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Un giorno a casa di Ignazio Buttitta

Aspra, a tavola con Ignazio. Da sinistra, Ortoleva,, Paul Ripamonti e Oscar Guarnaccia

Aspra, a tavola con Ignazio. Da sinistra, Ortoleva,, Paul Ripamonti e Oscar Guarnaccia, 3 ottobre 1978

di Antonio Ortoleva

Ci presentiamo all’ora di pranzo a casa di Ignazio Buttitta, una villetta con un bel giardino mattonellato tra i limoni sul promontorio dell’Aspra, la riviera di Bagheria. Il poeta in canottiera bianca è intento a scrivere su un tavolino improvvisato all’aperto. «Se domani venite a pranzo – aveva detto la sera prima con un sorriso felino – vi preparo la pasta alla palermitana, esco alle 10 e compro le sarde, ci vediamo all’una». Erano quasi le due e dell’odore di sarde neppure un alito. ‘Gnazio, come lo chiamano gli amici e in famiglia, era così avvolto dall’angelo ispiratore da perdere il senso del tempo. «Non vi attendevo così presto, pensavo fossero ancora le 10».

Il poeta quest’oggi ha un viso fresco e pulito nei suoi 79 anni, incorniciato garbatamente da una grande coppola bianca. Gli chiediamo la ragione del suo bell’aspetto: «Non mi muovo da casa, non prendo impegni da quando sono rientrato con voi da Milano, non vado più a recitare, voglio solo scrivere».

Era il 3 ottobre 1978, come risulta dagli appunti ingialliti e trascritti in quella mattina indimenticata. Nel giugno precedente ‘Gnazio aveva recitato in siciliano dal palco di piazza Duomo davanti a un migliaio abbondante di milanesi ipnotizzati da quel magnifico cantore. Avevamo compiuto una follia: esportare a Milano una magnifica porzione della cultura popolare isolana, tematica al tempo in voga nei teatri e nelle aule universitarie, con l’intento di ricambiare la visita. Promotore il Club Unesco di Milano, con il sostegno del Comune meneghino – compreso l’uso gratuito dell’Arengario, oggi Museo di Milano con vista duomo, dove allestimmo una grande mostra con le foto di Enzo Sellerio e dove agivano il ceramista di Caltagirone Mario Iudici e i pittori di carretti capiscuola delle due sponde: Onofrio Ducato, il decano dei quattro fratelli di Bagheria – i Ducato’s Bros, come recitava l’insegna originaria della famiglia rientrata dall’America, imbianchini fino agli anni Cinquanta – e Domenico Di Mauro, detto Mimmo, di Aci Sant’Antonio, alle pendici dell’Etna. Onofrio e Mimmo, non più giovanotti, non si erano mai conosciuti. Il loro primo incontro, con abbraccio lungo e ad occhi lucidi proprio in piazza Duomo, fu piena ricompensa alle fatiche dell’evento.

Oscar ripamonti

Il pittore Paul Ripamonti

Eravamo in quattro, sodalizio eterologo e del tutto affine, fondatori del Club Unesco milanese. Due siciliani catanesi: io, giovane cronista free-lance con il mito di Montmartre, e Oscar Guarnaccia, allievo avvocato, amante e collezionista del bello e gran viaggiatore; il sardo Pino Manos, pittore, scultore e maestro olistico con ashram annesso alla casa nei pressi del Castello Sforzesco; Paul Ripamonti, barba, chignon alto e mento puntato come un fioretto, quotato pittore bergamasco con atelier a Milano e soffitta a Parigi.

La nostra trasferta in Sicilia aveva dato frutti a metà: raccogliemmo l’adesione dei migliori artisti del popolo, nonché dello stesso Enzo Sellerio, tanto generoso quanto grande fotografo allora ritenuto tra i migliori del mondo, rientrato a Palermo, dopo una lunga residenza negli States, per aprire l’omonima casa editrice dai libricini blu, consigliere speciale Leonardo Sciascia. Ma quanto al sostegno economico, la Regione siciliana, così nota per la generosità verso sagre paesane e manifestazioni di dubbio profilo, ci assegnò una minuscola somma bastevole neppure a pagare i viaggi degli artisti.

Quella giornata da Ignazio Buttitta era l’occasione di un saluto, dopo aver restituito attrezzi e opere per tutta l’Isola, e di un bilancio collettivo dell’operazione che aveva ottenuto un successo insperato. La foto di Buttitta durante il suo recital in piazza Duomo che campeggiava sulla prima pagina del Corriere della Sera fu una sorpresa per tutti, figuriamoci per il Poeta che incollò un sorriso duraturo sul suo volto bello e scavato.

‘Gnazio le sarde le aveva fatte solo sognare, ma in compenso la salsa di pomodoro in bottiglia manteneva un sapore ancestrale che non abbiamo dimenticato. E fu così che già agli spaghetti il poeta cominciò a imbastire un recital tutto per noi.

«Mangiate, picciotti, mangiate, che meraviglia. Se sono un buon cuoco? A Milano ho abitato la prima volta da solo con Quasimodo e Vittorini, da buoni siciliani mangiavamo tanti spaghetti, Vittorini non sapeva cucinare e… nemmeno parlare».

Non guardava i suoi commensali ‘Gnazio, semmai un punto lontano, aldilà della scogliera. E quando accese la sua sigaretta senza filtro fu allora che lo spettacolo cominciò davvero. «Ti parla, ti ascolta, la posi, la prendi, ti chiama. Ho tentato di abbandonarla, non ci riesco, lei scrive con me». E intanto la osserva, con quasi tenerezza la palpa, la arrotola con avidità tra le dita della mano gigante, la fuma infine con una certa lussuria.

5288b143-8aa7-450e-b1a1-77a653e084adCome scrisse Leonardo Sciascia «con Ignazio Buttitta non c’è da aspettare: la sua presenza è immediatamente quella del poeta: nel fisico, nello sguardo, nel movimento di togliersi e rimettersi gli occhiali o di portarseli sulla fronte (…) e in tutto quello che dice, in tutto quello che racconta, di sé e degli altri, di Bagheria e del mondo, delle cose di ogni giorno, del libro che ha appena letto (…): tutte le cose straordinarie che a lui sono capitate e capitano ad ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni momento» [1].

Bagheria che si affaccia sul golfo di Palermo, con le sue ville barocche assediate da una selva di palazzine abusive, era a quel tempo un concentrato di meraviglie e nefandezze, abitata com’era da grandi artisti e da potenti mafiosi. Il giudice Cesare Terranova, prima di essere ammazzato, disse che Bagheria era la vera capitale di Cosa nostra. Quanto agli uomini di ingegno, bagherese era Renato Guttuso, dieci anni dopo Peppuccio Tornatore avrebbe vinto l’Oscar, il poeta pecoraio Giacomo Giardina viveva in una casa-garage ed era stato incoronato da Marinetti proprio in paese, dove un clan di poeti aveva fondato un circolo futurista. Di Bagheria ne scriverà la concittadina Dacia Maraini, l’italianista Natale Tedesco viveva al piano terra della “Villa dei mostri”, Ferdinando Scianna si sarebbe affermato come uno dei più importanti fotografi europei.

Racconta a ruota libera Ignazio Buttitta, non si fa pregare. Il padre. «Mio padre fece di tutto, il rigattiere, il poeta, il venditore ambulante di pesci. Era uomo secco, non faceva trapelare emozioni. Avevamo una bottega da salumiere a Bagheria, un giorno venne: “Chiuri a putìa”, mi disse, chiudi il negozio. Capii che mio fratello malato era morto. Aveva occhi pieni di lacrime, mio padre, ma non disse altro. Quella morte lo fece invecchiare di dieci anni».

Le donne le ha sempre amate. Le donne e il loro seno, in particolare, sono al centro della sua ispirazione poetica. «Il cambiamento è lento, la donna in Sicilia non è ancora libera, le figlie del contadino, del piccolo artigiano non escono da sole e nemmeno con il fidanzato senza un parente appresso. Le studentesse sì, le studentesse entrano da sole nei caffè a Bagheria, ancora le donne del popolo non ci mettono piede».

b6ddc966-4b03-4678-ad1b-2904b287df3aGli piacevano e gli piacciano le donne, «da giovanotto ero un fimminaru». Così lo racconta e si racconta ne La paglia bruciata [2].]«.Cominciai a quindici anni, ero bello io a quindici anni dietro il banco, pettinato alla moda, e col grembiule bianco; alle donne piacevo. Entravano in bottega: “cento grammi di salame”. “Cento grammi di formaggio”. Tagliavo il salame, il formaggio, e mi tagliavo le mani. Ho ancora le cicatrici. Guardavo le signore, non il coltello. Sbagliavo peso e misura».

A occhi chiusi, come a vedere scorrere immagini, passa alla sua vita per molti versi avventurosa. ‘Gnazio nasce negli ultimi mesi dell’Ottocento, «a quattro anni garzone in una minuscola macelleria ovina, gestita dal padre della balia, a sette nella salumeria di mio papà». A quel tempo in Sicilia, i bambini passavano dal biberon all’età lavorativa, «nella salumeria di mio padre senza sosta dalle 5 del mattino alle 23, anche la domenica, dormivo in soffitta accanto ai salumi. Dall’una alle tre, quando non c’era gente, studiavo e leggevo autodidatta. Veniva alla domenica un professore molto noto a Palermo, colui che fece l’introduzione a Sintimintali, il primo libro pubblicato nel 1923, Federico Pipitone. “Ignazio – mi diceva – tu resterai nella storia della poesia siciliana”. E poi, gli impacchettavo un po’ di roba da mangiare, sapevo come se la passava».

Pian piano, gli affari andarono bene, anzi alla grande. «Se mi faccio una posizione, potrò essere libero di scrivere, pensavo. Raggiunsi a possedere cinque depositi di alimentari in Sicilia. Avevo in concessione la distribuzione di cibo per i confinati politici. E conobbi Antonio Gramsci».

b9aad55b-2e5d-4194-8f8d-9f9a2e079089Divenne ricco. Nel Quaranta disponeva di tre milioni di lire in banca. «C’era la guerra e c’era la fame, prestavo soldi a tutti, mi chiamavano “’u patri de’ puvureddi». Aveva dunque deciso di vendere tutto e dedicarsi solo alla scrittura, la moglie Angelina insegnava. Ma scoppia la guerra in Sicilia con lo sbarco degli anglo-americani. «Il 7 luglio del ’43 bombardano Bagheria, penso che la guerra debba passare da qui e allora preparo tutto e decido di trasferire la famiglia al Nord. Affido i magazzini a un fratello e partiamo per Codogno, il paese dei formaggi, vendo alimenti in casa affittata per 50 mila lire al mese».

 L’8 settembre Buttitta entra in clandestinità. Verrà arrestato due volte. «La prima a causa del barbiere provocatore e spia che mi chiedeva di voler andare con i partigiani. La seconda nel marzo ’45 fui alle soglie della morte. Mangio in trattoria, il padrone era un compagno. Entra una ragazza con le scarpe militari, parla a tutti: “Oggi è l’8 marzo, festa della donna, sono scesa in città per raccogliere maglieria per i compagni partigiani”. C’era un cameriere che temevamo fosse spia dei fascisti, ero nervoso. La seguii fuori e la fermai in zona solitaria. Quel giorno compiva vent’anni. La rimproverai per l’imprudenza, mi rispose che sapeva il fatto suo e mi rivelò a quale compagnia apparteneva. Al che, ebbi io l’ingenuità di consegnarle un messaggio per il comandante: gli 800 prigionieri polacchi, dei quali mi occupavo, erano pronti a passare tra le nostre fila».

E qui ‘Gnazio sorrise tra i denti come un gatto mammone, ammettendo di essere incorso nella medesima imprudenza. «Nel giro di un’ora mi arrestarono i fascisti di Salò e mi consegnarono alle SS. La prima domanda fu: “Come pensa di far uscire i polacchi?”. Accidenti, quella ragazza era una spia e ci sono caduto come un fesso. No, seppi dopo, lei era stata catturata e aveva detto di me sotto tortura prima che la fucilassero. Ora, pensai, toccava a me morire. Fui invece salvato da mia moglie Angelina che andò in petizione dal ministro della Cultura che mi conosceva come poeta e che mi fece rilasciare».

Dopo la Liberazione, con la famiglia torna in Sicilia. E qui i suoi occhi si scuriscono. «I miei magazzini erano stati saccheggiati, ero povero in canna. Riapro magazzini e bottega con soldi a credito, quindi ritorno a Codogno e lì resto alcuni anni aprendo un supermercato. Nel 1968 basta con il commercio, vendo tutto e torno definitivamente a Bagheria per dedicarmi alla scrittura, la poesia, il teatro dialettale, i cantastorie, le mie recite in pubblico, in Italia e all’estero».

La firma autografa di Ignaizo Biuttiitta

La firma autografa di Ignazio Buttitta

Scrive a mano, penna o matita, Buttitta è troppo focoso per altro, come ammette, la macchina per scrivere riposa nella custodia. «Sul Corriere della Sera di oggi c’è l’intervista a un mio amico poeta, lui dice che, al contrario di me, odiava la morte e adesso la ama. Io odio la morte e l’ho scritto…perché avrei ancora, a quasi ottant’anni, tante cose da dire e da scrivere. Se fra cinquant’anni un critico prenderà in mano le mie poesie, potrà dire: “Certo, Buttitta era un grande poeta popolare, ma se non ha capito la realtà di quegli anni, che poeta era?”».

«Ecco, questa realtà dentro credo di averla capita, ma mi manca la tecnica, il mezzo adeguato per esprimerla. Io non posso più scrivere dei contadini e dei loro lamenti, dei cozzi cotti, non perché non esiste più l’oppressione, lo sfruttamento esiste, esiste, è ancora forte. Però oggi i contadini vanno a lavorare con la macchina, la realtà è cambiata e così il tipo di sfruttamento».

Quindi accenna al prossimo libro. «Ce l’ho in testa e nel cuore, adesso sto raccogliendo cose già scritte, depositate nei cassetti e ancora da pubblicare. Un uomo come me che ha inseguito per una vita il suo diritto a scrivere, ha letto sui treni, ha scritto nelle sale d’aspetto e nella soffitta della salumeria, ne ha un bisogno naturale, più forte di ogni avversità». 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note
[1] Leonardo Sciascia, Prefazione a I. Buttitta, Io faccio il poeta, Feltrinelli 1972: 7
[2] Ignazio Buttitta,  La paglia bruciata, Feltrinelli, 1978: 18 

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Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’Università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore, e più recentemente dello stesso editore Non posso salvarmi da solo. Jacon, storia di un partigiano.

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