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Una storia familiare per una memoria collettiva

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2018 @ 00:45 In Cultura,Letture | No Comments

copertinadi Maria Immacolata Macioti

Una strage di civili, accaduta nel 1944. Il relativo processo si avrà solo nel 2004. L’autore del libro, Lorenzo Guadagnucci, Era un giorno qualsiasi. Sant’Anna di Stazzema, la strage del ’44 e la ricerca della verità. Una storia lunga tre generazioni  (Terre di mezzo editore 2017), parla di senso di abbandono e di ingiustizia diffuso nelle famiglie che avevano  perso, nella strage, dei propri familiari. Un silenzio pesante, lungo decenni. Non c’era stato modo di comprendere bene cosa fosse accaduto. Sembrava, Sant’Anna di Stazzema, un luogo sicuro, lontano dalla guerra. L’esercito tedesco era in ritirata, gli Alleati avanzavano. I bambini giocano contenti: nulla lasciava prevedere l’arrivo dei tedeschi, il rastrellamento, le raffiche di mitragliatrice, le esplosioni. Il fumo: l’eccidio.

Colpa dei partigiani? C’è chi pensa a una loro responsabilità, magari indiretta. Forse, proprio questa è stata la causa – l’autore ne sembra piuttosto convinto – della rimozione di quanto occorso a Sant’Anna dalla memoria nazionale.

A lungo le case resteranno diroccate, mentre – scrive Guadagnucci – l’emigrazione svuotava il paese. Passeranno anni, prima che si faccia strada la consapevolezza che dietro al pesante silenzio c’era probabilmente la volontà «di fare terreno bruciato attorno alla Resistenza».

Qualcosa accade, certamente: nel 1991 si avrà un Museo storico nella vecchia scuola: più avanti nel tempo si penserà a un allestimento multimediale, con foto, con pannelli storici. Dal 2000 S. Anna è sede del Parco nazionale della pace: che ospita iniziative quali, ad esempio, la conferenza annuale di Emergency o il Forum giovani.

Bisognerà attendere gli anni 2000 per avere una reale, ampia, forte attenzione alla strage di Sant’Anna. Guadagnucci ricorda che il presidente Ciampi nel 2000 è andato a S. Anna il 25 aprile e ha chiesto giustizia per le vittime, aprendo una nuova fase. Si guarderà, d’ora in avanti, anche alla Resistenza civile, quella di donne e bambini. Io aggiungerei che anche la storia degli IMI, gli Italiani militari internati, ha preso molto tempo per emergere, per essere scritta, comunicata. Gli interessati hanno taciuto per decenni, per vergogna. Non ne hanno parlato, in genere, neppure con i figli. Qualcuno ha iniziato, in vecchiaia, a parlarne con i nipoti.

Così per S. Anna di Stazzema passerà molto tempo, prima dell’emersione della consapevolezza di quanto accaduto. La maggior parte dei libri in merito è degli anni 2000, come spiega l’autore in alcune pagine finali in cui offre suggerimenti di letture. I fatti di S. Anna sono da alcuni storici decisamente inseriti in una più ampia riflessione su quella che viene definita una ‘guerra ai civili’.

Come si presenta, questo libro?

In nove capitoli, presentati senza titolo, con la sola numerazione, l’autore ci trasporta in un tempo che appare ormai lontano,quello degli anni ’40 del Novecento,  in un’area della Toscana con paesi marini e altri dell’entro terra, quindi in montagna. Trovo nomi di luoghi a me noti dall’infanzia: Pietrasanta, Valdicastello Carducci, e anche Sant’Anna di Stazzema. Altri invece a me totalmente ignoti, come Fiumetto e Avenza.

La-madre-di-Alberto

La madre di Alberto

Pure la scorrevole narrazione ci mette in contatto con una piccola famiglia composta di due membri, una mamma e un bambino. Un bambino ‘illegittimo’, come in quegli anni si usa dire. Si sa chi è il padre ma si tratta di un uomo sposato con figli: non riconoscerà il piccolo Alberto. Siamo nel 1944, c’è un ordine di evacuazione: un baule viene frettolosamente riempito con quasi tutti gli averi della mamma e del bimbo, dai quaderni a qualche fotografia, ad altri oggetti. Verrà lasciato presso conoscenti. Non verrà più recuperato. La mamma infatti muore a S. Anna di Stazzema; il figlio, all’epoca decenne, non riuscirà più a recuperare le cose di famiglia, forse prese dai tedeschi, forse vendute da coloro che avrebbero dovuto custodirle. Il baule, quando lui va a richiederlo, è vuoto. Salvo che per una fotografia della donna: l’unica foto rimasta al figlio.

Una foto che, con altre del bambino di allora, è pubblicata nel libro. Un viso, quello della donna, che sembra indicare determinazione e, insieme, sofferenza. È presentato con foto del bambino Alberto. Foto deliziose, che sono messe in coda al testo. In due di esse, fatte una per la prima comunione, l’altra per la cresima, il ragazzino si mostra consapevole della speciale circostanza: è ben dritto, le braccia sui fianchi. Altre due foto, con lui più piccolo, e un’altra a piena pagina, mostrano un bimbo che ispira simpatia, sorridente, con un’aria sbarazzina e un po’ strafottente. Non stupisce che non abbia obbedito alla mamma che lo chiama, all’arrivo dei tedeschi. Pensano, la mamma, le altre donne, che i tedeschi non faranno nulla a donne e bambini. Comunque il piccolo Alberto guarda il nonno di un suo amico che sta scomparendo nel bosco, raggiunge di corsa lui e Arnaldo. Una scelta gravida di conseguenze: lui sopravviverà; la mamma invece, con molti altri civili, morirà. Morirà dopo lunghe ore in cui, sola, ferita, accanto a diverse persone già morte, attenderà dei soccorsi che giungeranno troppo tardi. Una consapevolezza che a lungo sarà incombente nei ricordi del figlio.

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Alberto a 6 anni, 1940

Il libro è la narrazione di quanto è avvenuto, della crescita difficile del piccolo Alberto – il padre, che ha una sua famiglia, pur vedendolo ogni tanto non ritiene o non può prenderlo con sé. Il bambino crescerà con persone di buona volontà, tra cui la ‘Soratina’, già ben nota anche alla mamma, che se ne occuperanno. Persone estranee. Persino con la famiglia di un noto fascista che ci terrà a dargli il proprio nome. Il bimbo, così traumatizzato che non ricorda più nulla di tutto quello che aveva già imparato a scuola, seguirà le lezioni ma senza riuscire a concentrarsi, a comprendere.

Dovrà passare molto tempo, prima che qualcosa lo spinga a ritrovare la capacità di leggere e di scrivere: e in questa difficile impresa è aiutato dalla maestra, da un’altra signora che abita anche lei  – a pensione – dalla Soratina: cioè da Assuntina Pancioli, una donna che già conosceva il bambino, di cui  la mamma di lui si fidava. Una presenza rassicurante, che a lungo terrà con sé il piccolo. Il quale a poco a poco riuscirà di nuovo a ritrovare le sue capacità, a leggere e scrivere, a seguire le lezioni. Potrà studiare. Farà persino l’Università, giungendo, dopo una falsa partenza in una facoltà poco adatta, alla laurea.

Un bambino che da subito cerca di aiutare chi lo aiuta, di fare lavoretti, procurarsi piccole entrate, che darà a chi lo ospita. Che cerca cibo da portare a casa. E che impara da inglesi e americani a fumare.

Compare con forza, nel libro, il dopoguerra: con il ritrovamento di panetti di tritolo, o bombe ananas, un tesoro di cui godere con gli amici. Ma a volte arrivano notizie tragiche: come quella di due ragazzi dilaniati dalle mine che stavano cercando di smontare.

Poi, con la laurea, arriveranno il matrimonio, l’insegnamento: notevoli mete, per un ragazzino rimasto solo. Cresciuto grazie a borse di studio per gli orfani di guerra e  grazie all’aiuto di estranei. Forse, scrive l’autore, Lorenzo – un figlio del piccolo Alberto dai capelli rossi – era un’Italia diversa da quella odierna, in cui non si fingeva di non vedere solitudine, indigenza, sofferenza.

Una storia familiare, quindi. Sul ragazzino di allora, sul di lui figlio Lorenzo, l’autore  – colui che scrive a nome del padre  – pesa la morte solitaria, lontana,  di quella che era stata la mamma, che se fosse vissuta avrebbe potuto essere la nonna di Lorenzo. Una donna di 43 anni, ancora giovane. Coraggiosa: aveva cresciuto il figlio da sola, senza il sostegno della propria famiglia, essendo il padre un uomo già sposato e con figli.

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Stazzema, estate 1944 (ph. M. Sestini)

Una storia privata che è anche una storia pubblica, che si inserisce in una pagina difficile della storia italiana. Per anni Alberto cerca di capire cosa sia successo, come sia morta la mamma. Si imbatte in mezzi racconti, in labili tracce. Non sa neppure dove sia finito il suo corpo. Ancora oggi, non sa dove sia stato sepolto. Non solo: per anni, in Italia si è pressoché ignorato quanto accaduto a S. Anna di Stazzema, che pure segna il passaggio da una guerra combattuta tra militari a una guerra che travolge i civili: quindi, soprattutto, donne e bambini.

Si apprende, leggendo questo libro, che sono stati uccisi anche vari animali. Nella ricerca della mamma, Alberto e chi lo accompagna si imbattono in una mucca caduta con la testa in basso, le zampe in alto. Erano state uccise pecore, mucche e galline, conigli, capre: animali «uccisi a colpi di fucile e bruciati. E dire che a quel tempo, sulla prima linea del fronte, ogni animale era prezioso come fonte di cibo. Ma quei soldati non se ne curarono, la strage colpì anche loro, accomunati agli umani dallo stesso destino di distruzione». Vicino agli animali uccisi, cadaveri fumanti. Una degradazione degli umani ad animali, è l’interpretazione di Lorenzo. Che cita Isaac Bashevis Singer, che nel racconto L’uomo che scriveva lettere, dice: «Si sono convinti che l’uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia il vertice della creazione: tutti gli altri esseri viventi sono stati creati unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati. Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno». A me viene in mente un bellissimo libro del fratello del premio Nobel, Israel J. Singer, I fratelli Ashkenazi (Bollati Boringhieri 2015, ed. or. 1937), in cui a p. 630 si dice: «Quando i legionari polacchi cantano nella propria incomprensibile lingua slava un inno patriottico, i Landstürmer gli davano sulla voce, e cantavano a loro volta un ritornello offensivo: “Luridi russi, polacchi cenciosi, per noi tedeschi son tutti schifosi”». Non credo che, anni dopo, nelle circostanze che tutti ben conosciamo, l’opinione dei tedeschi nei confronti degli italiani fosse di gran lunga migliore.

4Passano gli anni, nulla sembra accadere. Poi, il processo a dieci imputati: una giustizia teorica, che arriva con enorme ritardo e non trova concreta applicazione, ché nessuno degli imputati, pur condannati, verrà recluso. E tuttavia, si tratta di un segnale importante. Dietro al processo, a monte, gli studi di due storici, Paolo Pezzino e Carlo Gentile. Emerge la consapevolezza di un’azione preordinata, poiché ci sono state ben quattro colonne che hanno accerchiato S. Anna. Obiettivo, non i partigiani ma la popolazione civile. Si era illustrato, nell’azione, soprattutto il battaglione Galler.  Qui si dà conto dei profili dei dieci imputati, «dieci piccole storie di ordinario nazismo, di straordinaria violenza e di rientro disinvolto e indolore nei ranghi della società».

Il libro sottolinea il ruolo di De Paolis, messo a capo della procura militare della Spezia nel 2002: a lui si deve l’aver portato a giudizio i dieci tedeschi, che avranno – certo, simbolicamente – una condanna all’ergastolo. Chiamato in causa è il principio dell’obbedienza. Per le Fosse Ardeatine vi è stato chi si è rifiutato di eseguire l’ordine: vi è, si può quindi sostenere che debba esservi il dovere di disobbedienza.

L’autore non si limita a S. Anna di Stazzema. Chiama in causa quanto accaduto alla scuola Diaz a Genova nel 2001, fatti per cui reputa colpevoli non solo i vertici ma l’intera catena di comando.

Vorrebbe, auspica una cultura della pace che escluda futuri fatti del genere: e ne discute, nel libro, con il padre. Forse, letterariamente, una delle parti meno immediatamente spontanea del testo, la cui lettura risulta quindi un po’ più faticosa. Ma mi sembra che non si possa che concordare con l’autore quando ci ricorda come «anche affondare i barconi di profughi e migranti, o lasciarli colare a picco, può essere un atto di guerra».

Che non si possa che rallegrarci per il fatto che oggi un giardino abbia il nome della mamma di Alberto, della nonna di Lorenzo.

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
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Maria Immacolata Macioti, già professore ordinario di Sociologia dei processi culturali, ha insegnato nella facoltà di Scienze politiche, sociologia, comunicazione della Sapienza di Roma. Ha diretto il master Immigrati e rifugiati e ha coordinato per vari anni il Dottorato in Teoria e ricerca sociale. È stata vicepresidente dell’Ateneo Federato delle Scienze Umane, delle Arti e dell’Ambiente. È coordinatrice scientifica della rivista “La critica sociologica”  e autrice di numerosissime pubblicazioni. Tra le più recenti si segnalano: Il fascino del carisma. Alla ricerca di una spiritualità perduta (2009); L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con E. Pugliese, nuova edizione 2010); L’Armenia, gli Armeni cento anni dopo (2015).

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