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Un mare di storie. Crocevia di popoli e di migrazioni
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2019 @ 01:01 In Cultura,Migrazioni | No Comments
di Sonia Giusti
Il primo grande poeta dell’emigrazione, è stato Virgilio, «colui che più di tutti gli antichi ha contribuito a costruire un’idea del Mediterraneo…un teatro, che non è solo spazio geografico, ma sguardo sull’alterità … che è la Storia di uomini e donne che – incontrandosi – cercano un senso per la loro vita» [1].
E proprio da Virgilio abbiamo anche l’indicazione importante di elementi comuni, per esempio, tra etruschi e troiani. Anche se Massimo Pallottino afferma che il problema degli Etruschi non è l’etnia (se anatolici o greci o indigeni), ma il carattere composito della loro civiltà, costituito anche da elementi fenici e greci. Il loro comportamento sociale, infatti, ricorda le usanze siriane (banchetti funebri e simposi, sdraiati su divani).
Tra i molti problemi irrisolti della lunga storia di questo mare c’è anche quello dei cosiddetti Popoli del mare, dei quali si hanno i primi riferimenti storici con le traversate nel Paleolitico (11.000 a.C.) compiute con imbarcazioni di canne. Le prime forme di migrazioni di popoli risalgono, infatti, al XII secolo a.C. e sono testimoniate sulle pareti del tempio di Ramsess III, dove si narra di Popoli del mare dediti alla pirateria e provenienti dall’Anatolia. Nei rilievi delle fonti faraoniche è rappresentata la battaglia navale tra vascelli egiziani e imbarcazioni anatoliche e anche gli scontri tra l’esercito egiziano e i carri degli invasori, carichi di famiglie dei guerrieri a dimostrazione che non si trattava di una spedizione militare, ma di migrazione di popoli [2].
In questo mare di storie, dove più che le civiltà sono stati gli uomini ad incontrarsi, le diversità culturali acquistano una rilevanza eccezionale e dimostrano di essere la ricchezza più significativa dell’umanità. Io vorrei soffermarmi su questo tema per sottolineare l’importanza dell’iniziativa umana che ha inciso sulla storia del Mediterraneo, pensando non tanto alle grandi potenze terrestri e marittime considerate protagoniste, ma alle migrazioni dei popoli fatte di individui isolati, intraprendenti e coraggiosi che hanno fatto la loro parte – mercanti, artigiani, contadini, corsari e crociati, disperati in fuga da guerre e da povertà. Non dimentichiamo che nel mondo antico gli immigrati sono stati indispensabili, anche nell’importare nuove tecniche di lavoro.
Da questo punto di vista, si può dire che il Mediterraneo costituisce un campo liquido privilegiato per misurare l’ambiguità del concetto di etnia che è diventato ormai concetto ideologico di discriminazione, strumento politico di esclusioni e sovranismi, perché reso statico e congelato al di fuori della storia. Spesso si arriva ad usare le parole etnia o identità etnica col significato di razza, nel senso di entità biologica rigida, ingessata astoricamente, immodificabile nel tempo, non innervata dagli individui che la compongono. Al razzismo biologico, quello basato sui tratti fisici si è sostituito, infatti, il razzismo ideologico culturale per cui ancora si sente dire «gli africani ce l’hanno nel sangue la musica e la danza».
E allora ripercorrere la storia plurimillenaria del Mediterraneo è utile per mettere a fuoco la plasticità delle culture; così ci accorgiamo che non sono le culture – o le etnie – ad incontrarsi, ma gli uomini e le donne che si spostano con i loro bimbi e con i loro fardelli di usi e costumi, ospiti inattesi e a volte ingombranti per non dire preoccupanti. E tuttavia suscettibili di curiosità: con i loro cibi che stuzzicano, colori che affascinano, musiche che coinvolgono.
La vita si incarica di mescolare, dice il grande storico del Mediterraneo, Fernand Braudel: si abbandona la montagna per fare i soldati a Cipro, Venezia, Napoli, Roma, in Sicilia, in Spagna, in Inghilterra, in Francia; ne troviamo con al seguito mogli e bambini [3]. Le navi sono piene di sbandati in cerca di lavoro. Tra i rematori sulle galere c’erano greci, francesi, gente di Lipari, di Sicilia, di Maiorca, di Genova … i pescatori poi sono andati dappertutto in continue migrazioni. Mentre i mercanti si sono spinti fino alle fiere di Germania e alle botteghe di Amsterdam, «nella penisola iberica – scrive Braudel – si formano interminabili convogli di bestie da soma, muletti, asinelli nascosti sotto il loro carico che attraversano le Castiglie, trasportano tutto ciò che si può trasportare: sale, lana, pecore, stoviglie, maioliche»; «lo stesso formicolìo di paranzelle, di barche, di brigantini sui litorali del sud iberico, si vedevano anche sulle coste dell’Africa del Nord» [4]. Le isole sono mondi affamati, commenta Braudel, perché oltre alla carestia, ci sono le scorrerie barbaresche.
Ma per il Mediterraneo certamente si può parlare di cosmopolitismo specialmente pensando alle città portuali. Una di queste è Livorno aperta ai mercanti dalla politica granducale fiorentina. Nella metà del ‘500 Cosimo I dei Medici potenzia la flotta dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano per combattere la pirateria – una flotta potente che nel 1571 partecipò alla battaglia di Lepanto con 12 galere – e, poiché il porto di Pisa si era insabbiato, Livorno fu attrezzata con la fortezza a difesa del porto che, nel ‘600, venne dichiarato porto franco. Fu la strategia dei Medici a favorire il successo della città dove non si pagava dazio e dove le comunità straniere che vi si stabilivano erano libere di praticare le proprie religioni. A Livorno si insediarono marsigliesi e provenzali, commercianti olandesi, alemanni, inglesi, armeni e, più numerosi, gli ebrei sefarditi che non furono mai costretti in ghetto. Ecco cosa scriveva Montesquieu nel ‘700 nelle Lettere Persiane:
A proposito di cosmopolitismo una studiosa americana, Clancy Smith, ha analizzato la situazione della città di Tunisi – tra il 1820 e il 1880 – e ha messo in evidenza l’affluenza verso Tunisi di persone spinte dal bisogno che si spostano dal Nord al Sud e si sistemano in città realizzando forme di convivenza e scambi quotidiani, tanto che a Tunisi ci sono ancora “la strada dei maltesi”, “il quartiere dei siciliani” [5]. E questo conferma che si può avere convivenza non quando si ignorano le diversità, o peggio le si detestano, ma quando le si riconoscono [6]. A Tunisi gli stranieri sono inattesi, indesiderati, ma non sono respinti. La presenza dei siciliani in Tunisia è documentata anche dal Boccaccio che parla di trapanesi che vivevano in Africa. Di fatto, nella seconda metà dell’800, la comunità straniera più numerosa in Tunisia era siciliana. A Lampedusa «c’era una grotta sacra dedicata alla vergine Maria dove, fino al XVI secolo, marinai cristiani e musulmani offrivano preghiere ed ex voto». I pescatori mazaresi e tunisini continuano a gettare le reti nello stesso mare.
Nel mondo antico, fin dal XII secolo a. C., le prime rotte commerciali furono Fenicie, Cartaginesi, Etrusche, Greche. «La Grecia del VII secolo è piena di contadini in fuga» – scrive Esiodo in Le opere e i giorni – e racconta il dolore infinito del contadino, attaccato al suo esiguo campo, stanco delle continue controversie con i vicini e scrive una cosa molto importante: «da questa situazione di miseria sono derivate molte cose: l’espansione della città, la crescita dell’artigianato, ma anche la miserabile avventura dei mercenari: nel VI secolo … i soldati greci si vendono in Egitto e si venderanno ancora all’impero persiano …».
Secondo Tucidide è il commercio dei Fenici – detti così da phoenix, l’inchiostro rosso ricavato da molluschi che li fece ricchi col commercio della porpora – che, prima dei greci, costituisce una koinè culturale mediterranea che mette in contatto Siria, Cipro, Creta, Etruria, Spagna, Africa, mentre nel V secolo i Cartaginesi già possedevano terre in Sicilia e, ancora prima, nel VII secolo le possedevano in Sardegna.
Sempre cercando prove del rimescolìo delle genti per dimostrare la inconsistenza storica del concetto di etnia, dopo aver ricordato che le fondamenta della nostra civiltà emergono dalla civiltà minoica dell’isola di Creta e da quella micenea della Grecia continentale, dobbiamo riconoscere anche che la storia ha radici più antiche: il genetista Guido Barbujani si è chiesto da dove vengono i greci antichi: si è cercato nel DNA dei greci neolitici e si è scoperto che assomiglia a quello dei primi agricoltori anatolici, gli iniziatori della rivoluzione neolitica. Ma c’è qualcos’altro nel DNA dei greci antichi, c’è il DNA dei caucasici [7]. Questo conferma il fatto che da quando l’homo sapiens ha lasciato l’Africa non ha mai smesso di migrare per necessità o per scelta: si è adattato a nuove nicchie ecologiche, le ha trasformate e questo autorizza a interpretareil fenomeno migratorio come costitutivo della nostra identità di specie, salvo punte di disperazione come quelle vissute nella contemporaneità.
Tornando a parlare di culture, a quanti sostengono la loro incompatibilità, dovrebbe bastare l’esperienza mediterranea della civiltà arabo-normanna di cui parla lo storico Michele Amari nei suoi splendidi libri Storia dei musulmani in Sicilia (1854) riferendosi al sincretismo di elementi bizantini, islamici, latini, che ha contribuito alla formazione di una koiné culturale mediterranea.
In questo mare di storie una particolare attenzione si deve alla Sicilia che è sempre stata nodo di rotte commerciali fin dall’età antica, quando era Magna Grecia, o nel Medioevo quando, all’epoca di Federico II di Svevia, era crocevia di culture, religioni, tradizioni e lingue parlate da Latini di stirpe longobarda, Greci, Bizantini, Normanni [8]. Erano Cristiani, Musulmani, Ebrei, tutti con le proprie consuetudini – sociali, religiose, giuridiche – che in Sicilia incrementavano il crogiolo di culture. Tra gli intellettuali che frequentavano la corte di Federico II di Svevia, Michele Scoto traduceva l’Ethica Nicomachea e alcuni commenti di Averroè alle opere aristoteliche. A Palermo si parlavano tre lingue: latino, greco e arabo che si usavano in cancelleria e in ambiti scientifici e filosofici.
Per sottolineare l’esemplarità di una città come la Palermo medievale rispetto alla validità del confronto fra culture, è utile ricordare ciò che scrive lo storico Ernst Kantorowicz nella sua biografia di Federico II di Svevia. L’immagine suggestiva del personaggio, definito “signore universale”, è messa in luce con la sua formazione, che esprime una visione del mondo di grande respiro e di grande rispetto verso popoli, i più diversi e con le loro fedi religiose.
Scrive Kantorowicz:
Di fronte alle logiche di esclusione e discriminazione, di pattugliamenti militari e contro i sovranismi, la chiusura dei porti e il respingimento degli immigrati, la lezione della storia del Mediterraneo è preziosa: perché noi, oggi, rischiamo di rimuovere dai nostri valori la millenaria legge del mare «che impone il salvataggio senza preoccuparci del passaporto di chi sta affogando» e che ci fa vedere troppo tardi la pagella che una mamma premurosa ha cucito all’interno della giacca del suo bimbo prima di farlo partire. Non dimentichiamo di aggiungere che dagli episodi del Mediterraneo impariamo anche che chi fugge da guerre e da fame è dotato di una forte personalità, non è un rinunciatario, non si piega alla rassegnazione. Più forti del rischio di rimpatrio, i migranti sopportano incredibili umiliazioni, e paradossalmente rischiano di morire in un mare dove è cominciata la civiltà, liquido amniotico dove si è costruita la nostra storia.
Tutte queste cose, si potrebbe dire, sono note, ma è utile ricordarle per evitare di sorprenderci ogni volta che i flussi di migranti ci vengono presentati come invasioni. Gli antichi dicevano: «nel mare non si ara né si semina; l’unico seme che vi attecchisce è la guerra», ma non è vero: sulle tolde delle navi non si è fatta solo la guerra, ci si è scannati, è vero, ma ci si è anche confrontati, mescolati, contaminati. Sulle tolde delle navi si ha l’esempio – in microcosmo – di quel che avviene nella società: perché il Mediterraneo è il luogo dove si sono combinate e scontrate idee e progetti, il luogo dove gli uomini – e le donne – hanno costruito, insieme, i loro mondi.
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