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Tra società e comunità, i piccoli musei come servizio per lo sviluppo

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2020 @ 00:15 In Senza categoria | No Comments

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Museo Etnografico Alta Brianza

di Massimo Pirovano

A fronte delle osservazioni sul proliferare dei musei che ci propongono Grimaldi e Porporato, c’è anche l’esperienza di chi nei musei e per i musei DemoEtnoAntropologici lavora da un po’ di anni, verificando un diffuso declino di interesse da parte del pubblico, dopo l’entusiasmo che ha accompagnato il momento della inaugurazione. Nati dalla passione di collezionisti o di intellettuali locali, affiancati in qualche caso dall’impegno di professionisti chiamati dalle amministrazioni pubbliche proprietarie a dare razionalità a un evidente impulso emotivo, oggi – forse più che in passato – i piccoli musei DEA si ritrovano a riflettere sul senso della loro presenza nel territorio di riferimento e nel momento storico in cui viviamo.

Parlando di impulso emotivo penso alle persone anziane che consegnano al museo gli oggetti di genitori o di nonni per l’importanza della funzione pratica avuta o per uno speciale valore simbolico che queste cose conservano delle loro relazioni familiari. Ma anche di coloro che, pressati dalla voglia di modernità o da esigenze pratiche di spazio, desiderano disfarsi di oggetti ingombranti e scelgono il museo come alternativa alla discarica. Oppure si può pensare all’amministratore “che ha potuto studiare” il quale, per mezzo del “museo contadino” intende saldare un debito, suo e della sua generazione, contratto con gli antenati, a lungo ignorati o dimenticati nella loro posizione sociale subalterna ma capaci di costruire il benessere acquisito dai posteri. C’è poi la passione dei collezionisti che ritengono di dare un senso alla propensione verso una completezza impossibile, impegnati nel tentativo vano di dominare una parte di mondo, affermando la necessità di fare conoscere ciò che è stato importante per tante persone, per un periodo anche lunghissimo, di cui “non ci si può dimenticare”.

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Ecomuseo delle Acque del Gemonese

I maestri e i sacerdoti, che hanno dato origine a vari piccoli musei di paese, esprimono attraverso motivazioni di questo genere la loro vocazione pedagogica che, partendo dalle cose, intende conservare storie di uomini e di donne che non ci sono più, ma che hanno qualche lezione da consegnare al visitatore immaginato nella casa della memoria. I molti riferimenti al passato che abbiamo utilizzato ci conducono a comprendere perché i musei etnografici vengano comprensibilmente scambiati per dei musei storici, a causa della preoccupazione di quasi tutti i fondatori di salvare il salvabile, ovvero di fare storia sociale attraverso una etnografia d’urgenza, sostenuti da una motivazione che combina, in diverse dosi a seconda dei casi, i due atteggiamenti che Nietzsche definiva “antiquario” e “monumentale”: il primo preoccupato di salvare tutto quanto ereditiamo, che ha il merito di essere già vissuto, e il secondo scegliendo oggetti, discorsi, figure, azioni esemplari da indicare ai posteri come degni di imitazione. Ma i musei autenticamente etnografici dovrebbero partire dal presente e dai vivi per confrontare le pratiche di oggi con quelle di ieri, dando al frequentatore qualche strumento per interpretarne i significati, validi per i protagonisti di quelle usanze.

Certo partire dai vivi significa non solo farne oggetto di ricerca e di documentazione ma anche renderli partecipi della vita del museo.

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Ecomuseo delle Acque del Gemonese

La nota definizione di ICOM parla del museo come istituzione «al servizio della società e del suo sviluppo». Se intuitivamente o ideologicamente ci sembra di poter accogliere questi intenti, si tratta di capire meglio che cosa si intenda per “sviluppo” e per “società”. Consideriamo rapidamente  quest’ultimo termine ripensando alla distinzione tra società e comunità formulata nel 1887 da Tönnies: nel modello teorico di società delineato dal filosofo tedesco prevalgono le relazioni formali o artificiose, fondate sul calcolo e l’interesse individuale, in cui la scienza prende il posto delle credenze tradizionali, mentre nella comunità, per così dire ideale, i rapporti sarebbero fondati sull’affettività, con l’importanza centrale della famiglia, del vicinato e sulle consuetudini di lungo periodo a cui si assegna un valore indiscusso.

Oggi, anche se in misura differente a seconda dei luoghi, tutti viviamo in un contesto che vede prevalere le caratteristiche individuate per definire una società. Per contro, si sente una grande “voglia di comunità”; sostantivo che, secondo Bauman, sembra evocare qualcosa di piacevole e di assolutamente positivo: «un luogo caldo e confortevole» in cui «la comprensione reciproca è garantita», dando luogo ad una fiducia che promette di proteggerci dalle insidie e dai pericoli – appunto – della società. Tale paradiso anelato rischia, non di rado anche nei musei DEA, di essere identificato con un paradiso perduto, che lascia spazio alla nostalgia dando rilievo nella ricerca agli “ultimi testimoni” o all’ultima manifestazione del rito: l’ultimo pescatore, l’ultimo carbonaio, gli ultimi cantori popolari e così via, che hanno usato gli oggetti presentati nell’allestimento passatista. La percezione di luoghi che non hanno nulla a che vedere con il presente pare spiegare lo scarso interesse dei giovani, quando non vi siano “deportati” dalle visite scolastiche obbligatorie.

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Ecomuseo delle Acque del Gemonese

Come un museo etnografico può essere allora al servizio della società e del suo sviluppo? Costruendo una comunità diversa da quella idealizzata, in realtà segnata pesantemente da profonde divisioni di classe e di genere, con i vincoli e i poteri che le élites, la famiglia, il vicinato e la parrocchia esercitavano sui singoli. Una comunità che si costituisca aggregando persone su un progetto culturale e politico ispirato dalle lezioni degli etnoantropologi, oltre che dando uno spazio di espressione e di protagonismo a chi già s’impegna per valorizzare le esperienze collettive originali presenti nel territorio in cui il museo opera. È ciò che fanno gli ecomusei più seri, come l’Ecomuseo delle Acque del Gemonese, contribuendo a rivitalizzare e facendo conoscere attività produttive tradizionali di valore, che rischiavano l’estinzione. Ecomusei autentici di cui scrive de Varine, cioè basati su una partecipazione collettiva e non episodica alla vita del museo, piuttosto che su una pubblicizzazione turistica di tipo tradizionale delle emergenze monumentali o naturalistiche di cui un sedicente ecomuseo fa solo da vetrina: sono esperienze che hanno bisogno di leader appassionati, competenti e disposti a impegnare una vita, come Maurizio Tondolo che, oltre ad attivare molti progetti di recupero e di valorizzazione delle produzioni tradizionali e del paesaggio ad esse collegate, ha saputo coinvolgere settori significativi della popolazione locale anche nelle mappe di comunità. L’ecomuseo, inoltre, si è fatto promotore di convegni e occasioni di analisi e di riflessione sul lavoro culturale, chiamando a raccolta periodicamente ricercatori e studiosi da varie parte d’Italia e d’Europa. Questi incontri, come cercano di fare anche alcuni musei etnoantropologici, si propongono come servizio alla società o almeno ad una parte di essa, spesso impegnata nelle associazioni di volontariato per suscitare la discussione mediante spunti di conoscenza analitica e di riflessione critica sui fenomeni sociali del presente e del passato, con un occhio al futuro.

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Ecomuseo delle Acque del Gemonese

La peculiarità della missione di un museo DEA consiste nella capacità di mostrare, attraverso la ricerca, la documentazione e l’attivazione della trasmissione dei saperi, che la cultura di un uomo va al di là dell’istruzione formalizzata, in quanto è fatta di pratiche, di abilità, di atteggiamenti, che assumono senso in un dato contesto sociale e storico. Inoltre nel museo si potrebbe comprendere che ogni persona, ogni cultura, ogni società sono continuamente in divenire per i contatti che, da sempre, avvengono a diversi livelli e con differenti mezzi, scompaginando l’idea che le culture, come l’etnie, siano recinti chiusi, facilmente distinguibili tra loro. Il museo DEA, sollecitando un confronto tra i comportamenti diffusi nel presente e quelli comuni nel passato, può indurre un atteggiamento più responsabile nell’azione di chi nel museo e per il museo lavora, come in quella del visitatore occasionale. Si pensi a ciò che le società tradizionali possono insegnare ai contemporanei sul risparmio delle risorse naturali, in termini di inventiva tecnologica ed espressiva, sul piano della solidarietà tra le persone, che le storie di vita e le performance di molti protagonisti dei musei DEA possono mettere in evidenza.

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Museo Etnografico Alta Brianza

I musei etnografici vengono spesso identificati – come mi è appena capitato di sentire – in quanto luogo di “culto delle tradizioni” o come presìdi a tutela dell’identità di un territorio. L’antropologia, decostruendo questi concetti ed in particolare quello di identità, che ha propriamente senso solo in ambito logico, ci insegna piuttosto a parlare di senso di appartenenza, che le persone possono avvertire o meno nei contronti di un gruppo sociale, di una popolazione, di un ambiente geografico. A noi pare che i DEA musei, proponendo una visita in compagnia di un “portatore della tradizione”, ma anche esperienze di ricerca sul campo, mostre a tema, pubblicazioni e documentari monografici, possano mostrare che ogni territorio è abitato da diversi gruppi sociali portatori di proprie culture: contadini, operai, pescatori, sportivi, cuochi, allevatori e così via. Ognuno con un proprio linguaggio, con proprie abilità tecniche, con proprie conoscenze e convinzioni. Anche a partire da queste ‘scoperte’ – almeno per il visitatore, ma anche per gli amici del museo che gravitano attorno alla sua attività – i musei DEA possono presentarsi come luoghi in cui conoscere e apprezzare le differenze culturali, piuttosto che una identità inesistente.

Creando occasioni di relazione e di confronto, di conoscenza e di collaborazione, dando valore alla ricerca che metta di fronte le persone evitando l’imporsi del pregiudizio, consolidando la coscienza della complessità dei fenomeni culturali e sociali che richiedono un atteggiamento problematico, il museo può offrire un servizio particolarmente efficace di sviluppo civile dentro una comunità e per una parte di società, che intercetta i suoi messaggi seppure affidati alle bottiglie gettate nel mare della comunicazione ipertrofica contemporanea.

Dialoghi Mediterranei, n.42, marzo 2020

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Massimo Pirovano, ha insegnato discipline umanistiche nella scuola media, negli istituti secondari e nei licei. Dottore di ricerca in Antropologia della contemporaneità, si interessa di lavoro e ritualità presso le classi popolari, del canto e della narrativa di tradizione orale, di alimentazione, di gioco e sport, di musei etnografici, temi a cui ha dedicato saggi, documentari, cd musicali e mostre. Dirige il Museo Etnografico dell’Alta Brianza (Galbiate) dalla sua fondazione e coordina la Rete dei Musei e dei Beni Etnografici Lombardi (REBEL). Tra le sue pubblicazioni la cura del volume Le culture popolari nella Storia della Brianza (Cattaneo 2010) e dell’ipertesto Dalla fame all’abbondanza (MEAB – Parco Monte Barro 2014), oltre al saggio Un antropologo in bicicletta. Etnografia di una società ciclistica giovanile (Mimesis 2016).

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