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Tra minareti e campanili nella letteratura e nella cinematografia araba

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2018 @ 01:25 In Letture,Religioni | No Comments

copertina-zia-safiadi Simona Certa

Molti centri del territorio siciliano vivono quotidianamente il confronto tra gruppi etnico-religiosi diversi e ne costituisce un esempio emblematico la mia stessa città natale, Mazara del Vallo, dove convivono da circa cinquant’anni la popolazione locale e una cospicua comunità tunisina. La convivenza è tollerata e praticata da entrambe le parti in questione ma per parlare di convivenza non solo pacifica ma feconda è necessario che ci sia scambio, dialogo, reciprocità. Oggi stiamo vivendo una fase della storia molto complessa, attraversata da conflitti e tensioni che coinvolgono i movimenti migratori, le religioni e le etnie. Si tratta di fenomeni derivanti dal fatto che noi esseri umani siamo indotti dalla globalizzazione a vivere in un unico contesto ravvicinato.

La letteratura araba fornisce non pochi esempi della difficile realizzazione della condizione di equilibrio tra gruppi religiosi differenti. Un caso emblematico è costituito dal romanzo Khālatī Ṣafiya wa ’l dayr del 1991. Tradotta in italiano come Zia Safia e il monastero, è la prima opera di Baha Taher ad essere edita in una lingua occidentale. L’ambientazione geografica è quella di un villaggio dell’alto Egitto i cui connotati erano noti all’autore sin dalla sua infanzia grazie alla madre, narratrice appassionata e fonte inesauribile di storie della realtà alto-egiziana.

Baha Taher, autore del romanzo, si colloca tra i primi scrittori di romanzi brevi della letteratura araba novecentesca. È infatti a partire dal XX secolo che l’aumento del grado di alfabetizzazione e del numero di lettori favorisce lo sviluppo della prosa romanzesca. Baha Taher nasce nel 1936 al Cairo in una numerosa famiglia che sarà per lui fonte di ispirazione alla composizione: il padre era insegnante di arabo e la madre, nonostante non avesse studiato, fu la fonte dalla quale il giovane Baha attinse per le vicende da narrare. Il suo impegno civile e politico fu significativo nella lotta contro la dominazione inglese in Egitto ed egli mostrò un forte nazionalismo ispirato ai principi di libertà e di giustizia sociale.

Il giovane Taher svolse anche l’attività di traduttore presso il Ministero dell’Informazione del regime e dunque, pur avendo uno spirito ribelle, dovette evitare di manifestare le proprie idee e ambizioni letterarie. Fu grazie ai programmi della radio egiziana che Taher riuscì ad emergere come scrittore e a confrontarsi con altri autori e critici letterari. Nonostante ciò solo poche riviste pubblicarono le sue opere e nel pesante clima degli anni Settanta, determinato dalla successione di Sadat a Nasser, lo scrittore si trasferì in Svizzera dove risiede tuttora e dove lavora presso le Nazioni Unite. Qui inizia la sua miglior produzione e pubblica le sue opere sia in patria che all’estero, tradotte nelle lingue europee. In molti scritti, come in Khālatī Ṣafiya wa ’l dayr, emerge la fierezza di essere originario dell’Alto Egitto in quanto mondo ricco di umanità e tolleranza.

Il titolo mostra già il carattere etnico-religioso dell’impronta che l’autore ha voluto attribuire al suo romanzo, la cui storia è ambientata all’interno di un monastero copto situato nei dintorni di un villaggio di contadini musulmani.

La Chiesa copta fu fondata in Egitto nel I secolo e ha origine dalla predicazione di San Marco, evangelista che predicò in Egitto, sotto l’impero di Nerone. Il capo della Chiesa copta è il Patriarca di Alessandria. Dall’epoca della conquista araba (641 d.C.), i musulmani hanno usato la parola “guipte” (copto) per designare gli Egiziani, che a quell’epoca erano tutti cristiani. A poco a poco si è verificata un’identificazione del termine “copti” con l’essere “cristiani”. Sin dall’affermazione dell’Islam la convivenza con cristiani ed ebrei fu permessa da accordi stipulati all’interno della comunità. I fedeli non musulmani ma credenti in un testo sacro rivelato erano definiti dimmī, ovvero protetti, in quanto appartenenti alla categoria della ahl al-kitāb (Gente del Libro). Erano chiamati a pagare una specifica tassa, la Ğizya, e potevano continuare a professare il proprio credo.

Ritornando all’opera presa in esame, la voce narrante è quella di un bambino che, a distanza di anni, ripercorre gli eventi del suo passato e del villaggio. Sin dall’incipit lo stesso narratore sottolinea la profonda vicinanza del monastero cristiano al villaggio musulmano, vicinanza non solo fisica. Egli infatti sostiene: «Poiché abitavamo nella casa più prossima al monastero, ci consideravamo in qualche modo i vicini di casa dei Frati». Il narratore testimonia un rapporto scambievole tra i due culti religiosi e i due gruppi etnici, ricordando come da bambino andava insieme al padre alla celebrazione della Domenica delle Palme e alla festa del 7 gennaio, giorno importante per la comunità copta del villaggio, considerato che il Natale copto cade il 6 gennaio.

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Chiesa copta ortodossa di Egitto

Allo stesso tempo l’intera narrazione descrive, molteplici volte, l’usanza del bambino e della sua famiglia di portare al monastero una scatola di dolcetti, preparati con cura dalla madre, in occasione della ’id al-ṣaghīr, la cosiddetta “piccola festa”, solennità che segna la conclusione del digiuno previsto nel mese di Ramadan. Attraverso questi gesti concreti il racconto esemplifica il profondo rispetto, osservato da entrambe le parti, delle cerimonie religiose e del culto altrui. Va sottolineato, tuttavia, l’azione opposta a questa tendenza attuata dal giurista malikita egiziano ibn al-Ḥaǧǧ, il quale riconobbe le festività prettamente islamiche e le distinse dai festeggiamenti non tollerati in nessun modo dai rigoristi musulmani della Gente del Libro (cristiani, ebrei) come il Natale, le feste mariane e dei santi.

Il connubio tra le due religioni e le due culture, perfettamente integrate tra loro, è incarnato dall’aspetto di frate Bishai il quale, pur indossando la lunga tonaca nera tipica dei monaci cristiani, porta in testa il tradizionale copricapo musulmano, la taqiyya. Quest’incontro sembra manifestarsi anche nella figura del padre del narratore che, come racconta il bambino, «si sedette sul tappeto della preghiera e si mise ad agitare il rosario fra le mani». Ritroviamo, in un’unica espressione, l’accostamento di due oggetti egualmente significativi per la religione musulmana ma di cui uno, il rosario, sembra alludere anche alla tipica preghiera cristiana. Il tappeto, in arabo saǧǧāda dal verbo saǧada, inginocchiarsi, è uno degli oggetti più sacri della casa di un musulmano e viene utilizzato per evitare un contatto diretto con il suolo.

Il rosario musulmano ha in realtà diversi nomi a seconda dei vari dialetti dell’arabo o delle varie lingue dei Paesi in cui viene usato: Misbaha, Sebha o Subha, Tasbeeh o Tespih. Probabilmente la sua origine è indiana e, inizialmente, fu usato dai sufi; è composto da 99 grani corrispondenti ai 99 nomi di Dio. L’uso della Misbaha si lega a quella forma di preghiera presente nella tradizione spirituale dell’Islam che è il dhikr: il ricordo incessante di Dio, la ripetizione del suo Nome per dimenticare tutto ciò che non è Dio. Viene utilizzata anche per la recitazione dei versetti del Corano o delle preghiere da ripetere molteplici volte. Ma il termine “rosario”, con il quale Giuseppe Margherita traduce il corrispettivo arabo, sembra rimandare al rosario come strumento di preghiera cristiana. Esso racchiude in sé l’essenza del Cristianesimo e le varie preghiere tradizionali.

Ritornando al titolo del romanzo, occorre sottolineare un’altra parola chiave che finora abbiamo trascurato, il nome di Zia Safia. Destinata a sposare il vecchio Bey, sarà lei la figura significativa che stravolgerà la vicenda narrata. In questo villaggio dell’alto Egitto dove Cristianesimo e Islam convivono pacificamente da secoli, improvvisamente una tragedia spacca in due il paese provocando una catena di odi e violenze. Accadde, infatti, che Harbi, zio del narratore, venne accusato dal Bey di voler uccidere il figlio di zia Safia del quale il Bey era il padre. I due uomini si scontrarono brutalmente fino all’uccisione del Bey da parte di Harbi. L’episodio tragico scatenò un fortissimo desiderio di vendetta nell’animo di Safia che, in quell’occasione, si fece portavoce di un acuto sentimento di disprezzo nei confronti dei cristiani. Emblematica è in tal senso la sua dichiarazione: «Harbi è una femmina, eccolo come una donna che si nasconde da una donna e da un bambino e si fa proteggere dai Cristiani».Harbi, infatti, venne protetto dai monaci copti. Nella descrizione del momento in cui Harbi viene percosso dal console ritorna nel racconto il riferimento alla dimensione religiosa; il narratore infatti afferma: «Nessuno al mondo ha provato, come Harbi, il dolore di Hassan e Hussein». Baha Taher paragona le atrocità subite da Harbi da parte del console alla violenza eseguita su Hassan e Hussein, figli di ’Ali e Fatima, nipoti del profeta Muhammad, considerati i primi martiri della storia. Hussein fu ucciso nel 680 a Karbala, in Iraq, durante una battaglia per il califfato, e la sua morte viene commemorata ogni anno durante la festa della ’Ashura.

Il rimando alle processioni autoflagellanti e al sangue scaturito dai colpi si ritrova anche nella descrizione cruda e realistica della violenza sul corpo di Harbi, colpito di fronte alla totale indifferenza del Console:

«Il Console non sentiva niente, non vedeva niente. Si tolse il tarbush e si asciugò la fronte sudata mentre gli uomini spogliavano Harbi. E quando ebbero finito e lui fu davanti al Bey col viso, il petto e il serwal inzuppati di sangue, con il volto tumefatto e gli occhi gonfi, il Bey disse con voce pacata: “Non temere Harbi, non affrettare la morte. Te la farò implorare senza fartela vedere”».

L’idea di un equilibrio venutosi a creare nella convivenza tra cristiani e musulmani traspare anche nel film E ora dove andiamo?, prodotto da Nadine Labaki nel 2011.

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Locandina del film E ora dove andiamo?

Nadine Labaki nasce a Baabdat nel 1974 e studia media presso l’università gesuita di Beirut. La sua carriera inizia con un concorso organizzato dall’emittente musicale Studio El Fan. In quell’occasione Nadine dirige il video della cantante Carla, oggi una delle artiste libanesi più famose. Continua la sua carriera come attrice e ben presto anche come regista cinematografica. È nel 2007 che dirige il cortometraggio Caramel in cui recita la parte di Layal, una delle cinque donne libanesi di età e religioni diverse che interagiscono in un salone di bellezza di Beirut. Tra i vari temi trattati nel film compaiono l’omosessualità femminile e il matrimonio interreligioso. Ritroviamo, dunque, una visione femminista della società libanese che Nadine Labaki riprenderà anche in Wa halla’ la wayn? (E ora dove andiamo?). La rappresentazione in chiave femminista della realtà ad opera di una regista donna contribuisce a sottolineare il distacco dagli stereotipi che associa no il Paese alla guerra. La stessa Labaki dà voce a quei sentimenti che le donne avevano prima della guerra; parla di un noi ma con ciò intende una collettività esclusivamente femminile.

La sua produzione cinematografica presenta anche scene tipiche di un musical, canti e balli che si alternano all’azione e che, come dichiara la stessa regista, nascono dalla visione in età adolescenziale di opere come Grease.

In un’epoca in cui sempre più spesso le discriminazioni razziali e religiose tendono a separare gli uomini e i popoli tra loro, questo film sembra offrire una speranza di convivenza realmente pacifica tra gruppi diversi tra loro per ragioni ideologiche e/o religiose. Tale diversità non implica, infatti, l’inconciliabilità tra i due mondi ed è questo il messaggio che si propone di trasmettere la regista libanese. In una conferenza stampa a Roma, l’attrice e sceneggiatrice, infatti, dichiara:

«Nello stesso momento in cui ho iniziato a lavorare al film ho scoperto di essere incinta […] Come madre  ho capito che dovevo fare i conti con quello che stava succedendo, anche nell’interesse di mio figlio.  In  che mondo avrebbe vissuto? In una società in cui si uccide solo per ragioni politico-religiose?».

Come nel caso del romanzo Zia Safia e il monastero, il contesto è un Paese arabo-musulmano, il Libano. Ma il villaggio in cui si svolgono le vicende si trova fra i monti caratterizzato da una piccola comunità fieramente divisa tra musulmani e cristiani. Nadine Labaki intende narrare come è stata raggiunta la pace.

Le parole iniziali sono versi evocativi e malinconici accompagnati da un canto arabo davvero struggente. Riassumono i tratti salienti delle due religioni messe a confronto e destinate a convivere nel villaggio:

 «La storia che sto per raccontare la offro a chi vuole ascoltare,/ su gente che digiuna, che in preghiera si raduna;/ la storia di un villaggio isolato dalle mine circondato,/ solo tra cielo e terra, sperduto nella guerra./ Due gruppi dal cuore straziato sotto un cielo infuocato, / con le mani che il sangue abbruna in nome della croce o della mezzaluna./ Un villaggio isolato che per la pace ha optato / la cui vita è intessuta di filo spinato e violenza vissuta./ È una lunga storia di ombre scure, senza gloria,/ senza stelle scintillanti né fiori sfavillanti. / Con occhi di cenere e lacrime cerchiati, le donne, per proteggere i loro amati, /di coraggio si sono corazzate».

Occorre anzitutto sottolineare l’espressione “gente che digiuna” in quanto sembra alludere ad uno dei cinque pilastri sui quali si fonda l’Islam: il digiuno, detto in arabo ṣawm, compiuto e rispettato dai musulmani nel mese di Ramadān. Ma esso non riguarda solo l’Islam; ritroviamo, infatti, il precetto del digiuno in tutte le religioni monoteiste comprese quella ebraica e quella cristiana nelle quali il giorno di digiuno è prescritto dall’Antico Testamento: «Il decimo giorno di questo settimo mese sarà il giorno dell’espiazione» (Levitico 23,27).

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Scena del film E ora dove andiamo?, di Nadine Labaki

Immediatamente dopo la voce narrante cita la preghiera, anch’essa filo conduttore ed elemento unificatore delle due religioni in questione. Pur tenendo conto delle sfumature e diversità che intercorrono tra i vari culti religiosi, la preghiera rimane infatti il mezzo spirituale per l’uomo di entrare in contatto con Dio.

Nell’Islam la preghiera obbligatoria è definita ṣalāt e costituisce, così come il digiuno, uno dei cinque pilastri della religione. Numerosi sono i versetti coranici che testimoniano l’importanza della preghiera e la sua necessità nella vita spirituale del credente. Il primo esempio compare già all’interno della seconda sura in cui, al versetto 43, si recita: «eseguite le Preghiera, pagate la Decima, e prostratevi come gli altri in preghiera». Allo stesso modo il Vangelo e la Bibbia invitano alla preghiera; ne è un esempio l’espressione «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Matteo 6,6).

Digiuno e preghiera, dunque, vengono usati dalla narratrice come elementi dell’unione dei due gruppi religiosi la cui divisione e la lotta reciproca vengono, tuttavia, anticipati già nella frase successiva. La narratrice, infatti, ci riassume la storia difficile parlando di «due gruppi dal cuore straziato, con le mani che il sangue abbruna in nome della croce o della mezzaluna». Nadine Labaki sollecita una riflessione sulle guerre combattute in nome del credo religioso, che hanno diviso popoli, ucciso innocenti, sparso sangue in tutto il mondo e distrutto intere realtà. Le guerre di stampo religioso risalgono già al periodo delle crociate per continuare, purtroppo, fino ai nostri giorni. Esse vengono combattute, come afferma la regista, in nome dei simboli religiosi con la pretesa di preservare la stabilità di un culto e imporlo sugli altri. La voce narrante cita, in particolare, la croce e la mezzaluna: sono i simboli immediatamente associati alle due religioni. La mezzaluna, in arabo hilāl, è simbolo dell’Islām ed è divenuto un emblema dell’intero mondo arabo poiché compare oggi, insieme alla stella, sulle bandiere di molti Stati. La croce, in arabo ṣalīb, è il simbolo per eccellenza del Cristianesimo, che trova il suo fondamento nel sacrificio del figlio di Dio. Come afferma infatti Michel Feuillet, autore dell’opera Lexique des symboles chrétiens, «per i cristiani la croce è una realtà molto concreta, quella di uno strumento di tortura, il più importante degli strumenti della Passione, il patibolo sul quale Cristo ha sofferto e ha conosciuto la morte».

In entrambi i simboli si cela, tuttavia, una speranza di cambiamento positivo, di pace, in quanto entrambi sono anche segni di risurrezione. Si tratta della pace che il villaggio, in cui il film è ambientato, ha raggiunto e che la regista si auspica per ogni villaggio libanese e per tutto il mondo.

L’intero villaggio ruota attorno al locale di Amale, frequentato sia da uomini che da donne, musulmani e cristiani, emblema dell’unione tra i due gruppi etnico-religiosi. Nella rappresentazione cinematografica appaiono altri due luoghi fondamentali ed ugualmente emblematici: la chiesa e la moschea, che si affacciano entrambe sulla stessa piazzetta. Al mattino, contemporaneamente, suonano le campane e si ode la voce del muezzin; questi suoni sacri si mescolano ai belati profani delle capre.

Ma la convivenza tra le due religioni appare ben presto precaria e basta davvero poco per scaldare gli animi degli uomini del villaggio che iniziano a farsi la guerra vicendevolmente. Ogni avvenimento nel villaggio è usato come pretesto per opporsi all’altro, al diverso: la colpa di ciò che accade viene attribuita alla parte opposta. Assistiamo a tutta una serie di screzi e baruffe tra gli uomini delle opposte comunità religiose: i musulmani raccolgono del sangue di animale e lo pongono all’interno dell’acquasantiera posta all’ingresso della chiesa, avviene l’invasione della moschea da parte di capre e pollame e una ritorsione con la frantumazione della statuetta della Madonna. Si scatena quasi uno scontro tra Allah e la Vergine, ma, in questo clima di forte conflittualità, le donne appaiono l’elemento mediatore tra i due gruppi. Donne cristiane e musulmane, amiche e vicine di casa sono sempre pronte ad appianare in ogni modo i conflitti tra i loro uomini. Tra i vari espedienti usano quello di invitare un gruppo di prostitute ucraine al fine di distrarre i loro uomini dalla volontà di dissotterrare le armi e combattersi a vicenda.

La funzione mediatrice e pacificatrice delle donne è visibile anche nella scena in cui, dopo che un uomo musulmano ebbe distrutta una statuetta della Madonna, sono proprio le donne musulmane che si preoccupano di raccoglierne i pezzi e ricomporla. Le donne si armano di virtù e di coraggio per proteggere i loro amati e l’intero villaggio, nonostante «gli occhi di cenere e lacrime cerchiati». Il loro compito è arduo ma loro si sacrificano e usano tutte le qualità e tutti gli strumenti per riaffermare i valori universali di pace, fraternità ed uguaglianza.

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Culto musulmano della Madonna cristiana

Il tema della non-appartenenza è uno dei messaggi chiave promossi da Nadine Labaki mediante le figure femminili, in opposizione al forte senso di appartenenza etnico-religiosa incarnato dagli uomini. Il senso della non-appartenenza veicolato dalle donne del villaggio trova la sua massima espressione nella parte conclusiva del film quando le donne confondono il nemico, rappresentato dagli uomini, mischiando veli e croci, fingendo la conversione al culto opposto, comportandosi secondo i riti della religione “avversaria”. È emblematica la scena del sindaco che, alzatosi al mattino dopo la lunga notte passata con le donne ucraine, scorge, appeso alla parete di casa sua, un quadro con una preghiera ad Allah. Recatosi, poi, in salotto, scopre la moglie con il capo coperto dal tipico hijab musulmano, genuflessa sul tappeto di casa e intenta alla preghiera caratterizzata dalla ripetizione della frase “Allahu Akbar”, ovvero “Dio è grande”. Questa, rivolgendosi poi al marito che impreca contro di lei, afferma: «Per il profeta non blasfemare, musulmano». A questa scena ne segue un’altra opposta in cui una donna musulmana sveglia il figlio cospargendolo di incenso e acqua benedetta e recitando l’Ave Maria. Nella sua inquadratura, la regista punta l’attenzione sul crocifisso che porta al collo.

Significativa è anche la scelta di Nadine Labaki di chiudere il susseguirsi di tali immagini proprio con la figura della madre di Issam, fratello di un ragazzo cristiano morto a causa del conflitto interreligioso, la quale, vestita da musulmana, dichiara al figlio: «Adesso vivi con un nemico. Sono una di loro, ormai; ti ci devi abituare». É proprio in quest’affermazione che viene racchiusa la critica al forte e rovinoso spirito di appartenenza che anima gli uomini nonché la condanna della volontà di vendetta che porta Issam ad opporsi ai musulmani.

Le donne giungono, quindi, a scambiarsi persino i simboli religiosi: le donne musulmane fingono di pregare la Madonna in chiesa e le donne cristiane si coprono il capo con il velo nero e fingono di leggere il Corano. Tuttavia, le donne non sono lasciate sole in questa ardua impresa: accanto a loro troviamo sempre l’imam e il sacerdote del villaggio. Entrambi si propongono di allontanare ogni possibilità e ogni tentativo di violenza esercitata contro il prossimo. Emblematica è in questo senso l’invocazione ad Allah pronunciata dall’imām nel momento in cui i musulmani riducono in frantumi la statua della Vergine: «Che Allah ci perdoni»: una frase che testimonia non solo una totale opposizione e condanna del comportamento dei suoi fedeli da parte dell’imām, ma anche un’assunzione delle responsabilità dei loro atti meschini.

Entrambe le autorità religiose sostengono l’ideale di una convivenza pacifica inesistente altrove pronunciando dei discorsi conciliatori. Il prete, infatti, rivolgendosi ai suoi fedeli li esorta dicendo:

«Non lasciate che tutto ciò che accade vi influenzi. Qui non succede niente». Per analogia, alcune scene dopo la regista ritrae la figura dell’imām che invita alla riflessione attraverso le parole: «Non pensate a quello che succede da altre parti, le altre parti sono altrove. Sono anni e anni che viviamo pacificamente con i nostri fratelli cristiani».

Da queste ultime parole traspare anche la necessità di trasmissione del principio di fraternità universale: tutti siamo fratelli perché accomunati dal credere in un solo Dio. Tale scena sembra riprendere le parole del sindaco del villaggio, pronunciate all’inizio del film, durante una riunione di tutta la comunità davanti alla TV per inaugurare il nuovo anno. Il sindaco parla, infatti, di un “noi, unità unica” e ringrazia la presenza dell’imām e del prete, definendoli «simboli della nostra solidarietà e della nostra intesa».

Lebanese supporters of the pro-government Future movement

Beirut, 1999

L’imām e il sacerdote, dunque, evidenziano, per contrasto, la radicalità e la violenza delle figure maschili, evidenziata anche dal giornalista e critico francese Serge Kaganski. Nella sua analisi critica del film in questione, egli prende in esame le tematiche affrontate da N. Labaki riconoscendo tra esse l’accecamento religioso, la violenza integralista, la brutalità maschilista e i piccoli conflitti che non dovrebbero nemmeno esistere, ma che l’uomo s’inventa per avere la percezione di esistere.

Il film E ora dove andiamo? mostra una sorta di atemporalità: la regista libanese non inserisce marcatori temporali specifici né riferimenti storici espliciti. Tuttavia, dovremmo parlare di una atemporalità velata poiché in realtà, seppur implicitamente, viene narrata una triste pagina della storia libanese, quella della guerra civile che insanguinò il Paese tra il 1975 e il 1990.

Caratteristica principale dello Stato libanese, resosi indipendente dall’occupazione francese nel 1943, è la sfiducia di ciascuna comunità religiosa nei confronti delle altre: i cristiani si sentono quanto mai vulnerabili in una regione popolata da musulmani. I drusi, ovvero gli sciiti che hanno abbandonato l’ortodossia musulmana, dopo essere stati perseguiti in Egitto, si erano rifugiati sulle montagne libanesi dove per due secoli erano stati costantemente in guerra con i crociati. Gli sciiti, sempre in dissenso con la componente sunnita, erano giunti persino ad allearsi con i crociati. L’opposizione tra cristiani e musulmani, tuttavia, risulta essere quella predominante.

All’indomani dell’indipendenza tutte queste componenti religiose si videro costrette a convivere e, per evitare uno scontro sanguinoso, sottoscrissero un Patto Nazionale, secondo il quale il presidente della repubblica libanese dovrà essere un cristiano maronita, il primo ministro dovrà essere sunnita e il presidente del Parlamento sciita. L’ideologia transcomunitaria affermata dal Patto non resistette ai venti della destabilizzazione iniziata alla metà degli anni Settanta e legata ad un esasperato confessionalismo rigido. Le prime fasi vedono lo scontro tra Palestinesi e Cristiani, con la successiva mediazione delle truppe siriane; nella fase finale, dal 1988 al 1989, si realizza lo scontro intercristiano tra le varie fazioni della destra cristiano maronita.

La regista Nadine Labaki visse personalmente questo periodo della storia libanese ma il film che realizza non si propone di essere una narrazione storiografica. È piuttosto la rappresentazione della difficile convivenza etnico-religiosa nella vita di tutti i giorni, nelle azioni quotidiane dei membri della comunità del villaggio.

La convivenza interreligiosa è una tematica con cui dobbiamo confrontarci giorno per giorno anche per i recenti flussi migratori dei quali l’Europa è sempre più interessata. Uno sguardo letterario sulla convivenza tra etnie diverse può aiutarci a comprendere la complessità del fenomeno ma anche le sue potenzialità culturali. Se è banale affermare l’inesistenza di qualsiasi differenza tra le parti, negare che queste possano produrre incomprensioni e contrasti tra i gruppi, tuttavia relativamente alla convivenza delle religioni resta attuale la lezione di Gandhi secondo cui «Guardiamo alle religioni come alle mille foglie di un albero, ci sembrano tutte differenti, ma tutte riconducono a uno stesso tronco».

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018

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Simona Certa, laureata in Lingue e letterature moderne e mediazione linguistica-italiano come L2 conseguita presso l’Università degli studi di Palermo, attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Lingue e letterature moderne dell’Occidente e dell’Oriente-curriculum orientale presso la stessa Università. Ha svolto ricerche sull’incontro tra cristiani e musulmani, sulla poetessa irachena Nāzik al-Malā’ika, sul concetto di filiazione nell’Islam, sui diritti del minore e sul tema dell’adozione.

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