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Un incontro a Damasco

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2017 @ 00:30 In Migrazioni,Società | No Comments

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Damasco. Moschea degli Omayyadi (ph. Pierantoni)

di Silvia Pierantoni Giua

«La gente più di tutto», mi risponde Samir alla domanda su cosa gli mancasse di più della sua terra.

L’ho conosciuto a Damasco nell’agosto 2008. Ero andata a fare un corso di arabo classico all’Università di Lingue. Ricordo quell’esperienza con colori nitidi, impregnati di quella vitalità e forza che caratterizzano la capitale siriana. Immagini che fanno contrasto con quelle di morti e macerie che quotidianamente, ormai da molti anni, passano al telegiornale.È bastato un mese – la durata del mio soggiorno – perché Damasco e i suoi abitanti mi rimanessero nel cuore. Samir è la persona che ho custodito dentro di me in modo più intenso e intenso è stato incontrarci di nuovo, a Parigi, due anni fa.

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Vista panoramica dal monte Quassiun (ph. Pierantoni)

Oggi desidero raccontare la sua storia, così ci diamo appuntamento per un’intervista.  Siriano-palestinese/palestinese-siriano, così Samir definisce la sua identità, in totale e mobile reciprocità. Nato a Damasco da genitori palestinesi, è cre- sciuto nei quartieri della città vecchia senza aver mai sperimentato il concetto di straniero: «In Siria è facile vivere. Non importa la provenienza culturale o religiosa. Si sta tutti insieme».

Samir era una specie di “re della medina”. Al mio arrivo a Damasco il suo nome fu una delle prime parole che sentii pronunciare. Mi consigliarono di cercarlo, di rivolgermi a lui per qualsiasi cosa avessi bisogno: una casa, dei consigli su dove andare a mangiare e su cosa visitare. E così fu: seguii gli indizi che, a tam tam da una persona all’altra a cui chiedevo informazioni, mi condussero al meraviglioso negozio di Samir, proprio dietro la moschea degli Omayyadi. «C’è Samir?» chiesi io con il mio arabo zoppicante, «sì bella, sono io!», mi rispose lui sorridente in italiano con un accento romano.

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Damasco. Fantasia di verdure (ph. Pierantoni)

Samir parla quattro lingue, tutte imparate lavorando per strada, conoscendo i turisti e gli studenti che, da tutto il mondo, andavano a visitare Damasco. Mi racconta che ha lasciato lo studio presto perché gli piaceva il suq, voleva conoscere altre culture, parlare con gente diversa da quella che poteva incontrare a scuola. «Mi piace cambiare!» dice, «Sono cresciuto al mercato con mio padre dove ho incontrato il mondo intero, non solo professori e alunni ma gente di tutte le nazionalità e di tutte le età». Il suo entusiasmo e la sua curiosità si manifestano nella varietà degli oggetti esposti nella sua bottega: monili e gioielli provenienti da paesi diversi e prodotti con cura da sapienti mani artigiane. Di quel negozio custodisco con gelosia e fierezza una giacca splendida rosso porpora con fiori dai pistilli colorati ricamati a mano dalle donne del campo palestinese di Yarmuk.

Mentre parlo con Samir ripercorro le immagini dei colori delle stoffe preziose, il gusto del gelato al pistacchio, il profumo delle spezie e del tamarindo, la fragranza dei biscotti alla cannella appena sfornati al mattino mangiati al volo prima di andare all’Università, i banchetti di arance e fichi d’India, l’atmosfera fiabesca di caffè e ristoranti…Non saprei quale di questi gusti prevale dentro di me e così mi ritrovo a porre a lui la domanda che stavo rivolgendo a me stessa. «È la quotidianità damascena che predomina in me – risponde lui –  un percorso umano in cui passavo tutti i giorni per andare al lavoro: chi ti offre un tè, chi ti invita a sedere, chi ti racconta una storia, chi ti chiede aiuto…Ci mettevo un’ora ad arrivare al negozio! In Francia non funziona così». Da sei anni Samir vive a Parigi, è contento, ha un lavoro, «una scelta forzata» la chiama. Il tragitto da casa al lavoro adesso dura una manciata di minuti.

Samir è un rifugiato «alla seconda»: rifugiato palestinese in Siria e rifugiato siriano in Francia. Rifugiato è una parola, un concetto, uno status che non gli piace; forse perché spesso implica un atteggiamento da parte degli europei di compatimento e rigetto insieme, che oscilla dal percepire lui, ed altri come lui, come “poverino” o come un soggetto di cui diffidare “visto tutti i terroristi che ci sono in giro”.

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Damasco. Negozio (ph. Pierantoni)

Durante il classico scambio di presentazioni, alla domanda «di dove sei?” Samir vorrebbe poter  rispondere “di Damasco”, senza che questo comporti quello sguardo pietoso di chi sa, da lontano, della guerra e di qualcuna delle atrocità che da anni si perpetuano in Siria. Samir non vuole “sentirsi rifugiato” e non vuole essere trattato come tale: è ciò che lo riporta alla consapevolezza di non poter tornare a casa «neanche per un bicchiere d’acqua».

La nostalgia e la malinconia portano in seno il rischio dell’idealizzazione. Oltre alla cultura, alla generosità e alla capacità di condivisione che si respirava, a Damasco si subìva l’oppressione e l’onnipresenza del potere che per anni ha tenuto imbavagliato il popolo. Ma la profonda bellezza della Terra di Levante è reale e non dev’essere dimenticata o solo associata a macerie e atrocità. La rivoluzione ha fatto esplodere una situazione di paura e censura perpetrata dalla famiglia Assad per più di cinquant’anni.

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Damasco. Suq (ph. Pierantoni)

Samir mi racconta di quando la polizia andava in negozio senza alcun rispetto né mandato, metteva all’aria la merce e la sequestrava. Non c’era possibilità di dialogo né di espressione di dissenso o malcontento. Nel Paese di Bachar, la facciata repubblicana serviva a coprire uno Stato totalitario il cui popolo era piegato al silenzio e alla sottomissione, pena la prigione e la tortura. Il controllo pervadeva ogni spazio, compreso quello privato, senza nessun ritegno né decenza. Per citare solo un esempio, senza che fosse un attivista politico, Samir fu accusato più volte di trattare con spie occidentali per aver aiutato studenti di lingua araba a trovare un appartamento.

La rivoluzione siriana è iniziata in modo pacifico nel periodo delle rivoluzioni arabe del 2011 attraverso manifestazioni, slogan e attivismo sociale e culturale. Essa ha mostrato il volto di un popolo coraggioso che rivendicava libertà e desiderio di espressione. L’escalation della repressione non ha conosciuto limiti né vede ancora oggi il barlume di una possibile fine dei crimini umanitari che si stanno commettendo contro il popolo da parte di Bachar al-Assad e dei numerosi gruppi armati infiltrati nel territorio. Negli ultimi due anni la situazione si è talmente complicata che «anche i siriani non ci capiscono più nulla. Non c’è nessun orizzonte», mi confida Samir, «non si riesce a vedere un futuro».

Chiostro

Damasco. Chiostro (ph. Pierantoni)

Il presente è presagio di un periodo ancora lungo, buio e tortuoso. In questo quadro desolante, le politiche che si dovrebbero attuare sono quelle volte a sostenere questo popolo e a far conoscere al mondo la verità di ciò che accade. Oggi più che mai i problemi sociali travalicano, anche in modo devastante, i confini politici e geografici. E allora la musica, il teatro, l’arte e la cultura devono fungere da strumenti di confronto e di conoscenza e l’attivismo e l’accoglienza possono essere un concreto sostegno. Quello della accoglienza è uno dei concetti al centro del dibattito europeo ed internazionale che ha visto finora solo contrasti, spaccature, caos e panico e i cui sviluppi non sembrano prevedere chiarezza, solidarietà e cooperazione.

È difficile abbandonare le proprie riserve, abbattere convinzioni e pregiudizi. Dietro la chiusura c’è la paura, della diversità, del confronto, in altre parole, del pluralismo identitario; salvo poi rendersi conto che questa stessa diversità è parte di noi, questa stessa pluralità è la matrice dell’essere umano e accorgersi che –  come dice la psicoanalista e linguista Julia Kristeva – «lo straniero ci abita».

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Damasco. Vendita del tamarindo (ph. Pierantoni)

Suonano come una preghiera le parole di Samir alla mia domanda su cosa possa fare, secondo lui, l’Europa di fronte alla guerra in Siria: «Aiutare i siriani che vengono in Europa». Sembra un appello semplice e necessario. Invece è una verità che, ripetuta tutti i giorni, si svuota del suo significato e si perde nella retorica dei dibattiti televisivi. Le immagini, agli occhi dei telespettatori abituati alle tragedie dei telegiornali, finiscono per sbiadirsi e apparire lontane. Le parole possono essere ponti, mattoni, denunce, possibilità. Samir vorrebbe raccontare di un Paese che è stato culla dell’umanità, terra di pluralismo religioso in pace, di stoffe preziose e mani orafe, di colori vivi, di balli tradizionali, di poesie e di cantastorie.

«Ognuno ha una storia nel proprio cuore», dice la cantautrice algerina Souad Massi nella bellissima canzone Ya raoui. Ho voluto raccontare quella di Samir e di una Siria anche prima della guerra, dei suoi gusti e tradizioni, della sua quotidianità, della sua normalità. Questa è l’identità che dev’essere mantenuta in vita insieme al prezioso lavoro di documentazione e testimonianze di questi ultimi tragici sei anni.

Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017

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Silvia Pierantoni Giua, si specializza in arabo e cultura islamica durante il corso di Laurea Magistrale in Lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale all’Università degli studi di Milano. Approfondisce poi la tematica della radicalizzazione islamista in occasione della stesura della sua tesi di laurea di Ricerca in Psicoanalisi diretta dallo psicoanalista F. Benslama, che ha discusso nel giugno 2016 all’Università Paris VII di Parigi. Attualmente si occupa della stesura di un progetto per la prevenzione del fenomeno del fanatismo.

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