri eserciti valorosi si sono scontrati con il Generale Inverno e ne sono usciti infreddoliti. Ma la gelida Albione, oltre che patria di Churchill e dei Beatles, ha dato i natali anche ad Astolfo d’Inghilterra, colui che ha domato l’Ippogrifo, ha tramutato i sassi in cavalli, e si è recato sulla luna a riprendere il senno perduto di Orlando. Non impressiona, quindi, che possa suggerire bellicosità verso una nazione diffusa su undici fusi orari, che vive spesso sotto lo zero Celsius nella sterminatezza dei suoi 17 milioni di km quadrati.

Anziché vellicare la Russia, l’erede di Churchill dovrebbe avere sempre chiaro che la regina ha a disposizione 130 mila e rotti chilometro quadrati, che sono poca cosa anche al confronto con Uzbekistan: 447 mila e quasi mezzo chilometri quadrati. Ma la gelida (John Le Carrè) Albione – perfida per lo scrittore, vescovo e teologo del primo ‘600, Jacques Bénigne Bossuet, e poi per Mussolini – ha sempre mostrato coraggio, soprattutto quello dei fucili contro le scimitarre.

L’ex sindaco della non più swinging London, Boris Johnson, è stato più circostanziato sul Sunday Telegraph: l’Unione Europea, «con metodi diversi, persegue lo stesso obiettivo di Hitler: unificare l’Europa sotto un’unica autorità (la cacofonia è sua). Napoleone, Hitler e altre persone ci hanno provato, ed è finita tragicamente».

David Cameron

David Cameron

Il settecentesco scrittore, poeta e pessimista Nicolas de Chamfort diceva che «Ci sono scemenze ben presentate  così come ci sono scemi benvestiti». Sì, soltanto chi dedica molto tempo alla vestizione può parlare di guerra con la convinzione di diffondere saggi ammonimenti. Naturalmente, così come accade a coloro che si alzano tardi al mattino e, anziché pensare alla colazione, rilasciano dichiarazioni con la stessa compulsione di chi bussa alla porta del bagno occupato, anche nei pronunciamenti dei due illustri londinesi si annidano discordanze e contraddizioni.

Cameron diceva di volere rimanere nell’Europa Unita e indicava pericoli ed evidenti nemici, ma soggiungeva che il Regno Unito è un grande Paese, con un esercito forte: muscoli in eremitaggio, nella solitudine conquistata da quei suoi compatrioti per non rischiare il giogo di un nuovo Hitler.

D’altronde Rupert Murdock, padrone anche di molta stampa inglese, ha reputato politicamente corretto schierare il Sun con i “Leave” e il Times con i “Remain”. Come facevano, e fanno, i grandi produttori di armi, che le consegnano – senza sentire nemmeno un graffio sulla coscienza – sia ad aggressori sia a chi si difende, purché la guerra continui.

Non sono fibrillazioni soltanto inglesi: i russi per sostenere l’obiettivo della pace fanno parate sulla Piazza Rossa, arsenalizzano pezzi di confine, a cominciare da quello dell’ex granaio sovietico, cioè l’Ucraina, e si fronteggiano con gli onnipresenti States sul Mediterraneo, dalla Turchia alla Libia.

La Kalashnikov – quella dei mitragliatori prêt-à-porter, degli armamenti delle mafie, dell’Isis e di un altro mezzo mondo che spara – entra nel mercato della moda con vestiti e accessori in stile militare perché – dice il direttore marketing Dmitriyev – in Russia crescono il nazionalismo e il patriottismo. Presto ci saranno in tutto il Paese sessanta negozi agguerriti. Putin, del resto, ha idee chiare e grondanti democrazia: ha detto di non capire perché Cameron abbia accettato di tenere il referendum della (o del) Brexit, essendo contrario all’uscita del suo Paese dalla UE.

Il lungimirante Califfato dell’Isis ha inserito sul web una app – se dico applicazione perdo tempo? – per gli scolari: possono imparare le lettere dell’alfabeto con i nomi di guerra e armi. Esempi: a- assalto, b-bomba, c-carro armato, eccetera eccetera.

 Homeless palermitano

Homeless palermitano

Sul Caffè del Teatro Massimo a Palermo il rombo arriva dal cielo, e poi tra le palme si infila la sagoma del Canadair giallo e massiccio; visto da poppa, sembra un micidiale Cant Z. 501, che fu chiamato “gabbiano”, diretto verso un obiettivo della seconda guerra mondiale. Venerdì 17 giugno 2016. Sorvolano a intervalli di 3-4 minuti, e il loro rombo esplode improvviso come bombardieri sulla città. Non basta sapere che andranno a gettare acqua sul fuoco, il brivido mi percorre lo stesso, forse perché ho la testa piena di annunci scoraggianti.

Gli Inglesi “out” dall’Europa, forse la Raf si allena, le borse del divino mercato che tenteranno di portare i popoli alla disperazione, un senso amaro di prodromi di dissoluzione, e generazioni preoccupate dei giga, dei cerchi in lega e di strappare blue jeans. E Pyongyang sgancia missili e altri missili.

L’America, scandita nei suoi giorni da sparatorie sanguinose, è ora percossa (non correggere con percorsa) da un’altra guerra. Arriva dagli Stati ricchi, dal far west verso east. Hawaii, Florida, Virginia, Oklaoma e perfino la California di San Francisco e Los Angeles, di Big Sur e Kerouac, della beat generation, dell’Henry Miller licenzioso e sovversivo, dei galloni di birra dei borderline di Steinbeck. Contro i senzatetto, più riconoscibili come homeless, accattoni, visibilmente poveri. Vietato fare l’elemosina, dormire nei parchi pubblici, sedersi sui marciapiedi, distribuire cibo: ci sono polizia e multe malgrado il numero di chi dorme, abusivamente, in auto sia rapidamente aumentato del 119 per cento.

Nel nostro piccolo, dopo le pressioni di innumerevoli associazioni di cittadini, il ministro al Lavoro e alle Politiche sociali, Giuliano Poletti, promette cento milioni per aiutare i senza tetto a trovare una casa. Progetto “Homeless Zero”. «È il primo in Europa», sottolinea il ministro. Previsti aiuti a 500 mila persone. Alla cerimonia della firma c’era Richard Gere, attivista umanitario e protagonista del film Gli invisibili, storia di George, homeless a perdere fra le strade dell’inverno newyorkese.

E sì, ci sono tanti new deal in giro per il mondo, dove l’anno scorso sono stati contati 65 milioni di fuggiaschi. Ogni minuto d’orologio 24 persone devono lasciare la propria casa per diventare homeless e terraless. Quanto pensiero dedicare alla “leave” dell’oramai Regno disunito? Quanti altri Paesi rimuginano di filer à l’anglaise dall’incerottata Europa?

Come forse diceva Eduardo, anche le domande non finiscono mai.

Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016

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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie degli anni sessanta in una mostra dal titolo “Alla rinfusa”.

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