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Tzvetan Todorov, in dialogo con gli illuministi e con Giacomo Leopardi
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2022 @ 01:15 In Cultura,Letture | No Comments
Uno degli aspetti che più ha influito sulla formazione generale di Tzvetan Todorov (1939-2017) e sul suo percorso di ricerca riguarda il confronto con il movimento filosofico e culturale dell’Illuminismo europeo, un confronto che si è sviluppato a più riprese nel corso della sua vita e che ha coinvolto, l’ideazione prima e l’elaborazione poi, di opere fondamentali come Nous et les autres. La réflexion française sur la diversité humaine (1989), o Les Morales de l’histoire (1991), fino ad arrivare allo studio monografico su L’esprit des Lumières, scritto negli ultimi anni e pubblicato nel 2006. Tra i temi della filosofia illuminista che Todorov trovava maggiormente interessanti, c’è quello che riguarda la concezione laica dell’uomo e delle sue facoltà, alla cui base troviamo la negazione dell’esistenza delle idee innate, ossia il rifiuto della convinzione che esistano principi innati nella mente umana, vale a dire presenti in essa, espliciti o solo potenziali, fin dalla nascita, come, ad esempio il principio logico di non contraddizione (“A non è non-A”), i principi matematici (eguaglianza, proporzione ecc.) o i principi pratici e morali come l’idea della Virtù, del dovere, l’idea del Bene e di Dio.
John Locke è tra i protagonisti più autorevoli dell’Età dei Lumi quello che più si è dedicato a questo tema, nel suo fondamentale Essay on human understanding (1690) sottolineava da un lato quanto tutto ci fosse insegnato dalle sole sensazioni, visto che nessuna cognizione o idea deriva da un principio anteriore all’esperienza, e dall’altro quanto la distruzione delle idee innate potesse mettere in discussione il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, cioè di una perfezione che abbia un fondamento anteriore all’esistenza dei soggetti che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendente da loro.
Nell’ottica di Locke quindi l’uomo non possiede caratteri originari o primari che sarebbero stati impressi nella sua mente fin dalla sua nascita perché, anzi, la sua mente, al momento iniziale dell’esistenza, si presenta come un foglio bianco, privo di ogni carattere e senza alcuna idea (Locke 1690: 593). Locke osservava a questo proposito che solo successivamente e molto gradualmente il bambino avrebbe cominciato a formarsi delle idee che, senza presupporre alcunché di innato, derivano solo da due fonti o sorgenti (fountains): la sensazione e la riflessione (o percezione interna). Nella mente non ci sono altre idee all’infuori di quelle che vi sono state impresse da queste due fonti che costituiscono l’esperienza, l’unica a fornire i materiali della nostra ragione. Come avrebbe confermato lo sviluppo di tutta la gnoseologia settecentesca – da Hume fino a Kant – non si dà uso dell’intelletto fuori dell’esperienza: la riflessione è, al contrario che per Descartes, una parte dell’esperienza, sebbene non si tratti di un senso vero e proprio, perché non ha rapporti con gli oggetti esterni, è qualcosa di molto simile e infatti viene definita da Locke “senso interno” (ivi: 594).
Todorov sottolineava proprio quanto la confutazione dell’innatismo avesse un significato di tipo politico visto che viene associata alla critica del concetto di autorità assoluta: la negazione di principi innati e incontrovertibili si salda con il liberalismo politico e religioso di cui lo stesso Locke, come è noto, è stato un fautore [1]. Questo aspetto che consiste nel privilegiare ciò che ciascuno sceglie in autonomia, senza farsi condizionare dalle imposizioni di un’autorità esterna, è fondamentale e si collega con l’emancipazione dell’uomo dai dogmi e dalle istituzioni considerate intoccabili, come ad esempio quelle religiose. Il risultato di questa emancipazione è la possibilità di discutere apertamente e liberamente; l’Illuminismo stimola a coltivare lo spirito critico che non deve essere però eccessivo, altrimenti diventa denigrazione generalizzata e non deve essere fine a se stesso, per questo è necessario che presenti sempre una contropartita positiva: «lo scetticismo generalizzato e la derisione sistematica solo apparentemente hanno un senso, deviando lo spirito dell’Illuminismo, creano un grosso ostacolo alla sua azione» (Todorov 2006: 48).
La tradizione continua comunque ad avere la sua importanza ma non è di per sé un elemento sufficiente a rendere legittimo un principio. Diderot considerava infatti il filosofo e l’uomo di pensiero colui che è capace di pensare autonomamente, senza farsi condizionare dalla tradizione, dall’autorità e dai pregiudizi. Si tratta come è noto di uno dei principi cardini dell’Illuminismo – il Sapere aude! – enfatizzato prima da Montesquieu (1748: I, 58), quando scriveva che «ogni uomo che si suppone possieda uno spirito libero deve guidarsi da sé», e successivamente anche da Kant [2].
L’autonomia tuttavia non significa autosufficienza: il rapporto con la società e l’interazione con gli altri sono fondamentali per gli uomini, senza di essi non potrebbero vivere, la loro umanità e il linguaggio stesso derivano da questi. Senza il rapporto con gli altri noi non potremmo nemmeno avere la percezione di noi stessi e della nostra esistenza. Questo è un tema che stava molto a cuore a Todorov [3] e per il quale sentiva una grande affinità elettiva con Rousseau quando scriveva che «la nostra esistenza è collettiva e il nostro io più profondo non è completo in noi» (Rousseau 1772-76: I, 813). Per questa ragione Todorov criticava nettamente la posizione di Sade, il quale innalzava l’autosufficienza a regola di vita e considerava il proprio piacere l’unica cosa importante, senza dover tener conto di quello che gli altri pensano o sentono, considerando la solidarietà verso gli altri come qualcosa che impedisce agli uomini di essere indipendenti. Todorov riteneva questa posizione non solo contraria allo spirito dell’Illuminismo, ma anche al comune buon senso:
Per far sì che l’emancipazione sia effettiva e concreta gli illuministi ritenevano inoltre che bisognasse disporre di una completa libertà di analizzare, discutere e dubitare; in questo modo
Da questa esigenza scaturiscono due principi fondamentali per la filosofia illuminista che sono oggi alla base delle Costituzioni liberali dei Paesi occidentali: la sovranità e la libertà dell’individuo. Nel primo caso si insiste sul fatto che ogni potere deriva dal popolo e che nulla è superiore alla volontà generale; in questo contesto si colloca la posizione di Rousseau, il quale diceva che l’origine del potere non è divina ma umana, per cui ogni forma di potere non è trasmessa ma solo affidata e il popolo può sempre riprendersi ciò che ha dato temporaneamente in prestito a un governo (Rousseau 1761: 170). Nel secondo caso si dà risalto sia al pluralismo che alla divisione dei poteri con due risultati importanti: il primo riguarda la separazione tra il potere religioso e quello politico, sulla base del principio per cui il fine ultimo delle azioni umane liberate non è più Dio, ma gli uomini stessi. Il secondo verte sulla separazione tra il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario: questo è un punto fondamentale perché la separazione dei poteri, a partire da Locke (Viano 1960: 223-25), è il cuore della dottrina costituzionalistica moderna che garantisce la sottomissione alla legge delle persone che esplicano le funzioni connesse con ciascuno di questi poteri.
Il potere che governa una società è tenuto a governare attraverso delle leggi alle quali esso stesso è sottoposto. Da questi principi deriva la condanna dell’assolutismo portata avanti da Locke prima e in seguito dagli autori dell’Encyclopédie, intendendo per assoluto un governo che non si preoccupa di ottenere il consenso e non riconosce di avere degli impegni verso i sudditi; un governo che si riserva di seguire una linea politica anche quando non è approvata dai governati e di difendere degli interessi discordanti da loro.
In questo senso «l’Illuminismo è un umanesimo, o se vogliamo, un antropocentrismo» (Todorov 2006: 15) [4] che riconosce l’inalienabilità dei diritti dell’uomo, diritti che sono universali ed è proprio grazie alla loro universalità che gli uomini possono essere considerati uguali tra loro di diritto: l’uguaglianza deriva dall’universalità. Ad esempio il diritto alla vita e all’integrità della persona, per cui pratiche come la pena di morte e la tortura, che a lungo erano state accettate in Europa, sono considerate invece disumane.
La stessa giurisprudenza lungo il corso del Settecento ha vissuto una fondamentale fase di rinnovamento teorico e di revisione dei propri presupposti concettuali: il riferimento d’obbligo in questo caso è il trattato Dei delitti e delle pene (1764) di Beccaria, in cui l’autore sosteneva una concezione laica e desacralizzata del diritto che rompeva con una tradizione millenaria, distinguendo il delitto dal peccato e stabilendo che la legge dovesse riguardare non le colpe, ma i danni apportati dai singoli alla società [5]. Polemico sull’oscurità della legge, Beccaria si era battuto a favore della certezza del diritto e l’efficacia della comunicazione giuridica: criticava fortemente l’uso del latino, che all’epoca era ancora diffuso nella giurisprudenza, perché le leggi, interessando tutta la popolazione, devono essere espresse nella lingua comune in modo da poter essere comprese da tutti. La ragione, che è il principio ispiratore delle leggi, per essere davvero utile deve essere condivisa dalla collettività [6].
L’affermazione dell’universalità dei diritti ha anche un’importante conseguenza, quella di suscitare interesse e attenzione verso i popoli che hanno mentalità e costumi diversi da quelli europei, non al punto da annullare i pregiudizi con cui spesso gli studiosi hanno considerato gli altri popoli, ma certo questo ha contribuito a modificare il loro modo di pensare e a risvegliare l’interesse e la curiosità verso le altre culture, evitando di confondere «la propria tradizione con l’ordine naturale del mondo» (ivi: 17). Todorov giustamente considerava questo programma formulato dal Secolo dei lumi di fondamentale importanza e faceva notare che anche se non tutti gli obiettivi sperati sono stati raggiunti, ad esempio per quanto concerne il rispetto dei diritti umani, il loro ideale è stato accolto diffusamente e chi oggi critica l’ordine esistente lo fa proprio in nome dello spirito illuminista.
Della filosofia illuminista Todorov apprezzava poi anche quel filone di pensiero più radicale che dalla negazione dell’innatismo era arrivato a concepire la materia come il limite entro il quale si estendono non solo tutte le nostre conoscenze, ma anche le nostre pulsioni e i nostri piaceri. Pertanto i nostri desideri e le nostre sensazioni, anche le più spirituali, non si estendono mai fuori della materia e anche la più spirituale e immaginaria e indeterminata felicità che noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai, né può essere altro che materiale e dipende quindi dallo stato del corpo. Il pensiero è legato alla sensazione (conoscere è sentire), è un attributo della materia; si ha con ciò un evidente superamento del dualismo cartesiano tra anima e corpo, tra pensiero e materia. La materia è attiva, non è mera estensione. Il pensiero non è un ente spirituale o immateriale separato dal corpo, anzi ne è parte integrante perché «senziente e pensante è, nell’uomo, la materia stessa: il cervello, non l’anima» (Timpanaro 1969: 160). Un altro grande esponente dell’Illuminismo come il barone d’Holbach riteneva che noi quando conosciamo sentiamo al tempo stesso anche il nostro corpo, ed è questo corpo che sente, pensa, giudica, soffre, gioisce, per cui tutte le sue facoltà sono risultati necessari del suo particolare meccanismo e della sua organizzazione:
Anche per Diderot l’esistenza dell’anima come sostanza autonoma ed eterogenea rispetto al corpo è infondata; per questo nei suoi scritti non si parla di unione o armonia tra anima e corpo come altri “philosophe” (per esempio Buffon, Condillac, Helvétius) ma di sostanziale identità (Moravia 1974: 158-60). L’anima quindi non può essere considerata come una sostanza semplice (ossia immateriale e priva di estensione) unica e indivisibile. La stessa presunta immortalità dell’anima e la conseguente credenza in una vita ultraterrena è esclusa senza esitazioni: ancora Holbach scriveva che l’uomo muore tutto intero e che «l’esprit ou la soubstance inétendue et immatérielle, n’est qu’une absence d’idées» (Holbach 1770: I, 200) [7]. Le posizioni più avanzate e originali della filosofia materialista settecentesca sono insomma molto distanti da chi concepisce l’uomo anzitutto come forza attiva e creativa, capace di superare la propria finitudine immedesimandosi con una natura spinoziana.
Gli esponenti più significativi del materialismo francese erano consapevoli del fatto che l’uomo inteso come creatura naturale e sensibile non potesse considerarsi scopo della creazione; di qui il rifiuto di ogni pregiudizio antropocentrico e la derisione della pretesa degli uomini di essere creature fatte a immagine e somiglianza di Dio con un destino e un ruolo diverso e più importante degli altri esseri viventi; allo stesso modo viene rifiutata la pretesa di considerare la terra quale centro dell’universo. Dal rifiuto dell’antropocentrismo scaturisce l’interesse per il rapporto tra l’uomo e gli animali e per il problema dell’anima delle bestie a lungo dibattuto nella filosofia settecentesca [8]. Tra gli autori che più si sono occupati di questo tema spicca il caso di Diderot, il quale riconosce una sostanziale continuità tra l’uomo e gli animali fondata sulla “sensibilità” che appartiene, dunque, all’intera sfera del vivente di cui l’uomo è solo un caso particolare. La teoria cartesiana dell’animale-macchina si era rivelata pericolosa per l’ortodossia cattolica in quanto poteva essere estesa agli uomini, cosa che del resto era stata realizzata da La Mettrie che, nell’Homme machine del 1751, riconosceva agli animali in un certo grado sia una forma di ragione, sia la facoltà immaginativa, avvalorando di fatto la tesi dell’origine ferina e naturale dell’uomo tanto invisa ai filosofi spiritualisti e alla Chiesa.
Al rifiuto dell’antropocentrismo segue la critica verso il provvidenzialismo secondo il quale l’uomo si immagina favorito di Dio, per cui crede che l’universo sia fatto per lui e che la sua vita e i suoi casi personali stiano a cuore alla natura in generale. L’intento degli illuministi – e in particolare di Louis -François Jauffret che fondò a Parigi nel 1799 la Société des Observateurs de l’homme cui aderirono anche Cabanis e Tracy – era invece quello di studiare il comportamento degli uomini dal punto di vista morale, fisico e intellettuale facendo riferimento a dati di fatto sperimentabili e non a teorie astratte e spiritualistiche.
Todorov apprezzava molto il fatto che le ricerche condotte dai philosophes si basavano sull’idea che la chiave per interpretare il comportamento e le passioni umane fosse l’assuefazione o conformabilità: la natura fornisce all’uomo un numero limitato di facoltà che attraverso il confronto con diversi fattori come il clima – «il rapporto clima/carattere era una strada per la quale si mirava a investigare l’interazione uomo-ambiente, sottraendo per il possibile, l’essere umano a principi di trascendenza» (Gensini 1984: 36 n. 24) – o anche l’organizzazione sociale e politica, l’ambiente naturale ecc., costituisce abitudini, modi di vita, costumi e anche lingue varie e diverse. L’assuefazione è allora anche un importante elemento per la conformazione e lo sviluppo delle facoltà cognitive e linguistiche dell’uomo, le quali a loro volta dipendono in modo significativo dalle circostanze e dall’educazione.
La filosofia dell’Illuminismo ha esercitato un forte influsso sulla cultura ottocentesca nonostante le critiche e le incomprensioni di cui nel corso di questo secolo è stata anche vittima. Nell’ambito della cultura italiana uno degli autori che più si sono interessati alle idee e alle politiche del secolo dei lumi è Giacomo Leopardi che in più occasioni ha difeso e ha valorizzato la filosofia illuminista da lui del resto conosciuta in modo approfondito. Uno dei temi che più gli stava a cuore e che ha trattato a più riprese nelle sue opere è quello del rapporto mente\corpo sul quale Leopardi esprime delle posizioni del tutto in linea con quelle dei materialisti francesi che abbiamo già avuto occasione di incontrare [9]. Ad esempio, in un celebre passo del Dialogo di Tristano e di un amico, possiamo leggere che «il corpo è l’uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo» (Leopardi 1969: I, 182). In alcuni pensieri dello Zibaldone troviamo analoghe considerazioni [10]:
Seguendo il filo di queste argomentazioni Leopardi è poi giunto a formarsi una radicale concezione antispiritualista della vita che lo ha portato alla negazione del concetto di divinità e dello stesso spirito [11]:
Le analogie della filosofia leopardiana con il materialismo di Holbach o di Diderot si estendono anche ad altri argomenti, come l’animalità dell’uomo e l’origine ferina dell’umanità, il coraggio di fronte al male, l’ateismo, il rifiuto del provvidenzialismo, la concezione della natura come principio di varietà, la condizione umana considerata frutto delle circostanze e dell’assuefazione. In particolare la questione del rapporto tra l’intelligenza dell’uomo e quella degli animali stava molto a cuore a Leopardi, a più riprese è ritornato su questo tema nello Zibaldone fino ad arrivare a quel celebre passo dei Paralipomeni della Batracomiomachia – scritti tra il 1831 e l’anno della morte e pubblicati postumi da Ranieri nel 1842 a Parigi – dove è negata ogni tipo di cesura, metafisica e originaria, tra uomo e animale. Tra l’intelligenza dell’uomo e quella dell’animale c’è solo una differenza quantitativa (di maggiore o minore estensione) e non qualitativa, entrambe si annullano con la morte:
Leopardi derideva la pretesa degli uomini di considerarsi superiori agli altri esseri viventi e titolari di un destino particolare, riconoscendo invece l’indifferenza della natura nei loro confronti. Egli pensava che l’uomo fosse solo di fronte all’universo e non potesse sperare in alcun aiuto particolare: si pensi al Dialogo della natura e di un islandese e alle domande che il pastore rivolge alla luna e che rimangono senza risposta nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. La verità è che tra il fine dell’uomo e della natura o dell’ordine delle cose c’è una disparità incolmabile: l’esistenza e l’esistente non sono in armonia tra loro, ma anzi in aperta contraddizione.
Anche il concetto di metafisica viene rifiutato almeno nel senso tradizionale del termine. Infatti quando Leopardi parla di metafisica non intende dei principi da ammettere al di là dell’esperienza, ma solo di un sistema di «ammissioni generali che valgono a sostegno e ragione del costruire empiristico» (Sansone 1964: 139); o di un genere filosofico che abbraccia la morale, l’ideologia la psicologia, la logica, la politica (Zib. 1317). Il concetto stesso di “a priori” o di assoluto non ha per lui ragione di essere perché «niente preesiste alle cose né forme, o idee, né necessità né ragione di essere, e di essere così o così ecc. Tutto è posteriore all’esistenza» (Zib. 1616, 3 settembre 1821). Viene respinta in questa maniera «l’idea astratta e antecedente del bene e del male, del vero e del falso, del perfetto e dell’imperfetto indipendente da tutto ciò che è» (Zib. 1791-92, 25 settembre 1821). La vicinanza con l’antinnatismo sostenuto da Locke è evidente.
Il pensiero leopardiano è fondato sul dubbio e sullo scetticismo, il dubbio è elemento essenziale del processo conoscitivo, senza di esso l’intelligenza è minima [12]:
Leopardi mostrava anche grande interesse per gli “idéologue”; il suo primo incontro con la nozione di ideologia è dovuto probabilmente al libro di Mariano Gigli, Analisi delle idee ad uso della gioventù del 1808 (Gensini 1984: 62 n. 55): uno dei testi che hanno divulgato e promosso la conoscenza di questo movimento in Italia. Leopardi è stato inoltre tra i primi a usare il termine “ideologia” insieme a Foscolo e Gioia (ivi: 31) [13]. Il concetto di “analisi” – ossia quell’operazione dell’anima con cui determiniamo gli elementi d’un’idea composta, riducendola alle idee semplici delle quali è formata – è fondamentale perché serviva a Leopardi per dimostrare che tutte le nostre conoscenze sono costituite dalle idee semplici, ossia le percezioni che riceviamo attraverso i sensi come i colori, i sapori. Queste idee semplici sono depositate nella nostra memoria ed è dall’associazione e combinazione delle idee semplici che scaturiscono le idee complesse, come l’idea di uomo e della bellezza. Di conseguenza anche le idee più astratte hanno un fondamento nell’esperienza, così come aveva detto Locke. L’analisi delle idee o ideologia insomma ci permette di capire come si sono formate le idee e come si organizza il processo conoscitivo:
Al metodo ideologico Leopardi assegnava un’importanza fondamentale per il progresso delle conoscenze umane e il superamento degli errori e dei falsi principi prodotti dalla ragione nel passato. Il fascino che l’ideologia ha avuto per Leopardi si spiega col fatto che nell’Italia della prima metà dell’Ottocento essa era
Il confronto con il materialismo settecentesco è proseguito durante tutto l’arco dell’esperienza leopardiana, fino a considerarlo «il punto più alto toccato dalla riflessione sull’uomo e sulla natura» (Timpanaro 1969: 213) e diventando una componente importante del suo rifiuto dei compromessi con le ideologie della Restaurazione e «delle tentazioni di un Romanticismo spiritualistico, e neocattolico, medievaleggiante e mistico» (Binni 1969: XVII). La diffidenza nei confronti del mistero e del tenebroso cui si accompagnava il gusto per il concreto e il preciso, la polemica contro i dogmi e il trascendente che si colorava anche di note dissacranti e satiriche, la lucidità con cui sapeva guardare in faccia la realtà senza accomodarla ai propri desideri, confermano l’affinità che Leopardi sentiva con le posizioni espresse dai philosophes. E questa convergenza si ritrova nell’opera di Todorov, il quale era ben consapevole di quanto questi temi fossero ancora oggi molto sentiti anche per noi lettori del XXI secolo.
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