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Trapanesi alla pesca delle spugne in Tunisia

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2019 @ 00:35 In Migrazioni,Società | No Comments

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Trapani (ph. F. Giaccone)

 di Ninni Ravazza

I mari e la marineria trapanese hanno una ricca tradizione, confortata da notevoli refluenze economiche e culturali (arte, antropologia, iconografia), relativamente a due attività alieutiche: la pesca del tonno e quella del corallo. Della prima restano soprattutto gli splendidi esempi di archeologia industriale riscontrabili negli edifici delle antiche Tonnare; della seconda gli inestimabili tesori in parte gelosamente conservati nel locale Museo regionale “Agostino Pepoli” e in parte sparsi nelle collezioni private e pubbliche di tutto il mondo. Entrambe le attività di pesca trovano riscontri nella letteratura scientifica e demologica, e hanno assicurato ricchezza e fama alla città di Trapani e agli uomini che ad esse hanno dedicato passione, lavoro e capitali.

Ci sono però altre attività praticate nel mare trapanese, o comunque da pescatori locali, che sono rimaste sempre secondarie rispetto alle prime due, oggetto di rarissimi studi antropologici ed economici, che pure per lunghi periodi hanno avuto un ruolo importante nell’economia marinara della provincia: la pesca delle sardelle e alacce, e quella delle spugne. Qui ci occuperemo della seconda, per la quale la città di Trapani pur non essendo stata uno dei centri principali, come è avvenuto per le tonnare e i coralli, ha costituito comunque la base di armamento di nutrite flotte di pescherecci che hanno operato nei mari davanti alla sua costa e soprattutto di là del Canale, in Tunisia dove i banchi spugniferi (“algamenti”) di Sfax erano quelli più produttivi e dunque frequentati.

I quattro tipi di pesca – tonnare, coralli, spugne, pesce azzurro – vennero etichettati quali “speciali” nella Relazione periodica della Marina Mercantile avviata nel 1885 e interrotta alla fine degli anni trenta del Novecento. I riferimenti bibliografici alla pesca delle spugne sono pochissimi (riferentisi alla saggistica scientifica che comunque non le ha dato eccessivo rilievo), e la letteratura raramente ha narrato dei pescatori addetti, in questo caso ad opera di scrittori quasi esclusivamente di nazionalità ellenica, essendo la Grecia il Paese dove nei secoli si è maggiormente sviluppata questa pesca; Oppiano di Cilicia nel suo conosciutissimo poema Halieutica del II secolo le dedica alcuni versi, ma è un caso isolato.

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Velieri in partenza dal porto di Trapani diretti a Sfax per la pesca delle spugne, 1920 ca. (coll. Tonino Perrera)

Per restituire memoria alla pesca delle spugne da parte dei trapanesi ci avvarremo principalmente degli studi e delle pubblicazioni di due cari amici, storici dell’economia rispettivamente presso le Università del Salento e di Bari, Franco Mastrolia e Maurizio Gangemi, ma il protagonista assoluto di questo scritto sarà ancora una volta l’uomo che più di tutti per me ha incarnato la sapienza e la cultura del mare, il rais Mommo Solina, col quale ho condiviso ore e ore di navigazioni e attese quando era il dominus assoluto della tonnara di Bonagia e io il suo sommozzatore di fiducia. I suoi racconti e i suoi insegnamenti ancora oggi a undici anni dalla scomparsa avvenuta nel giugno 2008 sono per me l’enciclopedia del pianeta liquido. La sua narrazione è limpida, precisa nei dettagli, appassionata e affascinante. L’aspetto antropologico si mischia all’avventura e ne emerge un racconto degno dei migliori scrittori di storie di mare (penso a Stefano Carletti che nel suo splendido Naumachos, tra l’altro, ricorda i pescatori di spugne greci incontrati a Lampedusa).

Girolamo “Mommo” Solina, classe 1918, aveva nelle vene acqua salata, non sangue; già a 5 anni si nascondeva sotto la prua della barca del padre pescatore e ne usciva solo quando erano lontani da terra e il genitore non lo avrebbe potuto riportare indietro: allora si navigava a remi. Una passione enorme, quella di Mommo, che gli fece scoprire prestissimo i trucchi e le astuzie della pesca; quello era il suo mondo, e lì voleva imparare tutti i “mestieri”. Allora a 14 anni si era già abbastanza grandi da potere andare a lavorare.

«Il libretto di navigazione lo presi nel 1932, avevo solo 14 anni. Mio padre mi portò con lui a pescare le spugne a Sfax come mozzo, andavamo lì perché a Bonagia spugne ce n’erano poche e di brutta qualità. Partivamo da Trapani con una barca a vela, un Cutter che si chiamava Maria delle Grazie, lungo una quarantina di metri, circa 80 tonnellate di stazza; come equipaggio c’erano otto astaioli a ciascuno dei quali veniva assegnata una piccola barca di quattro metri e mezzo, cinque metri al massimo, poi c’erano i mezzi remaioli cioè i due marinai che vogavano sulla barchetta assegnata all’astaiolo, col quale dunque formavano un mini equipaggio; si partiva a settembre e la campagna di pesca durava quattro mesi e 15 giorni con esattezza. C’era un capo astaiolo che comandava sugli equipaggi delle barchette mentre il capitano serviva solo per la navigazione, che durava secondo il vento. Ricordo che una volta da Trapani a Sfax impiegammo 26 ore, ma anche che un’altra volta per tornare da Sfax ci mettemmo 14 giorni, era il 1935. In quell’occasione ci fermammo prima a Sousa per un paio di giorni, e poi per altri sette giorni a Pantelleria. Era una vitaccia. Partivamo a settembre e ritornavamo a gennaio, a volte anche a febbraio, in pieno inverno quando la navigazione era più pericolosa per il maltempo. All’andata, in settembre, partivamo col vento di grecale in poppa, a volte però capitava che nei pressi della Tunisia il vento girava a scirocco e allora ci ridossavamo a Capo Bon. Navigavamo solo a vista e con la bussola, e l’unica attrezzatura era il log che serviva a misurare la velocità della barca. Ma i capitani di allora erano bravissimi, non sbagliavano mai».
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Rais Mommo Solina, 1993 (ph. N. Ravazza)

La pesca delle spugne si pratica da millenni, e i metodi sono rimasti pressoché identici col trascorrere del tempo: la raccolta diretta da parte dei subacquei (tuffatori) prima in apnea (è quella descritta da Oppiano) e successivamente con lo scafandro da palombaro; lo strascico con una rete a sacco chiamata gangava, gangama o cava; l’uso della fiocina (kemekis per i greci che la inventarono) manovrata da un pescatore sulla barca condotta dai rematori; questo era il metodo usato dai pescatori trapanesi. Gli equipaggi ellenici usavano la gangava e i palombari, quelli di Torre del Greco (altro importante porto di armamento) soprattutto la cava.

La vita degli spugnari benché faticosa non era dura all’inverosimile come quella dei corallari, che spesso fuggivano dalle barche cui erano legati da contratti e anticipi di denaro, finendo per essere perseguiti quali disertori. Sulle barche delle spugne non si verificarono casi simili.

Il “mozzo” Mommo Solina fece il suo primo viaggio da spugnaro nel 1932:

«A Sfax trovammo una trentina di altre barche trapanesi, tutte a vela, le chiamavamo depositi, quelle su cui venivano caricate le barchette e gli equipaggi … mangiavamo a volontà ma ci dovevamo accontentare di quello che trovavamo; a ognuno toccava una misura di vino alla cena, poco meno di mezzo litro, il pane lo mangiavamo solo i primi giorni, poi mangiavamo gallette che ci portavamo da casa. La giornata cominciava prestissimo e finiva al tramonto del sole, senza sosta per il pranzo, mangiavamo un boccone senza smettere di lavorare. Il pranzo lo facevamo la sera, quando ci ancoravamo per la notte, pasta a volontà e qualche pesce pescato da noi stessi come i pesci Palombo, e li accompagnavamo con patate e sarde salate. La sera, quando avevamo finito di lavorare e mangiare, per l’equipaggio di cui facevo parte era sempre festa. Avevamo un capitano che portava con sé un violino, si cantava e si ballava, c’era chi giocava a carte, chi raccontava qualche romanzo, insomma ci svagavamo per un’ora o due, poi andavamo a letto, e la mattina dopo si ricominciava … già, cantavamo e ballavamo, ma eravamo tutti picciottonazzi, uomini soli, senza donne, quelle le avremmo riviste solo a Natale. Le nostre donne, almeno. In Tunisia certo c’erano i casini, ed erano tanti, qualcuno ci andava, ma il nostro cuore era sempre a casa, dalle nostre mogli, dalle fidanzate. Lettere da casa? Sì, arrivavano. C’era il sensale per ogni compagnia che armava le barche per la pesca di spugne, e c’erano le agenzie che avevano uffici in Sicilia e in Tunisia, ed erano queste che si incaricavano di fare arrivare le lettere, anche i fonogrammi. Quando arrivavamo a terra, in porto, ci consegnavano le lettere arrivate. A terra in quattro mesi ci si andava una sola volta, a Natale per due o tre giorni, si vendevano le spugne ai mercanti napoletani che poi le rivendevano in tutta Italia e soprattutto in Francia, ricordo ancora il prezzo, da 102 a 105 franchi al chilo, pagavano con moneta francese all’inizio, poi nel 1935 o ‘36 si cominciò a pagare anche con moneta italiana, ma in questi casi si trattava di commercio clandestino e per fare entrare i soldi in Italia si nascondevano nel sottofondo delle barchette. Spesso passavamo le giornate in navigazione per spostarci lungo le secche di Sfax che si estendono per oltre 40 miglia; era il capo astaiolo che sceglieva i posti di pesca e dunque ordinava al capitano gli spostamenti» [1].
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Specchiaiolo, 1984 (ph. N. Ravazza)

Il boom della pesca delle spugne in Sicilia si era avuto intorno all’anno 1887, quando un trapanese, tale Leonardo Augugliaro, di ritorno dalla Tunisia scoprì i ricchissimi banchi di Lampedusa. Da allora l’attività, che aveva conosciuto alti e bassi, riprese con maggiore frequenza; impoveritisi gli algamenti delle Pelagie, i pescatori trapanesi si impegnarono con buoni risultati a cercare nuovi banchi tra le isole Egadi, sulle secche del Canale di Sicilia e in Tunisia dove Sfax e i bassi fondali delle isole Kerkennah assicurarono ancora anni di lavoro; qui i trapanesi erano già stati fin dalla metà dell’Ottocento, pescando sempre con la fiocina.

Risale al 1861 una descrizione della pesca delle spugne proprio a Sfax, e si deve a Victor Adam che nel suo libro Viaggio d’un cacciatore nelle diverse parti del mondo scrive:

«…  alcuni giorni dopo montai sopra una di quelle barche la cui costruzione è uno dei principali rami d’industria di quel cantone, e passai dal porto di Sfax alle isole Chercheni, situate dirimpetto, in distanza di otto leghe a levante, isole fertili in olivi, orzo e datteri; ma dove mi tirava la brama di assistere alla pesca delle spugne, che abbondano in quelle acque, e delle quali quivi si fanno ogni anno esportazioni considerabili … Quando arrivai, una moltitudine di barchette leggere, già solcava per tutti i versi sotto l’elegante lor vela latina, cui gonfia senza stento il più lieve soffio del vento, un mare tranquillo e così trasparente che se ne scorge agevolmente il fondo, tappezzato dalla produzione marina di cui si tratta d’assicurarsi la conquista. Veramente parrebbe a primo slancio che qui non si avesse, come suol dirsi, che ad abbassarsi e ricogliere; ma non è affatto così; e pei novizi soprattutto più d’una speranza rimane delusa. Posto nel centro della pesca ed inchinato sul bordo della mia barca, per meglio osservare, contemplava tutti quei pescatori in corto saio, immergere nell’acque e ritirarne a mano a mano con più o men vivacità ed in mille atteggiamenti diversi le lunghe pertiche armate d’un uncino di ferro che strappa le spugne dalle rocce cui sono attaccate … Le spugne uscendo dell’acqua pruovano un moto convulsivo o fremito, il quale, impresso simultaneamente a tutte quelle masse, in apparenza così estranee ad ogni vita organica, non lascia di produrre un effetto curioso. Vanno allora coperte d’una pellicola fina, trasparente. Le preparano all’uso cui vengono destinate, seppellendole per alcuni giorni nel letame o in terra per ucciderne gli animali; le lavano poi con diligenza, per bene spurgarle dai corpi eterogenei che potessero ancora contenere, loro per tal modo togliendo l’odore infetto che esalano, senza dubbio, in conseguenza della putrefazione delle loro parti animali; ed allora possono esser date al commercio; ma, siccome si vendono a peso, alcuni pescatori, più avidi che delicati, vi reintroducono o non ne levano la sabbia che le sopraccarica, così contando di venderle più caro …».
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Elio Greco riemerge con un retone di spugne, 1975 (coll. Mario Mantia)

La presenza dei pescatori trapanesi a Sfax è attestata nel 1869 nell’Annuario scientifico ed industriale di Francesco Grispigni, Giovanni Celoria e Luigi Trevellini: «La pesca del corallo è principalmente una pesca italiana. Nella stagione estiva quasi 7000 marinari vi s’impiegano. Questa pesca esercitata sulle coste dell’Algeria, possessione francese, è rimasta fra le nostre mani. I corallieri francesi non riuscirono nella concorrenza e la superiorità rimase a noi … Quella delle spugne è quasi nuova. Alcune barche di Trapani vanno nel golfo di Sfax (Tunisia) ad esercitarla …».

Nel periodo di cui parla Mommo Solina la flotta degli spugnari era nutrita, e operava principalmente nei mari di Lampedusa e Sfax; nel 1930 la pesca era praticata prevalentemente dai pescatori del distretto di Torre del Greco (44 trabaccoli per 1.043 tonnellate di stazza con 264 uomini di equipaggio) che usavano la gangava sui fondali di Lampedusa, Sfax e della Tripolitania; da quelli del distretto di Porto Empedocle (54 gangave per 1.136 tonnellate di stazza e 270 uomini di equipaggio) impegnati a Lampedusa e Sfax; infine dai trapanesi che con 31 velieri che trasportavano le  fiocinare e 828 uomini di equipaggio pescarono 33 mila chilogrammi di spugne per un valore di 2.109.740 lire. Le spugne migliori venivano vendute soprattutto sui mercati di Sfax al prezzo di circa 100 franchi al chilo; quelle di peggiore qualità venivano portate in Italia e qui vendute a basso prezzo, in lire.

davNel 1931 da Trapani partirono alla volta di Sfax 28 velieri con le fiocinare e 729 uomini; nel 1932 furono 19 con 505 uomini e nel 1933 i velieri che facevano armamento a Trapani furono 26. La resa di pesca diminuiva in maniera preoccupante. Nel 1934 partirono da Trapani diretti a Sfax 15 velieri per una stazza complessiva di 478 tonnellate, con 431 uomini di equipaggio; l’anno successivo, il 1935, i velieri trapanesi scesero a 10 con una stazza di 381 tonnellate e 261 uomini; la discreta pesca del ’35 indusse gli armatori trapanesi a investire ancora sulle spugne, e nel 1936 i velieri diretti a Sfax furono 18 per un tonnellaggio complessivo di 555 tonnellate, con 507 uomini; nel 1937 i velieri trapanesi furono 23 con 680 uomini; negli anni 1938 e ’39 la crisi dell’industria mondiale delle spugne convinse molti armatori a cambiare impiego o a pescare nei mari vicino casa per evitare grosse spese.

Le spugne del Mediterraneo che hanno valore commerciale sono di quattro tipi: la “cavalla” o “equina” (Hippospongia equina), la “zimocca” (Euspongia zimocca), la “melati” (Euspongia officinalis mollissima), la “orecchio di elefante” (Euspongia officinalis lamella); le altre spugne presenti nei nostri mari non hanno valore commerciale e vengono chiamate volgarmente cannazzi. Pur se abbarbicata al fondale e dunque impossibilitata a fuggire, la spugna sa difendersi dalla cattura e Mommo Solina si dovette impegnare al massimo per riconoscerla:

«Le spugne si pescavano individuandole con lo specchio, ad una profondità massima di 13, 14 passi, cioè circa 25 metri, ma allora le acque erano limpide; però si trovavano anche a un metro di profondità, a seconda del periodo. Appena arrivati pescavamo al massimo a una profondità di 5 metri, cioè 20 palmi d’acqua. La spugna la riconoscevamo per un segnale che noi chiamavamo erba, che ce la faceva vedere anche se era coperta dall’alga e dal fango. Di pescatori di spugne, astaioli, naturalmente ce n’erano bravi e meno bravi. Uno bravo nell’arco di una campagna prendeva al massimo 120 chili di spugne pulite e asciutte. Si veniva pagati a pescato, c’erano barche che lavoravano con dieci, dodici, anche tredici astaioli, come accadde una volta a me, tutti soci, e altre invece che lavoravano a gruppi di due o tre; si lavorava in conserva cioè il pescato del gruppo, più o meno numeroso, veniva pesato e venduto e il ricavato diviso all’interno del gruppo stesso, levate le spese del vitto, del viaggio, e anche dei remaioli che avevano uno stipendio fisso per l’intera campagna».
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Palombari greci alla pesca di spugne (Stratis Liadellis su-http-venets-wordpress-com)

In pratica la barca-madre (ammiraglia), Cutter o Goletta o ancora Schifazzo (meno veloce ma più capiente), trasportava uomini e barchette per la pesca e fungeva da base operativa e deposito delle spugne; i pescatori – astaioli – raccoglievano con la fiocina le spugne avvistate attraverso lo specchio (cilindro metallico col fondo di vetro); la barchetta per la pesca era condotta da un remaiolo (governava i due remi) o due mezzi remaioli (un remo ciascuno); la squadra dei pescatori era coordinata dal capo astaiolo che aveva anche il compito di scegliere la zona di pesca.

Mommo Solina, il futuro grande rais, iniziò la carriera di spugnaro dalla gavetta:

«Nel mio primo imbarco lavavo le pentole e asciugavo i piatti, era uso che le pentole le lavasse tutte il mozzo; i piatti no, toccavano ai mezzi remaioli di turno: facevano turni di una settimana ciascuno. Io pelavo le patate, preparavo da mangiare. La flotta era composta da tredici barchette più l’ammiraglia, e su ogni barca c’erano due o tre persone; al massimo noi siamo stati in ventisei. Su alcune barchette si andava in tre: un astaiolo e due mezzi-rematori, su altre ci andavano solo il rematore e l’astaiolo. Il mezzo-remaiolo, così chiamavamo il marinaio che governava un solo remo, guadagnava 600 lire a stagione, il remaiolo che da solo governava la barca guadagnava invece mille, millecento lire più un regalo di cinquanta, cento lire in base alla pesca che si faceva».

Qual era la “resa” di un bravo pescatore in quei tempi, a Sfax? Mommo Solina ricorda le difficoltà di quel lavoro:

«Dipende, se c’era mare sporco, con l’erba, insomma se c’era stata troppa bonaccia e il fondale era pieno di alghe, un chilo, massimo un chilo e duecento grammi di spugne pulite al giorno. Le pulivamo in barca le spugne, riuscivamo a evitare il puzzo tremendo che emanano fuori dall’acqua, le mettevamo in grosse reti a mollo in alcune vasche fatte apposta, e poi la mattina l’astaiolo, non il rematore, le puliva col coltello, poi si infilavano in una sagoletta e si portavano sulla riva ad asciugarle. Quando ci sono andato io c’era uno della ciurma, Salvatore si chiamava, che non veniva a mare a pescare ma stava sulla nave ammiraglia ed era addetto proprio ad asciugare le spugne e a preparare il pranzo per i pescatori al loro ritorno. Le spugne nel basso fondale si prendevano con l’asta e la fiocina; quando invece si lavorava a maggiore profondità, oltre le dieci braccia, avevamo la carciofa, una specie di fiocina pesante 5/6 chili attaccata a una sagola che veniva calata sulla spugna individuata con lo specchio, e una volta che le punte della fiocina erano penetrate sulla spugna si tirava tutto a bordo. Ma era raro che si usasse questo attrezzo, accadeva solo quando c’era mare calmo e acqua limpida. Sembra difficile, ma riuscivamo a prenderle anche così, a molta profondità. La bravura dell’astaiolo stava proprio nel riconoscere le spugne buone da quelle fasulle, i cannazzi. Mi ricordo che nel 1932, il primo anno che pescai a Sfax, andavo da mio padre Peppe Solina, che era uno dei migliori astaioli assieme a Ciccio Di Girolamo, davvero i primi spugnari della provincia, bonagioto mio padre e trapanese Ciccio, loro erano compari, mi avvicinavo a mio padre e gli dicevo fammene vedere una, insegnami a riconoscere le spugne anche in mari diversi, dove le spugne cambiano colore col fondale, perché ogni posto ha spugne di un colore diverso. Ma mio padre per risposta mi gridava si vedono, si vedono, vattene! datti da fare. Non me le ha fatte vedere mai, ho imparato da solo, e sono diventato bravo anch’io, forse è stato meglio …».
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Pesca delle spugne con la fiocina alla fine dell’800 (da La pesca delle spugne di Langella)

Mommo Solina è stato sempre sicuro delle sue capacità e desideroso di emergere; fu così quando nel 1979 sostituì l’anziano rais di Bonagia Sarino Renda ammalatosi di cuore … “Vossia se la sente?” gli chiese il grande vecchio delle tonnare trapanesi, Nino Castiglione sr. “Non c’è problema, vengo” gli rispose l’allora sottorais … e in poco tempo divenne il più bravo rais siciliano. Lo stesso accadde a Sfax, dopo solo un anno di apprendistato:

«Ho cominciato nel 1932 come mozzo e di solito andavo in barca con mio padre, poi dal 1933 al ‘37 però sono diventato astaiolo. Nessuno mi ha promosso sul campo, sono stato io a insistere perché mi facessero provare, mi dessero fiducia. Mio padre non voleva perché all’armatore un astaiolo – e quindi una barca assegnata alla sua responsabilità – veniva a costare in tutto seimila, seimilacinquecento lire a stagione, tra remaiolo, spese di vitto, attrezzatura, stipendio. Dunque quella barca, quell’astaiolo, doveva produrre ben più delle 6.500 lire. Anche mia madre insisteva perché facessi il remaiolo, senza responsabilità e con uno stipendio sicuro, minore dell’astaiolo ma assicurato qualunque fosse la pesca. Ma a remare non ci sono andato, volevo fare l’astaiolo e l’ho fatto. Però per il primo esperimento da solo, non in compagnia, per conto mio, senza mettermi in società con gli altri, guadagnando in percentuale sul mio solo pescato. Così a Natale la flotta è andata a terra, a Sfax, e guarda caso le spugne più belle e più numerose le avevo pescate io, ne ho consegnate 47 chili e mezzo contro una media di 42 chili e mezzo degli altri, e allora mio padre, furbo! mi fece entrare nella società. Ma a perderci quella volta fui io. Però, ero diventato l’astaiolo di punta della flotta».
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Attrezzi per la pesca delle spugne (da La pesca delle spugne di Langella)

La vita lontano da casa, sempre in mezzo al mare, ogni tanto riservava avvenimenti particolari, forse un modo per spezzare la monotonia delle giornate sempre uguali:

 «L’anno che ero mozzo, il 1932 – ricorda Mommo Solina – bordeggiavamo con un altro veliero vicino, il Bande Nere, un bel Cutter trapanese, il capitano era amico del nostro, lo chiamavano Marco u’ surdo, quello mio era Peppe Salone, sposato con una donna favignanese. Mentre bordeggiavamo col vento chiamato gabbisano, cioè il libeccio, i due capitani hanno finito col fare a gara, a regatare, erano barche molto lunghe che riuscivano a raggiungere anche i dieci nodi, dodici di bolina. Il mio capitano grida a Marco chi ffai?, insomma lo dileggia perché lo stavamo sorpassando. Marco si arrabbiò molto e mentre stavamo girando di bordo, lui ci venne di dietro e ci speronò a poppa, in quella parte che chiamavamo ‘a carrozza cammara, dove avevamo le botti di acqua; ci distrusse sette scalmi, ci spezzò tutte le aste per le spugne che erano legate a poppa, insomma ci ha messo fuori uso, il bompresso del Bande Nere si infilò nella nostra randa. Il mio capitano entrò come una furia in cabina per prendere il fucile, gli voleva sparare, io mi misi davanti gridando di non farlo, mentre Marco u’ Surdo sale sul suo bompresso, taglia l’armato della randa e ci lascia in balia delle onde, ‘stu carogna … Siamo dovuti rientrare in porto a Sfax, e abbiamo perduto cinque giorni per rimettere tutte le cose a posto. Quanta paura!  La barca era praticamente fuori uso, il vento era forte, io mi tagliai la gamba correndo da poppa a prua per alzare le vele e mio padre si preoccupò molto per la mia ferita. Lui allora era il capo degli astaioli. Se qualcuno di noi si sentiva male, dovevamo abbandonare la zona di pesca per riportarlo a Sfax dove c’erano medici francesi e anche italiani».

L’epopea dei trapanesi alla pesca in Tunisia delle spugne terminò alla fine degli anni Trenta:

«Poi arrivò la guerra, la seconda guerra mondiale, e la pesca delle spugne per gli italiani è praticamente finita – ricorda ancora Mommo Solina –. Nel 1948 io con i miei fratelli avevamo pensato di riprendere, di andare nuovamente a Sfax, avevamo trovato un’agenzia che avrebbe fatto da tramite e intanto qualcuno aveva ricominciato a pescare, ma poi abbiamo visto che non era il caso di farlo, c’erano difficoltà per noi italiani in Tunisia, e soprattutto il mercato non era più quello di una volta».
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L’imprenditore Massimo Sella sul caicco per la pesca delle spugne (Fondazione Sella)

La migliore fiocina trapanese abbandonò quel mestiere e si dedicò anima e corpo alla tonnara, dove ancora una volta divenne il più bravo di tutti.

Dalla fine dell’Ottocento accanto alla pesca con i metodi tradizionali – gangava e fiocina – si era affiancata quella “moderna” con i palombari. Nata in Grecia, questa attività si era poi diffusa in tutto il Mediterraneo, e furono sempre di più gli armatori che impiegavano velieri e caicchi imbarcando squadre di palombari. Il lavoro era durissimo e pericoloso: ancora gli studi sugli effetti dell’aria respirata sotto pressione non erano decollati, e moltissimi palombari venivano colpiti dalla malattia, cioè l’embolìa, e restavano paralizzati o inabili. Trapani non ha mai avuto una tradizione in questo senso, ed era un avvenimento che richiamava curiosi e appassionati l’arrivo in porto dei caicchi greci con a bordo i palombari per fare rifornimento nel corso delle loro campagne di pesca sui banchi delle isole Egadi e di San Vito lo Capo. Questi ricordi personali risalgono agli anni dal 1959 a tutto il ’60.

C’è stato un periodo, tuttavia, in cui a Trapani furono pescate grandi quantità di spugne da parte dei sommozzatori (non più palombari, ma l’evoluzione dell’immersione con autorespiratore ad aria). A metà degli anni ’70 del secolo trascorso si trasferì sull’isola di Levanzo un subacqueo professionista napoletano, che aveva già pescato il corallo con i pionieri di questo lavoro affascinante e pericoloso. Elio Greco, capitano di lungo corso e provetto subacqueo, dapprima cercò il corallo nelle acque delle Egadi ma senza risultati, poi si dedicò all’impiego che nessuno a Trapani aveva praticato: la pesca delle spugne direttamente sul fondale, proprio come facevano i tuffatori, sommozzatori ante litteram, già prima dell’era cristiana.

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Palombaro impegnato nella pesca delle spugne (da La pesca delle spugne di Langella)

Anche questo un impegno duro, faticoso, che richiedeva una grande prestanza fisica e tantissimo sacrificio. Oppiano di Cilicia nel II secolo sottolinea quanto fosse ingrato quel lavoro: «… Ora quei, che spugne / Taglian, non penso ch’altro giuoco sia, / E battaglia peggior, né più infelice / Agli uomini opra, né più di pietate …». Oppiano descrive la tecnica di pesca con prosa pomposa ma con grande precisione:

 «… Con lunga fune sopra mezza coscia / Uomo si cinge, e leva ad ambe mani: / Con l’una intorno ghermendo pesante / Fusione di piombo, e colla destra / Mano stende un’acuta e grossa falce; / E serba in le ganasce sotto bocca / Candido grasso […] / Salta nell’onde tempestose e fiere / E ‘l tira giuso, d’andar là bramoso; / L’impeto del canuto e grave piombo. / Ma egli giù avanzatosi nel fondo, / L’unto ne sputa, e quello forte lustra […] / … egli agli scogli / Fatto vicino, scorge allor le spugne […] / Ed assalendo tosto colla falce / Taglia con grassa e con robusta mano / Qual mietitore, delle spugne il corpo …».

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Georgios Haggi Statti nel 1913 (da Mondo Sommerso, dicembre 1959, propr. N.R.)

Il subacqueo di Oppiano agiva con la medesima tecnica adoperata dal pescatore di spugne greco Georgios Haggi Statti che il 16 luglio 1913 nell’isola di Scarpanto, in mar Egeo, recuperò l’ancora della nave da guerra italiana “Regina Margherita” perduta su un fondale di 77 metri, stabilendo un record mondiale di immersione che durò diversi decenni. Haggi Statti si lasciava trasportare sott’acqua da una pietra piatta che pesava 14,5 chilogrammi, usata anche come timone per dirigere l’immersione; al termine dell’apnea l’uomo veniva tirato in superficie dagli aiutanti tramite la sagola collegata al suo polso e alla pietra. Elio Greco non si immergeva in apnea ma con i moderni autorespiratori, e la visione subacquea era agevolata dalla maschera invece che dall’olio tenuto in bocca e lasciato fuoriuscire sul fondo per rendere trasparente l’acqua; per il resto anche nel suo caso – come avviene sovente nelle storie di mare – il tempo sembrava essersi fermato. Sulla barca di Elio si alternarono diversi altri sommozzatori che poi abbandonarono l’impiego per la fatica del lavoro e il pessimo carattere del capitano, che comunque per cinque o sei anni portò a terra e vendette sul mercato di Mazara del Vallo quintali di belle spugne che poi venivano distribuite in tutta Italia. Successivamente Elio Greco tornò a pescare il corallo sul Banco Scherchi, e anche lì fu tra i migliori.

Intorno alla pesca delle spugne e alla vita dei pescatori non è cresciuta una letteratura che non fosse quella scientifica (comunque non vastissima); mi piace qui ricordare Il pescatore di spugne che nel 1952 segnò l’esordio dello scrittore greco Nikos Kàsdaglis: nel lungo racconto si narra del tuffatore Thodorìs che dopo essere scampato al pescecane si ammalò della “malattia del palombaro”, l’embolìa crudele che rende inerti gli arti. Ripudiato dalla moglie e dai parenti, il ragazzo tornò a immergersi con lo scafandro perché in profondità la sua menomazione spariva … «Sopra videro il suo manometro giocare impazzito … Presto tiratelo su. La manichetta si è rotta …Corsero all’argano, ma Thodorìs era molto lontano». Come Martin Eden il palombaro si era lasciato affondare in silenzio.

«La pesca delle spugne non ha avuto una storia, tradizioni, cultura, come la tonnara o il corallo» mi diceva Mommo Solina seduto a poppa della muciara, poi si accendeva l’ennesima sigaretta della giornata e sottovoce commentava: «Era solo un mestiere duro, ma per chi aveva vista buona e volontà c’era da vivere. Bisognava essere bravi però, se no una campagna di pesca poteva anche essere la rovina dell’armatore, a volte non si recuperavano nemmeno le spese, capitava».
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
[1] Canzone degli spugnari di Sfax (raccolta dalla voce del rais Mommo Solina l’11 maggio 1987)
 Ah la mente mia che sempre pensa/ Haio perso lu tono di parlari/ ‘sta cosa me la pigghiu in penitenza/ su qquattru misi che ju haio a ‘ffari/ Parlari ju di Spagasi sentìa/ sentìa lamentari a ‘ttanta ggenti/ chiedu lu travagghiu ci ricìa/ sù qquattru misi di divertimenti/ Ora che mi passau sta fantasia/ pruvai lu mari cu’ vventu e currenti/ Spagasi n’atra vota vire a ‘mmia/ quannu pi ‘tterra vannu i bastimenti/ E cc’è di cchiù, vi parlo di me parrinu Andria/  chi nnova si la fici la ‘ncerata/ assira vitti quasi chi chiangia/ dicennu ‘un ce la sbordo sta ‘nvernata.
 Ah la mia mente che non si ferma mai/ ho perso la forza di parlare/ questa cosa la prendo come un castigo/ sono quattro mesi che devo fare/ Io sentivo parlare di Sfax/ sentivo lamentare tanta gente/ chiedo di lavorare gli dicevo/ sono quattro mesi di divertimento/ Ora mi è passata questa voglia/ ho conosciuto il mare con vento e correnti/ Sfax la prossima volta mi vedrà di nuovo/ quando le navi cammineranno per la strada/ E c’è di più, vi narro del mio padrino Andrea/ che [per venire a Sfax] si era comprato una mantella impermeabile nuova/ ieri sera ‘ho visto e quasi piangeva/ dicendo non ce la faccio a superare questo inverno.
Frammenti dei ricordi del rais Solina sulla pesca in Tunisia sono pubblicati in Diario di Tonnara; questo scritto integra e amplia i capitoli in questione.
Riferimenti bibliografici
Carletti Stefano, Naumachos, Mursia, Torino, 1971
Falangola Renata, Un greco col diavolo in corpo, in “Mondo Sommerso”, dicembre 1959
Gangemi Maurizio, La pesca nel Mezzogiorno tra Otto e Novecento: tonnare, pesci, spugne e coralli, Cacucci Editore, Bari, 2011
Kàsdaglis Nikos, Il pescatore di spugne in “Nuove Effemeridi”, anno IV n. 14, 1991/II: 13-25.
Langella Aniello, Le pesca delle spugne, in www.vesuvio.com
Mastrolia Franco Antonio, La pesca delle spugne nel Mediterraneo (1900 – 1939), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016
Oppiano di Cilicia, Della pesca e della caccia, traduzione dal greco di Anton Maria Salvini, G. Daelli e C. Editori, Milano, 1864, qui nella ristampa anastatica di Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese, 1975
Ninni Ravazza, Diario di tonnara, Magenes, Milano, 2005 e 2019.
Idem, Il sale e il sangue, Magenes, Milano, 2007.

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Ninni Ravazza, giornalista e scrittore, è stato sommozzatore delle tonnare siciliane e corallaro. Ha organizzato convegni e mostre fotografiche sulla cultura del mare e i suoi protagonisti. Autore di saggi e libri sulla vita dei pescatori di tonni e di corallo, per l’Editore Magenes ha scritto: Corallari (2004); Diario di tonnara (2005 e 2019); Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni (2007); Il mare e lo specchio. San Vito lo Capo, memorie dal Mediterraneo (2009); Sirene di Sicilia (2010; finalista al “Premio Sanremo Mare” 2011); Il mare era bellissimo. Di uomini, barche, pesci e altre cose (2013); Il Signore delle tonnare. Nino Castiglione (2014); San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore (2017); Storie di Corallari (2019). Dal libro “Diario di tonnara” è stato tratto l’omonimo film diretto da Giovanni Zoppeddu, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà, in selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma 2018, di cui l’Autore è protagonista e voce narrante. È autore di numerosi altri studi dedicati al mare, per i quali ha vinto premi nazionali e internazionali.

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