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Trapanesi alla pesca delle spugne in Tunisia
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2019 @ 00:35 In Migrazioni,Società | No Comments
di Ninni Ravazza
I mari e la marineria trapanese hanno una ricca tradizione, confortata da notevoli refluenze economiche e culturali (arte, antropologia, iconografia), relativamente a due attività alieutiche: la pesca del tonno e quella del corallo. Della prima restano soprattutto gli splendidi esempi di archeologia industriale riscontrabili negli edifici delle antiche Tonnare; della seconda gli inestimabili tesori in parte gelosamente conservati nel locale Museo regionale “Agostino Pepoli” e in parte sparsi nelle collezioni private e pubbliche di tutto il mondo. Entrambe le attività di pesca trovano riscontri nella letteratura scientifica e demologica, e hanno assicurato ricchezza e fama alla città di Trapani e agli uomini che ad esse hanno dedicato passione, lavoro e capitali.
Ci sono però altre attività praticate nel mare trapanese, o comunque da pescatori locali, che sono rimaste sempre secondarie rispetto alle prime due, oggetto di rarissimi studi antropologici ed economici, che pure per lunghi periodi hanno avuto un ruolo importante nell’economia marinara della provincia: la pesca delle sardelle e alacce, e quella delle spugne. Qui ci occuperemo della seconda, per la quale la città di Trapani pur non essendo stata uno dei centri principali, come è avvenuto per le tonnare e i coralli, ha costituito comunque la base di armamento di nutrite flotte di pescherecci che hanno operato nei mari davanti alla sua costa e soprattutto di là del Canale, in Tunisia dove i banchi spugniferi (“algamenti”) di Sfax erano quelli più produttivi e dunque frequentati.
I quattro tipi di pesca – tonnare, coralli, spugne, pesce azzurro – vennero etichettati quali “speciali” nella Relazione periodica della Marina Mercantile avviata nel 1885 e interrotta alla fine degli anni trenta del Novecento. I riferimenti bibliografici alla pesca delle spugne sono pochissimi (riferentisi alla saggistica scientifica che comunque non le ha dato eccessivo rilievo), e la letteratura raramente ha narrato dei pescatori addetti, in questo caso ad opera di scrittori quasi esclusivamente di nazionalità ellenica, essendo la Grecia il Paese dove nei secoli si è maggiormente sviluppata questa pesca; Oppiano di Cilicia nel suo conosciutissimo poema Halieutica del II secolo le dedica alcuni versi, ma è un caso isolato.
Per restituire memoria alla pesca delle spugne da parte dei trapanesi ci avvarremo principalmente degli studi e delle pubblicazioni di due cari amici, storici dell’economia rispettivamente presso le Università del Salento e di Bari, Franco Mastrolia e Maurizio Gangemi, ma il protagonista assoluto di questo scritto sarà ancora una volta l’uomo che più di tutti per me ha incarnato la sapienza e la cultura del mare, il rais Mommo Solina, col quale ho condiviso ore e ore di navigazioni e attese quando era il dominus assoluto della tonnara di Bonagia e io il suo sommozzatore di fiducia. I suoi racconti e i suoi insegnamenti ancora oggi a undici anni dalla scomparsa avvenuta nel giugno 2008 sono per me l’enciclopedia del pianeta liquido. La sua narrazione è limpida, precisa nei dettagli, appassionata e affascinante. L’aspetto antropologico si mischia all’avventura e ne emerge un racconto degno dei migliori scrittori di storie di mare (penso a Stefano Carletti che nel suo splendido Naumachos, tra l’altro, ricorda i pescatori di spugne greci incontrati a Lampedusa).
Girolamo “Mommo” Solina, classe 1918, aveva nelle vene acqua salata, non sangue; già a 5 anni si nascondeva sotto la prua della barca del padre pescatore e ne usciva solo quando erano lontani da terra e il genitore non lo avrebbe potuto riportare indietro: allora si navigava a remi. Una passione enorme, quella di Mommo, che gli fece scoprire prestissimo i trucchi e le astuzie della pesca; quello era il suo mondo, e lì voleva imparare tutti i “mestieri”. Allora a 14 anni si era già abbastanza grandi da potere andare a lavorare.
La pesca delle spugne si pratica da millenni, e i metodi sono rimasti pressoché identici col trascorrere del tempo: la raccolta diretta da parte dei subacquei (tuffatori) prima in apnea (è quella descritta da Oppiano) e successivamente con lo scafandro da palombaro; lo strascico con una rete a sacco chiamata gangava, gangama o cava; l’uso della fiocina (kemekis per i greci che la inventarono) manovrata da un pescatore sulla barca condotta dai rematori; questo era il metodo usato dai pescatori trapanesi. Gli equipaggi ellenici usavano la gangava e i palombari, quelli di Torre del Greco (altro importante porto di armamento) soprattutto la cava.
La vita degli spugnari benché faticosa non era dura all’inverosimile come quella dei corallari, che spesso fuggivano dalle barche cui erano legati da contratti e anticipi di denaro, finendo per essere perseguiti quali disertori. Sulle barche delle spugne non si verificarono casi simili.
Il “mozzo” Mommo Solina fece il suo primo viaggio da spugnaro nel 1932:
Il boom della pesca delle spugne in Sicilia si era avuto intorno all’anno 1887, quando un trapanese, tale Leonardo Augugliaro, di ritorno dalla Tunisia scoprì i ricchissimi banchi di Lampedusa. Da allora l’attività, che aveva conosciuto alti e bassi, riprese con maggiore frequenza; impoveritisi gli algamenti delle Pelagie, i pescatori trapanesi si impegnarono con buoni risultati a cercare nuovi banchi tra le isole Egadi, sulle secche del Canale di Sicilia e in Tunisia dove Sfax e i bassi fondali delle isole Kerkennah assicurarono ancora anni di lavoro; qui i trapanesi erano già stati fin dalla metà dell’Ottocento, pescando sempre con la fiocina.
Risale al 1861 una descrizione della pesca delle spugne proprio a Sfax, e si deve a Victor Adam che nel suo libro Viaggio d’un cacciatore nelle diverse parti del mondo scrive:
La presenza dei pescatori trapanesi a Sfax è attestata nel 1869 nell’Annuario scientifico ed industriale di Francesco Grispigni, Giovanni Celoria e Luigi Trevellini: «La pesca del corallo è principalmente una pesca italiana. Nella stagione estiva quasi 7000 marinari vi s’impiegano. Questa pesca esercitata sulle coste dell’Algeria, possessione francese, è rimasta fra le nostre mani. I corallieri francesi non riuscirono nella concorrenza e la superiorità rimase a noi … Quella delle spugne è quasi nuova. Alcune barche di Trapani vanno nel golfo di Sfax (Tunisia) ad esercitarla …».
Nel periodo di cui parla Mommo Solina la flotta degli spugnari era nutrita, e operava principalmente nei mari di Lampedusa e Sfax; nel 1930 la pesca era praticata prevalentemente dai pescatori del distretto di Torre del Greco (44 trabaccoli per 1.043 tonnellate di stazza con 264 uomini di equipaggio) che usavano la gangava sui fondali di Lampedusa, Sfax e della Tripolitania; da quelli del distretto di Porto Empedocle (54 gangave per 1.136 tonnellate di stazza e 270 uomini di equipaggio) impegnati a Lampedusa e Sfax; infine dai trapanesi che con 31 velieri che trasportavano le fiocinare e 828 uomini di equipaggio pescarono 33 mila chilogrammi di spugne per un valore di 2.109.740 lire. Le spugne migliori venivano vendute soprattutto sui mercati di Sfax al prezzo di circa 100 franchi al chilo; quelle di peggiore qualità venivano portate in Italia e qui vendute a basso prezzo, in lire.
Nel 1931 da Trapani partirono alla volta di Sfax 28 velieri con le fiocinare e 729 uomini; nel 1932 furono 19 con 505 uomini e nel 1933 i velieri che facevano armamento a Trapani furono 26. La resa di pesca diminuiva in maniera preoccupante. Nel 1934 partirono da Trapani diretti a Sfax 15 velieri per una stazza complessiva di 478 tonnellate, con 431 uomini di equipaggio; l’anno successivo, il 1935, i velieri trapanesi scesero a 10 con una stazza di 381 tonnellate e 261 uomini; la discreta pesca del ’35 indusse gli armatori trapanesi a investire ancora sulle spugne, e nel 1936 i velieri diretti a Sfax furono 18 per un tonnellaggio complessivo di 555 tonnellate, con 507 uomini; nel 1937 i velieri trapanesi furono 23 con 680 uomini; negli anni 1938 e ’39 la crisi dell’industria mondiale delle spugne convinse molti armatori a cambiare impiego o a pescare nei mari vicino casa per evitare grosse spese.
Le spugne del Mediterraneo che hanno valore commerciale sono di quattro tipi: la “cavalla” o “equina” (Hippospongia equina), la “zimocca” (Euspongia zimocca), la “melati” (Euspongia officinalis mollissima), la “orecchio di elefante” (Euspongia officinalis lamella); le altre spugne presenti nei nostri mari non hanno valore commerciale e vengono chiamate volgarmente cannazzi. Pur se abbarbicata al fondale e dunque impossibilitata a fuggire, la spugna sa difendersi dalla cattura e Mommo Solina si dovette impegnare al massimo per riconoscerla:
In pratica la barca-madre (ammiraglia), Cutter o Goletta o ancora Schifazzo (meno veloce ma più capiente), trasportava uomini e barchette per la pesca e fungeva da base operativa e deposito delle spugne; i pescatori – astaioli – raccoglievano con la fiocina le spugne avvistate attraverso lo specchio (cilindro metallico col fondo di vetro); la barchetta per la pesca era condotta da un remaiolo (governava i due remi) o due mezzi remaioli (un remo ciascuno); la squadra dei pescatori era coordinata dal capo astaiolo che aveva anche il compito di scegliere la zona di pesca.
Mommo Solina, il futuro grande rais, iniziò la carriera di spugnaro dalla gavetta:
Qual era la “resa” di un bravo pescatore in quei tempi, a Sfax? Mommo Solina ricorda le difficoltà di quel lavoro:
Mommo Solina è stato sempre sicuro delle sue capacità e desideroso di emergere; fu così quando nel 1979 sostituì l’anziano rais di Bonagia Sarino Renda ammalatosi di cuore … “Vossia se la sente?” gli chiese il grande vecchio delle tonnare trapanesi, Nino Castiglione sr. “Non c’è problema, vengo” gli rispose l’allora sottorais … e in poco tempo divenne il più bravo rais siciliano. Lo stesso accadde a Sfax, dopo solo un anno di apprendistato:
La vita lontano da casa, sempre in mezzo al mare, ogni tanto riservava avvenimenti particolari, forse un modo per spezzare la monotonia delle giornate sempre uguali:
«L’anno che ero mozzo, il 1932 – ricorda Mommo Solina – bordeggiavamo con un altro veliero vicino, il Bande Nere, un bel Cutter trapanese, il capitano era amico del nostro, lo chiamavano Marco u’ surdo, quello mio era Peppe Salone, sposato con una donna favignanese. Mentre bordeggiavamo col vento chiamato gabbisano, cioè il libeccio, i due capitani hanno finito col fare a gara, a regatare, erano barche molto lunghe che riuscivano a raggiungere anche i dieci nodi, dodici di bolina. Il mio capitano grida a Marco chi ffai?, insomma lo dileggia perché lo stavamo sorpassando. Marco si arrabbiò molto e mentre stavamo girando di bordo, lui ci venne di dietro e ci speronò a poppa, in quella parte che chiamavamo ‘a carrozza cammara, dove avevamo le botti di acqua; ci distrusse sette scalmi, ci spezzò tutte le aste per le spugne che erano legate a poppa, insomma ci ha messo fuori uso, il bompresso del Bande Nere si infilò nella nostra randa. Il mio capitano entrò come una furia in cabina per prendere il fucile, gli voleva sparare, io mi misi davanti gridando di non farlo, mentre Marco u’ Surdo sale sul suo bompresso, taglia l’armato della randa e ci lascia in balia delle onde, ‘stu carogna … Siamo dovuti rientrare in porto a Sfax, e abbiamo perduto cinque giorni per rimettere tutte le cose a posto. Quanta paura! La barca era praticamente fuori uso, il vento era forte, io mi tagliai la gamba correndo da poppa a prua per alzare le vele e mio padre si preoccupò molto per la mia ferita. Lui allora era il capo degli astaioli. Se qualcuno di noi si sentiva male, dovevamo abbandonare la zona di pesca per riportarlo a Sfax dove c’erano medici francesi e anche italiani».
L’epopea dei trapanesi alla pesca in Tunisia delle spugne terminò alla fine degli anni Trenta:
La migliore fiocina trapanese abbandonò quel mestiere e si dedicò anima e corpo alla tonnara, dove ancora una volta divenne il più bravo di tutti.
Dalla fine dell’Ottocento accanto alla pesca con i metodi tradizionali – gangava e fiocina – si era affiancata quella “moderna” con i palombari. Nata in Grecia, questa attività si era poi diffusa in tutto il Mediterraneo, e furono sempre di più gli armatori che impiegavano velieri e caicchi imbarcando squadre di palombari. Il lavoro era durissimo e pericoloso: ancora gli studi sugli effetti dell’aria respirata sotto pressione non erano decollati, e moltissimi palombari venivano colpiti dalla malattia, cioè l’embolìa, e restavano paralizzati o inabili. Trapani non ha mai avuto una tradizione in questo senso, ed era un avvenimento che richiamava curiosi e appassionati l’arrivo in porto dei caicchi greci con a bordo i palombari per fare rifornimento nel corso delle loro campagne di pesca sui banchi delle isole Egadi e di San Vito lo Capo. Questi ricordi personali risalgono agli anni dal 1959 a tutto il ’60.
C’è stato un periodo, tuttavia, in cui a Trapani furono pescate grandi quantità di spugne da parte dei sommozzatori (non più palombari, ma l’evoluzione dell’immersione con autorespiratore ad aria). A metà degli anni ’70 del secolo trascorso si trasferì sull’isola di Levanzo un subacqueo professionista napoletano, che aveva già pescato il corallo con i pionieri di questo lavoro affascinante e pericoloso. Elio Greco, capitano di lungo corso e provetto subacqueo, dapprima cercò il corallo nelle acque delle Egadi ma senza risultati, poi si dedicò all’impiego che nessuno a Trapani aveva praticato: la pesca delle spugne direttamente sul fondale, proprio come facevano i tuffatori, sommozzatori ante litteram, già prima dell’era cristiana.
Anche questo un impegno duro, faticoso, che richiedeva una grande prestanza fisica e tantissimo sacrificio. Oppiano di Cilicia nel II secolo sottolinea quanto fosse ingrato quel lavoro: «… Ora quei, che spugne / Taglian, non penso ch’altro giuoco sia, / E battaglia peggior, né più infelice / Agli uomini opra, né più di pietate …». Oppiano descrive la tecnica di pesca con prosa pomposa ma con grande precisione:
«… Con lunga fune sopra mezza coscia / Uomo si cinge, e leva ad ambe mani: / Con l’una intorno ghermendo pesante / Fusione di piombo, e colla destra / Mano stende un’acuta e grossa falce; / E serba in le ganasce sotto bocca / Candido grasso […] / Salta nell’onde tempestose e fiere / E ‘l tira giuso, d’andar là bramoso; / L’impeto del canuto e grave piombo. / Ma egli giù avanzatosi nel fondo, / L’unto ne sputa, e quello forte lustra […] / … egli agli scogli / Fatto vicino, scorge allor le spugne […] / Ed assalendo tosto colla falce / Taglia con grassa e con robusta mano / Qual mietitore, delle spugne il corpo …».
Il subacqueo di Oppiano agiva con la medesima tecnica adoperata dal pescatore di spugne greco Georgios Haggi Statti che il 16 luglio 1913 nell’isola di Scarpanto, in mar Egeo, recuperò l’ancora della nave da guerra italiana “Regina Margherita” perduta su un fondale di 77 metri, stabilendo un record mondiale di immersione che durò diversi decenni. Haggi Statti si lasciava trasportare sott’acqua da una pietra piatta che pesava 14,5 chilogrammi, usata anche come timone per dirigere l’immersione; al termine dell’apnea l’uomo veniva tirato in superficie dagli aiutanti tramite la sagola collegata al suo polso e alla pietra. Elio Greco non si immergeva in apnea ma con i moderni autorespiratori, e la visione subacquea era agevolata dalla maschera invece che dall’olio tenuto in bocca e lasciato fuoriuscire sul fondo per rendere trasparente l’acqua; per il resto anche nel suo caso – come avviene sovente nelle storie di mare – il tempo sembrava essersi fermato. Sulla barca di Elio si alternarono diversi altri sommozzatori che poi abbandonarono l’impiego per la fatica del lavoro e il pessimo carattere del capitano, che comunque per cinque o sei anni portò a terra e vendette sul mercato di Mazara del Vallo quintali di belle spugne che poi venivano distribuite in tutta Italia. Successivamente Elio Greco tornò a pescare il corallo sul Banco Scherchi, e anche lì fu tra i migliori.
Intorno alla pesca delle spugne e alla vita dei pescatori non è cresciuta una letteratura che non fosse quella scientifica (comunque non vastissima); mi piace qui ricordare Il pescatore di spugne che nel 1952 segnò l’esordio dello scrittore greco Nikos Kàsdaglis: nel lungo racconto si narra del tuffatore Thodorìs che dopo essere scampato al pescecane si ammalò della “malattia del palombaro”, l’embolìa crudele che rende inerti gli arti. Ripudiato dalla moglie e dai parenti, il ragazzo tornò a immergersi con lo scafandro perché in profondità la sua menomazione spariva … «Sopra videro il suo manometro giocare impazzito … Presto tiratelo su. La manichetta si è rotta …Corsero all’argano, ma Thodorìs era molto lontano». Come Martin Eden il palombaro si era lasciato affondare in silenzio.
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