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Tra Goody e Braudel, un dialogo postumo

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2021 @ 01:33 In Cultura,Letture | No Comments

81z4en7qqldi Pier Giorgio Solinas

Antefatto

Ricevo dalla rivista Dialoghi Mediterranei l’invito a proporre un intervento, per i prossimi numeri… Mi viene in mente associando Mediterraneo, Braudel e le mie lontane pensate sulla identità mediterranea, che apparvero in un capitolo del secondo volume de La Mediterranée, a cura di Fernand Braudel appunto ­– per Arts et métiers graphiques, nel 1978 – mi viene in mente il cenno che Jack Goody mi dedicò nelle prime pagine del suo Matrimonio in Europa, anni dopo (più che un cenno, un vero e proprio “stai buono, quel che stai dicendo è inutilmente banale”).

E allora, perché non tornare sulla questione, perché non riprendere a pensare, e a pesare nello specifico a ciò che di quel dibattito, che in realtà del dibattito ebbe ben poco, restò a mezz’aria? Io ero allora poco più che un ragazzo, almeno dal punto di vista scientifico e accademico. E anche quando, con più esperienza e maggiore discernimento, mi ritrovai, lungo i tornanti delle mie ricerche, a ricordare la ruvida presa di posizione dell’illustre antropologo britannico, non mi venne voglia di ribattere o anche, magari, di fare autocritica. Ma poi, su che cosa?

Per riprendere in mano il contrasto, o quella specie di contrasto non nato, occorre ricontestualizzare i tempi e i fatti, i tempi e i testi.  Ecco qualche dettaglio, per dovere di memoria.

I due volumi di La Méditerranée (sotto la direzione di Fernand Braudel: I L’espace et l’histoire, e II Les hommes et l’Héritage) non nacquero come libro, ma come testi di commento d’una serie televisiva della TV francese che andò in onda fra il ‘76 e il ‘77. I testi vennero poi riuniti nei due volumi di grande formato, con molte illustrazioni, e pubblicati nel 1978 dalla casa editrice Arts et Métier Graphiques a Parigi. Da allora numerose riedizioni (Flammarion) e traduzioni in molte lingue (tedesco spagnolo, arabo, inglese, greco, turco…) hanno accompagnato la fortuna dell’opera, fino ad oggi. In italiano l’editore Bompiani ne pubblicò una versione tascabile, un unico volume, per la traduzione di Elena De Angeli, nel 1987 (io mi ritrovai tradotto dall’italiano in francese e poi dal francese in italiano… cosa che feci rilevare con una lettera alla Casa Editrice, mi pare senza risposta). Ancor oggi Il Mediterraneo di Braudel, in questa versione più popolare collettanea (niente a che vedere con l’Opus Magnum Mediterraneo all’epoca di Filippo II) gode di una notevole fortuna, in edizioni tascabili e come libro strenna.

b08399Il mio contributo, La Famille di una ventina di pagine (pp 193-218 nell’edizione Bompiani) cercava di argomentare intorno alla ipotesi di una continuità culturale, o almeno di una contiguità,  tra le molte varianti strutturali della famiglia mediterranea, su più livelli: economico-sociale, ethos e percezioni simboliche, morfologie e tipologie, modi di vita…Goody si attaccò alle enunciazioni d’apertura del saggio, in cui proponevo di considerare i vari livelli strutturali, simbolici, pragmatici etc della diversità mediterranea alla luce della variazione su principi   comparabili. La diversità era più volte rimarcata, ma Goody mi imputava una sorta di genericità, una superficiale presunzione di comunanza, una ignoranza addirittura. Io supponevo, secondo la sua lettura, che fossero da porre come tratti distintivi dell’identità mediterranea cose generalissime, scontate, che si ritrovano in ogni cultura, senza che nulla autorizzasse a riservare alle culture di questa area.

Stentavo, e tuttora stento a riconoscermi in queste imputazioni. Ma non è importante. Goody era uno studioso di primo livello, l’incarnazione stessa dell’autorevolezza scientifica nella grande, e dominante allora, tradizione dell’antropologia britannica. Ma era tutt’altro che un uomo presuntuoso e sprezzante. Anzi, la sua simpatia, perfino la sua bonomia lo facevano stimare ed amare in ogni occasione di incontro che capitasse di vivere, soprattutto ai più giovani. Più tardi, durante un bel convegno tenutosi a Marsiglia mi pare, mi si rivolse con un cordialissimo sorriso, scherzando su gente e cose come se nulla fosse, e ancora, ricordo che a Venezia, durante le giornate di studio su Natural Knowledge, organizzato da Glauco Sanga, ci intrattenemmo in allegra compagnia durante una gita in motoscafo, con colleghi e allievi, a Murano. Si divertiva un mondo, gran vecchio spassoso e di compagnia. Non c’erano asprezze allora, e forse, il fatto stesso di entrare in contrasto faceva bene a chi ci si trovava coinvolto.

Io però ho conservato tra le pieghe dei miei conti in sospeso, il credito, o il debito, non so, d’un impegno da onorare, di ritornare sul punto, magari per una mia verifica in coscienza, e per cercare di capire se, magari, quelle idee avessero qualche prospettiva di sviluppo, e se, poi, le tesi di Goody in Matrimonio in Europa, stridessero con l’ipotesi della continuità mediterranea.

Oggi sono più consapevole del fatto che in realtà la questione era più seria, che si trattava di verificare un confine – un confine da demolire o magari da consolidare – di dislocare le faglie, le placche culturali ed etniche dei due mondi, ossia del mondo europeo o euro-cristiano e del mondo arabo-orientale. Di battere le rotte, la rotta nord-sud, ma pure quella ovest-est per vedere se il postulato della continuità potesse essere messo alla prova. Per mettere in discussione l’immagine corrente dei due Mediterranei, della duplicità che colloca da una parte: “di sopra” per dir così l’Europa degli imperi cristiani, “sacri” e romani, (ma poi, modernamente ed eticamente protestanti…), di sotto l’Africa araba e berbera, anch’essa territorio di santità monoteista e di fede, ma di fede e santità irrimediabilmente contrapposta.

coperrtinaAccettare come fatto compiuto, e così presupporre come assioma, che il Mediterraneo dovesse essere due e non uno, che la linea costiera da Bisanzio a Siviglia fosse il margine, lo zoccolo rivierasco che proteggeva le civiltà del Nord – i Paesi latini e occitani, celtici e su su ancora, fino alle brume boreali, compreso il mondo slavo, quello germanico, quello iberico – mentre in basso, lungo i margini delle coste turche, di quelle un tempo puniche e fenicie, e poi dai califfati mesopotamici all’Africa berbera, in breve, dal Mashrek al Maghreb premeva, e preme un’onda tumultuosa di cupido impeto etnico e religioso, mi pareva molto rischioso, un atto di fede e di metodo, senza discussione, una sorta di pregiudizio insidioso. Insidioso perché coperto, camuffato sotto le vesti illuministiche della tolleranza, della pregiudiziale messa in vetrina (o in vetrino) del “diverso”, della diversità, e, diciamo in modo un po’ più sfrontato, della alterità, dell’«altro» .

È necessario qui che io chiarisca perché nutro tanto sospetto nei confronti di queste parole e di questi concetti, “l’altro”, l’alterità, (ai miei occhi, non-concetti). Cercherò di chiarirlo tenendo riferendomi ai due poli della opposizione, i due versanti dell’opposizione mediterranea, e alla loro espressione etno-culturale, il versante del “noi” e quello de “gli altri”, affacciati per l’appunto sulle due rive del mare comune, sul margine settentrionale (e occidentale) e su quello meridionale (e orientale).

E allora, d’accordo, «Noi» stiamo quelli della parte di sopra, ci affacciamo sui lungomare di Nizza, di Trieste, di Taranto, di Barcellona, guardando oltre l’orizzonte, dove non si vede nulla e perciò possiamo immaginare gli «Altri», quelli del piano di sotto, avvertiamo la loro alterità, e questo essere altro acquista la forza di un predicato. Questo immaginare il non-noi, questa proiezione dell’identità in negativo, nella forma della alterità può prendere forme ambivalenti; una forma cattiva e ostile, impregnata di paura e di rifiuto, oppure una forma benevola, inclusiva, solidale ed empatica (quantomeno, nelle intenzioni).

Lasciamo perdere la prima forma, facilmente confutabile, e confutata, benché radicata nel senso comune e più ancora nel pregiudizio. La seconda forma, l’immaginare empatico e inclusivo, che si confà alla matura sensibilità umanitaria dei tempi nostri, si avvicina a quel «rigenerare nel pensiero» di Ernesto de Martino, che si allarga, o si sforza di allargarsi, fino a riuscire a far posto dentro il proprio io ad altri sé. Chi sono questi altri allora? Chiaro, sono quelli che rientrano nel predicato sostanziale della alterità, sono l’alterità fatta persona, sono la personificazione dell’alterità.

Temo che la sindrome della diversitudine continui a infiltrare il mestiere e la vocazione etnologica dei tempi moderni, e la sua ossessione tradisca un complesso irrisolto, una pulsione o compulsione – riflessiva, e tautologica nelle sue espressioni discorsive – che ci fa generare (o rigenerare) mondi e realtà, mondi e realtà “altrui” di cui noi, che ne siamo autori, restiamo insieme prigionieri e padroni.

famiglia-e-matrimonio-in-europaUno, due diversi Mediterranei

Usciamo dall’autoanalisi, e ritorniamo al punto braudeliano, e goodyano. Il punto verte sui temi della famiglia e della parentela. Parentela mediterranea? Parentela euro-occidentale, parentela araba, arabo mediterranea? L’asse interpretativo che percorre tutta l’opera di Goody, Famiglia e matrimonio in Europa, ruota intorno alla lotta per l’esogamia (contro l’endogamia) e al trionfo della parentela ego-centrata sullo spirito di stirpe, dell’io contro il lignaggio. Trionfo e consacrazione; è la dottrina teologica del matrimonio come unione di anime e non di clan quella che trasforma il matrimonio da contratto a sacramento.

È una sintesi un po’ sbrigativa questa, certo, rispettosa comunque della ricchezza e della perspicuità storica che lo sguardo del gran vecchio britannico ci ha consegnato con pagine solide e accurate, oltre che vivide. La tesi portante, di per sé, è tutt’altro che debole: la lotta per l’ampliamento delle aree di interdizione matrimoniale che la Chiesa condusse nei secoli contro la logica lignagère   e l’autarchia riproduttiva nelle stirpi nobiliari finì effettivamente per imporsi, per forza o per amore, fino a capovolgere del tutto una struttura, sociale e culturale insieme, che per lungo tempo aveva amministrato i suoi spazi di parentela riproducendo ad ogni passaggio di generazione le unioni fra i consanguinei di corto raggio, aldilà appena del confine della proibizione dell’incesto. (La stessa dottrina giuridica della Chiesa, del resto, ci mise un po’ per raggiungere questa avanzata concezione esogamista, che in effetti maturò progressivamente, fino a raggiungere la sua massima estensione nel tardo Medioevo).

Possiamo far nostra dunque l’idea di una divergenza inframediterranea, una storia di polarità   marcata, nelle strutture e nelle ideologie della parentela, che allontana il mondo arabo-islamico e quello cristiano occidentale. Una polarità che oppone un principio di apertura ed uno di restrizione: la parentela come rete che si allarga, come inclusione al non-parente, da una parte, e dall’altra una parentela centripeta che si riproduce entro confini di prossimità corporata, e chiude agli estranei?

Non ho obiezioni sul punto. Se si tratta di tendenze, o anche di “ideologie soggiacenti”, non ci sono impedimenti o prudenze che possano distoglierci dal seguire questa traccia. E qui gli indizi sono più che abbondanti, e visibili. Primo fra tutti il modello del cosiddetto «matrimonio arabo», un vero e proprio archetipo dell’antropologia: sposarsi tra cugini figli di fratelli in modo che la discendenza, e con questa il capitale di identità, di onore e di ricchezza si conservi e non si disperda con incroci fra estranei. Che è poi, stando di nuovo a Goody, proprio quel che la Chiesa contrastò sistematicamente e che alla fine riuscì a ottenere, ossia disarticolare la famiglia come dominio privato, chiuso e autoriproducentesi, e per questo aspetto, disintegrare la gens, l’antica struttura gentilizia.

Il fatto è che questi tratti forti, queste marcature salienti della differenza fra “le due sponde del Mediterraneo” si prestano drammaticamente ad assumere il valore di veri e propri contrassegni di incompatibilità, e a trascinarsi dietro una vasta e densa collezione di altre strutturali incompatibilità (la poligamia vs monogamia, la segregazione delle donne e il machismo vs la liberazione… e via di seguito). Il problema era (ed è) che questi due modelli, o questa diversità di modelli, nella visione di Goody disegnano qualcosa di più che uno spazio polarizzato di variabilità. Tracciano piuttosto un quadro di divergenza, di opposizione che da schema diventa mappa e fatto. Se la critica si fermasse a una denuncia così asciutta, alla schematicità della tabella di contrasti che Goody inserisce fin dai primi passi del suo libro e che in realtà riprende da un saggio, ormai molto datato, di P. Guichard, intitolato significativamente Strutture sociali “orientali” e “occidentali” nella Spagna musulmana, se l’argomento si esaurisse nella critica della tabella, perderebbe il suo diritto all’ascolto, e alla discussione.

Goody, infatti, non si ferma allo schema e all’elenco, anzi, sfoglia, fruga negli strati differenziati e nel lungo percorso di evoluzione dei sistemi (di matrimonio, di eredità, di alleanza e selezione patrimoniale, di giurisprudenza). E così fa la sua storia, la storia sub specie anthropologiae, di cui ancora continuiamo a nutrirci. Ma la domanda resta, domanda per lui e per noi che di questa immersione fruttuosa siamo partecipi, e cioè: è questo il modo giusto di situarsi nella diversità? Vale ancora il paradigma della opposizione strutturale? Goody, certo, mantiene in perfetta   coerenza la sua postura di osservatore, neutro e, si potrebbe dire, disinteressato. Ben lontano dal suo spirito di ricerca il percorso interno, demartiniano, il rigenerare o addirittura il porsi nei panni dell’“altro”. È un’impostazione che condivido ed è proprio questo che consente di mantenere aperto il mio dialogo.

Non basta mettersi dall’altra parte per rigenerarsi, o per purificarsi dai rischi di quell’etnocentrismo involontario (e forse inconsapevole) che riaffiora continuamente, compreso quell’ “etnocentrismo critico” che in de Martino serviva come riscatto e ravvedimento. Non basta farsi “altro”, non basta immedesimarsi nella doppia assenza di Sayad, e neppure nella violenta lagnanza dei dannati della terra, e poco ci aiuta la lettura dei nostri mali di boria colonizzatrice nell’Orientalismo di Edward Said. Ma sia chiaro, dico che non bastano queste immersioni, non che non servono. Servono eccome. Ma devono servire in un lavoro d’umiltà e d’ambizione al tempo stesso: umiltà nel disporsi a ripensare se stessi, ambizione nel pretendere di trascendere l’alterità.

Trascendere e trascendersi, intanto, nello spazio epistemico, uno spazio a più dimensioni, non a due (Nord e Sud; Est e Ovest), ma a quattro, cinque, e magari non soggette alla legge del tertium non datur. Non occorre violare i confini della logica per aprirsi a queste molte dimensioni: diacronia, sincronia, per esempio, accanto alla funzione della simultaneità, della regressione già porrebbero impegnativi sollecitazioni alla nostra immagine delle identità mediterranee. Se immettiamo nello spazio mediterraneo questa sorta di elasticità, di comprimibilità e espansività, se lo vediamo appunto a molte dimensioni, i luoghi diventano punti di mobilità. Venezia è in cima all’Adriatico ed altrove, è prima e dopo, è “simultanea e trapassata” [1], l’Africa romana è mora e latina (non era africano Sant’Agostino?), Marsiglia è sponda d’arrivo per gli immigrati africani e nello stesso tempo Alessandria, in Egitto, come Istanbul in Turchia aprono commerci e teste di ponte, o luoghi di esperienza esotica per i viaggiatori, per i mercanti, per gli studiosi…

51fipgfmdtlIl tutto e le parti

In passato, non molto passato a dir la verità, gli antropologi si sono dedicati a studiare, e forse a costruire epistemicamente, l’identità mediterranea. La galleria è affollata: Julian Pitt-Rivers, John George Peristiasny, Pierre Bourdieu, Clifford Geertz , Carmelo Lisón Tolosana, Eric Wolf, Jeremy Boissevain fino ai più recenti, Michael Herzfeld, Christian   Bromberger, Georges Ravis Giordani (e non vogliamo metterci pure i nostri, per esempio, di nuovo, de Martino, Clara Gallini, Jane e Peter Schneider Vanessa Maher …Amalia Signorelli?). Una   tradizione di studi che nella seconda metà del Novecento ha prodotto una quantità di ricerche locali, punteggiando di etnografie esemplari lo spazio delle coste e delle penisole, la Grecia, i Balcani, i Paesi mediorientali, il Maghreb). Tutte queste esperienze di esplorazione etnografica hanno portato a vista la cartografia puntiforme della complessità mediterranea. Nessuno di loro, salvo forse Julian Pitt-Rivers, intendeva fare della propria etnografia locale un campione valido per l’intero complesso mediterraneo, una sorta di cellula tipica che riassumesse i tratti della totalità. E tuttavia, per fortuna potremmo dire, questa totalità si apre al nostro sguardo di etnografi postumi come problema, come feconda eredità da mettere a frutto.

Il tema d’accesso, la domanda che si impone quando prendiamo visione della sconfinata pluralità di ambienti e di comprensori di cultura è quello del rapporto fra contenuto e contenente [2] . Domanda salutare dato che introduce al problema della relazione fra il tutto e le parti, o se si vuole, fra appartenente e appartenitore (devo inventarmi questo nome, la lingua non offre un sostantivo appropriato per designare il termine superiore della relazione di appartenenza: colui o il qualcosa a cui uno appartiene, la parte maggiore).

Il Mediterraneo, il mondo mediterraneo, o l’identità mediterranea, diventa allora il termine inclusivo, il dominio dell’appartenenza? È il tutto, la totalità mediterranea, l’insieme che raccoglie e si replica nelle sue molte parti locali? Si apre qui una traccia di investigazione che mi sembra decisiva oltre che per se stessa, in positivo, per il suo margine di incertezza, per la sua carica di dubbio. Perché, infatti, questo mare che diciamo medio, in medias terras, chiuso, contenuto e contenente, è margine e tramite tra due, fra tre continenti. Sarà questo trovarsi sul crinale di passaggio tra il pieno e il vuoto, fra ordine e caos, direbbero i fisici moderni, questo affacciarsi sul limite che include una quantità di loci culturali in uno spazio che non ha centro, o meglio, ha tanti centri quante sono le parti, sarà questo paradosso geo-etnografico quello che fa di questi molti Paesi, parti a sé e nello stesso tempo parti di un insieme? Provenza o Andalusia, Adriatico o Peloponneso, Sicilia, Cirenaica, Palestina, Anatolia…. Non so se altrove, in altre aree regionali – che so Caraibi, Sud-Asia, magari Indonesia – potremmo trovare una varietà culturale altrettanto ricca e dinamica. Tuttavia, questa apparente eccezionalità va presa con cautela. La   pretesa di incomparabile unicità della nostra “regione”, per cui solo il Mediterraneo possiede questo felice, straordinario assortimento, di luoghi, di storie, di stili e di originalità diverse, – come dire, a loro volta uniche, un assortimento di unicità – mi pare un po’ troppo narcisistica, ed anche consolatoria.

Per difendersi dai rischi della poetica mediterraneistica che si inebria di unità nelle varianti, e delle singolarità come repliche della unicità mediterranea, bisogna addentrarsi con la massima cura nelle questioni, appunto, del rapporto fra il tutto e le parti, fra le molte identità mediterranee e la identità mediterranea. Non è solo una questione astratta di forma. È qualcosa che si ripresenta nei particolari, nei tratti più concreti di cultura, nei costumi, nelle lingue, nel cibo [3], nelle retoriche delle relazioni personali, nel vivere e nel morire. Non era forse questa la percezione che, nello studio della lamentazione funebre di De Martino (ma, con tutt’altra, divergente prospettiva, nella ricerca sulle “ideologie soggiacenti” di Cirese, nel gioco di Ozieri, in Sardegna) si avverte come una sorta di familiare, partecipata dimensione comparativa? Voglio dire, l’idea che lo spazio mediterraneo valesse un po’ come presupposto che non aveva bisogno d’essere motivato, e che quasi naturalmente le adiacenze storiche e spaziali fra costumi, istituzioni e “ideologie” (concezioni del mondo, intere o frammenti, ways of life, views of life) si offrissero alla ricerca come giacimenti culturali nei quali si trovava, imprigionato dalla storia o dalla struttura, il “dramma” umano, o appunto, l’ideologia “implicita”, gramscianamente intesa.

Non è un caso: la percezione del presupposto mediterraneo (mi azzardo a proporre questa formula), si ritrova regolarmente negli studi e negli studiosi che a quella percezione fanno capo, diciamo così, per ascrizione esistenziale e epistemologica insieme. I nomi abbondano: a parte i due già menzionati, immersi in una storia che ha radici e frutti nel Meridione (Napoli, il Molise) e fatta salva la comune o comunicante ispirazione gramsciana il paesaggio è fitto di presenze e ascendenze filosofiche meridionali: da Croce a De Sanctis da Pitrè a Cocchiara, da Scotellaro ad Angioni, da Giuseppe Galasso ad Amalia Signorelli (romana, abbraccia il terreno e l’orizzonte epistemico del Meridione) e poi i contemporanei, i più giovani. È   un po’ come se, nella duplice dimensione oggettuale e scientifica, il mondo delle cose e degli studi, si rimandassero l’una con l’altra, e anzi, si fondessero in un vincolo di identità emergente.

Va di moda, oggi, evocare una sentenza, una sorta di motto che accompagna le antropologie critiche, le svolte ontologiche e le eco-filosofie. Una sentenza che suona all’incirca come segue: il tutto è maggiore delle sue parti (o l’insieme è superiore alla somma delle sue parti, etc,). Enunciato di indiscutibile, sacrosanta validità evidentemente, che può ben pretendere di figurare come assioma di base di ogni concezione olistica e non meccanica del mondo [4]. Possiamo farlo nostro, a proposito delle questioni di cui stiamo discutendo, perché questa massima, una volta che venga seguita non come uno slogan ma come serio principio di metodo, offre ai mediterraneisti un’occasione d’oro per liberarsi dal rischio di chiudere sommariamente (per “somma” appunto) in una collezione di singoli “casi” la galleria etnografica delle società mediterranee.

Il problema mi verrebbe da dire, non sta tanto, o solo nella pluralità o nella totalità degli oggetti, ma nell’attitudine e nella chiave d’approccio che si assume. Un occhio che è disposto a guardare in uno spazio di simultaneità, o di sinotticità (syn-opsis, un occhio che vede insieme cose lontane…) fatti, motivi e fenomeni che non sono in alcun modo comunicanti in termini empirici. Fenomeni che non si con-fondono ma che si con-prendono in virtù di assonanze o anche contrasti pertinenti, questo è quel che mi pare uno sguardo disposto a neutralizzare le distanze di spazio e di tempo, a mettere in moto possibilità comparative che di norma né la storia né la geografia delle culture autorizzano a sperimentare.

Qualcuno ha evocato l’immagine dello specchio, degli specchi; le culture si rimandano l’una con l’altra la propria figura, le culture si riflettono, emettono le loro onde di significato che nello spazio di incontro interferiscono, si trasformano e ritornano composte di altre onde. Non è di sicuro questa la metafora più appropriata, anzi è molto imperfetta. Le società non funzionano come stazioni radio piazzate nei punti più alti per trasmettere messaggi, non sono fatte per comunicare. Tuttavia, c’è qualcosa di interessante in questa figura. E l’aspetto più saliente che ci stimola a riflettere è che, nella dimensione dello spazio-tempo che qui viene presunta, il flusso delle culture si muove, malgré soi, e in ogni direzione, malgrado la volontà o le intenzioni degli uomini che se ne fanno attori, che le esprimono e le assorbono, e soprattutto malgrado le durate, i limiti temporali della vita delle singole culture e delle singole civiltà. Ma c’è un passo in più che si apre al nostro percorso. Quelli che noi siamo portati a concepire come centri di cultura, fonti di emissione delle influenze culturali che percorrono i mari e le terre, possono altrettanto bene essere concepiti come prodotto di flussi. Là dove il commercio di identità senza fonte si condensa in vettori di incrocio, in nodi di interferenza, è là che le identità si condensano e che ogni punto di incrocio diventa germe di etnicità.

Questo mi era parso importante nell’impresa braudeliana, e nella sua riduzione divulgativa. Ed è probabilmente questa forma di comparazione, insofferente di disciplina empirista e di coerenza geometrica (euclidea) che non si conciliava con la lettura goodyana. Qui, appunto, né le culture, né le loro istituzioni, e meno ancora le loro espressioni vanno prese come oggetti misurabili, come “corpi” dotati di peso specifico, massa e energia. Vanno colte invece come correnti, flussi e stati in movimento, e trasformanti (il richiamo al concetto lévi-straussiano di “gruppi di trasformazione” è qui del tutto intenzionale). Le “onde” di espressione che le civiltà antiche hanno emanato nelle loro epoche di esistenza non cessano di espandersi, di rimbalzare, di interferire, di combinarsi con altre onde, con altre sorgenti.

71wa1uypuslGli oggetti di cultura… complessi, strati, correnti

Captare questi flussi, questi resti di complessi etnici perenti, non può ridursi a cura antiquaria, né, tanto meno, a nostalgia primordialista. Significa ripercorrere il formarsi intrecciato, con-fuso, delle identità nel loro evolversi, impegnarsi in una anamnesi culturale e antropologica che prende coscienza della sua stratigrafia e delle sue stesse rimozioni.

Prendiamo allora qualcuno di questi resti, di questi “complessi” che paiono dominare come fulcri distintivi di identità mediterranea attraverso la letteratura etnografica della nostra epoca. [Si intende, la fase cui ci riferiamo qui, quella, già l’abbiamo detto, della seconda metà del Novecento, a partire dagli anni sessanta soprattutto, quando la “Antropologia Mediterranea” si costituisce come specialità regionale] [5]. Il motivo o complesso dell’“onore e vergogna” e intorno a questo, lo sciame di motivi, di tratti e di caratteri focali che si addensano intorno: familismo, clientelismo, patriarcato (ma attenzione, strati di matriarcato…).

Un alone più esteso di risonanze simboliche, emozionali, estetiche avvolge poi questo nucleo più denso di caratteri strutturati: la passionalità meridionale, la vendetta e l’offesa, l’amicizia, il sangue e lo spirito di “razza” (nel senso della solidarietà di stirpe), l’ospitalità come codice morale obbligante etc. E ancora oltre, in una nebulosa di effetti e reazioni più diffuse, e a contatto con altri nuclei di circolazione sociale: la stima, la “critica”, il pettegolezzo, la rispettabilità e il rispetto, la lealtà, il nome. Confido nella pazienza dei lettori: riprendere in mano questi argomenti, ormai talmente sfruttati, può sembrare inutile. Io però vorrei discuterne attraverso un filtro particolare, una chiave che non dia per scontato ciò che decenni di studi sembrano ormai aver ingessato, se non fossilizzato in immagini irreversibili: il “familismo amorale” il “codice della vendetta”, il “delitto d’onore”, il “patriarcato” …

Nel vasto patrimonio di ricerca, di monografie, in realtà, è possibile trovare immagini ed esperienze di inchiesta che ci consentono oggi di guardare con spirito più aperto, e più laico, alla pluralità delle pratiche legate all’onore, alle sue etiche, alle sue dinamiche, alle sue coerenze e alle sue incoerenze. Allargare lo sguardo in questo caso vuol dire destrutturare la totalità, la totalità mediterranea. La variabilità di forme che si rivela quando guardiamo al mosaico non più come un repertorio di “casi”, l’uno adiacente all’altro, ciascuno ben netto nel suo perimetro come una tessera della composizione, acquista i caratteri e le proprietà d’un universo spazio-temporale, un campo di forme mutevoli. Ci disponiamo così a vedere l’insieme nel flusso delle sue parti, e ci avviciniamo ad un risultato inaspettato: disintegrare il complesso, e de-centralizzarlo, guardarlo dai suoi margini periferici, dall’esterno e trasformarlo da fulcro e centro di rotazione del cosmo morale ad elemento del composto, a parte fra parti, a possibile periferia di altri sistemi. Bisogna avvertire qui che lo spazio, o piuttosto il campo di cui si tratta, non va inteso come spazio fisico, e neppure come stratificazione di epoche e culture, ma come spazio di relazioni semantiche, di significati e complessi simbolici. Per essere più chiari, non si tratta solamente di accertare se questa o quella istituzione è nata in un tal luogo e poi si è diffusa ad altri, e a quali, o di indagare sulla genealogia di un costume o di un fatto (magari il carnevale, o il modello della famiglia ceppo, o la lamentazione funebre…), o di stabilire se una certa concezione del mondo deriva come “cascame degradato” da strati sociali egemoni (come in Gramsci).

Tutto questo è importante intendiamoci. È il lavoro dello storico, del filologo e anche per una parte, dell’antropologo che esplora il suo terreno o i suoi terreni, Ma bisogna andare oltre. Bisogna aprire le valvole di scambio fra complessi simbolici, fra universi o falde semantiche che in base a criteri di geografia e di storia non sono in contatto fra loro ma che si riflettono o coalescono quando li si studia nella loro densità semio-logica, e nella loro evoluzione appaiono dissolversi e ricomporsi in configurazioni inedite.

Il sistema o complesso del dono, e del prestigio, così intrecciato con la galassia dei valori di onore, rispetto, dignità… ci porta verso scenari morali dove i motivi classici dell’offesa, della rivalsa, della vendetta e del potere agiscono in forme notevolmente diverse da quelle che ci si aspetta di trovare nello stereotipo del “codice d’onore”. Qui, il motivo della violenza non si impone come principio di comportamento primario come invece accade nelle forme sistemiche più rigide, dove la rivalità agguerrita incombe come ordine normale, come codice d’ethos comune. Certo, un potenziale di violenza latente trascorre da un capo all’altro della socialità benevola e gratificante, ma è una violenza ambigua, a basso regime, e per dir così, amichevole. La violenza del dono, se così si può definire, va vista piuttosto come una forma controllata di confronto rituale, governato dalla forza dell’obbligo morale.

Nondimeno, il dono impegna l’onore, l’onore di chi dà e quello di chi riceve, produce onore, lo accresce, o lo diminuisce, perché il dono dato o negato, rifiutato o non ricambiato compromette l’amicizia e l’intesa fra gli uomini e le famiglie. E può facilmente trascendere in offesa e disonore. Al confine, certo, là dove si rischia di passare dalla gara di prodigalità alla rivalità distruttiva, la forza benefica del dono obbligante sfiora il rischio del trascendersi, quando, appunto il confronto fra posizioni di prestigio o di potere in competizione si inasprisce e aumenta di intensità.

Dono, prestigio, amicizia… sono tutte cose molto “mediterranee” sappiamo bene, ed è facile sconfinare da un dominio simbolico all’altro, da una zona d’ethos all’altra. È facile perché fra l’uno e l’altro non esistono barriere stagne che richiedano di convertire i metodi e le categoria di analisi ad ogni transito di confine. Proprio per questo è bene rinunciare alle etichette, al catalogo. L’«onore» diventa qualcosa di fluido, perfino qualcosa di diverso da se stesso quando si cerca di coglierlo nei contesti differenziati che ruotano intorno a nuclei di valore più distanti. Al punto che ci si pone il problema della stessa validità di nome e di concetto.

I circuiti simbolici diversi fra cui quello dell’onore occupa, o ha occupato nella storia degli studi, un posto centrale – il posto d’onore verrebbe da dire – sono tanti. Non formano un catalogo, né una scacchiera, o una mappa, e neppure un mosaico. Non hanno territorio e non si possono chiudere in scatole di contenuto classificabile. In quanto sono prodotti mentali, replicabili all’infinito, estesi e insieme concentrati, insieme collettivi e individuali, si espandono nel tempo senza attenersi alle leggi del tempo (sono diacronici e sincronici insieme, sono contenuti e contenitori …).

Sarebbe poco intelligente perciò pretendere di seguire scale di priorità, gerarchie disgiuntive e itinerari che tengano conto dell’ordine con cui queste cose sono sistemate. Quest’ordine non esiste. O meglio, è un ordine che contiene mille altri ordini e che si modifica in funzione dei suoi molti centri. Gli esempi che possiamo fare, dunque, non corrispondono ad alcun criterio di scelta “per ordine”, appunto. Sono solo esempi, Il loro compito è quello di provare a mostrare in forma di tentativo, di esperimento mentale. E allora, prendiamoli, o riprendiamoli, frugando tra i molti complessi di cui stiamo dicendo. Il sacrificio, la grazia (la “grazia”), e poi ancora, perché tenerli nell’ombra, il credito e la credibilità, l’obbligo …

Fra quelli che mi sembrano più salienti ho citato il motivo del sacrificio, con le sue inesauribili metamorfosi, le sue varianti, oggi completamente trasfigurato, quasi un principio moderno di dedizione, rinuncia e generosità (Ben oltre l’archetipo biblico o vedico: espulsi, anche qui, la violenza e il sangue, allentate le sue rigide prescrizioni rituali, si riformula come sacrificio senza vittima, pura metafora non più religiosa o rituale, ma laica e profana). Sarebbe interessante passare in rassegna gli usi dello schema sacrificale (rinuncia offerta, sofferenza-offerta come pegno per il bene altrui…) nella vita civile, politica o semplicemente personale (nell’amore per esempio), e studiare per questa via l’emergere di complessi etici e di relazione che toccano strati profondi della cultura contemporanea; forse negli ambienti circumediterranei più che altrove? Si aprirebbero qui, nuove diramazioni che aprono verso depositi limacciosi di negativo: colpa e peccato, peccato come debito, penitenza e riscatto. Ma, dobbiamo fermarci e ritornare al nostro compito principale in questo scritto, argomentare la prospettiva sinottica che stiamo proponendo, nella quale l’insieme e i singoli elementi, la totalità e le parti, l’antico e l’attuale vengono attratti nello spazio indiviso delle loro interazioni.

pitt-riversSindrome vertigine grazia

In questo diverso approccio comparativo, il complesso dell’onore che stiamo seguendo emerge non più come nodo di convergenza delle etno-grafie, e tanto meno come modello universale che si riproduce in molte varianti locali, ma come un caleidoscopio, un caleidoscopio senza margini che ne fissino le combinazioni. L’onore-vergogna d’Andalusia trova eco in una quantità di concrezioni simboliche più lontane; nel complesso baraka-sharaf delle comunità berbere e arabe, nello izzat del Medioriente, e via via negli sciami simbolici che ruotano intorno al nucleo focale dell’onore e del valore, fino al subcontinente indiano. E ancora, sgranando variazioni e contesti più vicini, dalla Grecia alla Sicilia, all’Albania, alla Sardegna… sì da inanellare in una collana lunga e cangiante la balentìa, il timé (e ybris…), il nderoj, nder (Albania). Tutti sembrano animarsi in un dialogo metamorfico da una parte all’altra dello spazio, storico e culturale che separa ceppi di civilizzazione differenti e universi religiosi lontani: sud-europeo, mediorientale, ellenico, turco, nord-africano… Dove ci portano queste tracce così serpeggianti e d’incerta verificabilità? [6].

Possiamo cercare di fare l’inventario delle concordanze e quello delle dissonanze, ma difficilmente potremo ricostruire delle catene di discendenza fra i fatti e i costumi da una regione all’altra. Soprattutto, mi azzardo a dire, non è questo il nostro scopo, e non è il nostro mestiere. Quello che ci attrae, e che ci fa balenare la promessa di nuova conoscenza, è la possibilità di scoprire, nel tessuto dei fatti noti, una trama, o più d’una trama che metta in comunicazione cose che la storia non rivela, trasformazioni e connessioni potenziali che giacciono al fondo dei fenomeni visibili. Soprattutto, captare energie simboliche di cui questo o quel sistema di norme e costumi attualizza una fra le configurazioni latenti, pur non essendo né l’unica possibile né quella originaria o “autentica”. In questo regno dell’attuale e del possibile, l’autenticità è destinata a declassarsi al rango di una pretesa provinciale, di pregiudizio e di illusione.

È in Carmelo Lisón Tolosana che ritrovo uno degli esempi più interessanti di lettura comparativa, di synopsis, uno sguardo con-prensivo, nel senso che ho indicato prima. Ritornando, a molti anni di distanza, sui suoi studi di terreno sul tema Lisón Tolosana esplicita in espressioni dense e penetranti sia la sua presa sull’oggetto di interesse, sia la disposizione di metodo, e la torsione epistemologica da assumere. Il complesso onore e vergogna appare qui come una “sindrome”, una sindrome culturale amplissima, mutante e pervasiva. Polimorfica, labirintica da cui si ricava una sensazione di vertigine:

«complex sybdrome of Honour-Shame….Sensation of vertigo and confusion such is its   historical-cultural polymorphic density».

La densità polimorfica, i volti cangianti della sindrome culturale e della sua storia non rifuggono affatto dalle cose che non sono “fatti” o eventi. Non ci si sottrae al mito, anzi lo si accoglie e lo si introduce nella storia, attraverso latitudini spaziali e temporali lontane. La Grecia antica, la Spagna medioevale e barocca, sono tutti contesti nei quali la navigazione etnografica si addentra tenendo attivo il contatto fra le innumerevoli variazioni del complesso. Il quale complesso non potrà mai esser trattato come sistema chiuso, ma appunto come flusso, e come coalescenza di flussi in un campo di flussi. La terminologia stessa di Lisón Tolosana si discosta dalle rubriche standardizzate dell’etnografia di scuola. Il suo «dynamic discoursive totum», il mondo dei valori, dei modelli etici, delle pulsioni culturali è percorso da vibrazioni, infiltrazioni, riprese non sottomesse ai protocolli della coerenza.

Continuamente trasformantesi, sindromico, il complesso onore/vergogna esce dalle teche museali del costume, del “modello” e del “codice”, per impegnarci nel contatto con qualcosa di più profondo. La sua stessa energia mutante diventa significante; la morale di cui si appropria, sospesa tra libertà e necessità, e contraddizione, non solo si nutre di se stessa, ma ripropone da una parte all’altra della storia, e della variabilità etnica, il suo problema, il suo e il nostro problema. Il problema del vivere e insieme pensare la vita, il problema di trovarsi nello stesso tempo in uno stato di cose attuali, che sono come sono, e insieme a ridosso di altri stati di cose, che potrebbero essere, che forse sono semplicemente invisibili, che saranno, o che potremmo far essere. È flusso tutto questo, è il fluire ambiguo tra differenti realtà sovrapposte, o infiltrate l’una nell’altra, ed è solo così, accettando la sorte di un’etnografia che si immerge nella tensione fra essere e non essere che il vivere e l’osservare possono entrare in osmosi.

«ever-changing flux» …«tension between necessity and freedom, a spiritual morality strict, strangely contradictory» (ibd).
«the syndrome honour/shame is far more complex, ambiguous and dynamic, that real life not easily alloe itself to be constricted by steel, inflexible and unchangeable norms and that, in the cultural universe, there is room for structural dissonance and contraddiction» ( p.140)

complesso ambiguo e dinamico, dissonanza strutturale e contraddizione.

A sua volta   Pitt-Rivers, riprendendo con accresciuto respiro teorico il suo tema, il tema d’una vita di ricerca, a conclusione d’un saggio che quasi suona come riepilogo e bilancio, ci consegna un giudizio non molto diverso: unendo, o accostando il concetto di onore a quello di grazia, ne dichiara insieme la complementarità e l’«evanescenza» , e la contraddittorietà interna: «It [la grazia] shares with honor the same tendency to be evanescent and self-contradictory»[7].

Evanescenza feconda, bisogna dire: già di per se stessa l’apertura al motivo della grazia – poco frequentato dai mediterraneisti accreditati – espande l’orizzonte ermeneutico verso mondi tutti da esplorare. Che cosa fa, che cosa muove, da dove viene e cosa implica questa categoria, “grazia” appunto, che nel corso del suo saggio Pitt-Rivers rivolta in molte direzioni: benedizione, dono, carisma, potere…?

antropologie-de-la-mediterranee-antropology-of-mediterraneanControparte e rovescio dell’onore, la grazia si impregna di energia religiosa, e di religiosità monoteistica, cristiana, prospiciente al suo parallelo orientale, islamico (riaffiora qui il motivo baraka, corrispondente arabo della grazia)[8]. E qui il bacino culturale, lo spirito circumediterraneo torna a chiedere legittimità. Legittimo diritto al transito di significati. Transito, oso dire che può prolungarsi oltremisura magari attraverso contrasti e deformazioni, ma nel continuum fra Occidente ed Oriente, fino a misurarsi con i concetti induisti di purezza – sauca – di karma, etc. Se questa comparazione a distanza ci consente di prender coscienza delle identità culturali, magari antipodiche, nello stesso tempo ci spinge a pensarle nel loro poter essere continuum comparativo nel quale la diversità non è irrevocabile.

Sta a noi, oggi, il compito di andar oltre, di seguire la pista dell’«izzat» che attraversa il Medio Oriente, i territori intermedi, Iraq, Afghanistan, fino al Pakistan – un tempo parte dell’insieme industano. Regioni di fiera fedeltà al valore e alla forza dell’onore di stirpe e di famiglia, in uno con la legge islamica, dove si guardano e si confrontano due mondi: di qua la purezza intransigente che   separa i sessi, reprime le pulsioni, di là l’ideale divino della tenerezza amorosa (l’amore adulterino e divino di Krishna… e Radha ne incarnano l’archetipo) fino alla torbida eccitazione sanguinaria della femminilità divina (Shakti).

Una sorta di honour belt si snoda attraverso una pista transcontinentale, tra Asia meridionale, Medio Oriente, Sud-Europa, Nordafrica. Una fascia di onde culturali lungo la quale serpeggia la “sindrome”, direbbe Lisón-Tolosana, la sindrome dell’identità di sangue, dello spirito di identità fiera e virtuosa, del confronto tabuizzato intorno alla sacralità della famiglia, del grembo comune che obbliga e detta insieme passione e diritto.

Ma, ancora una volta: abbiamo a che fare con la stessa cosa, con un unico plesso psico-simbolico, declinato in versioni, toni e colori diversi da un capo all’altro della geografia dell’onore? Su questo punto, la critica di Goody torna all’ordine del giorno, non per essere accolta, e per ottenere ragione, ma per essere a sua volta sottoposta a discussione. Se, infatti, la specificità mediterranea non può essere argomentata rifacendosi alle voci generiche che definiscono lo spirito di famiglia, il senso di solidarietà generazionale, la passione eccetera, insomma il familismo, perché questi sono tratti che esistono in ogni cultura del mondo, e non aggiungono niente di significativo alle pretese di una anthropologie méditerranéenne , non si può neppure chiudere la via alla comparazione quando questa promette, e anzi sollecita a situare questa nostra area di interesse, in un contesto di continuità con altre latitudini culturali, ad alcune piuttosto che ad altre.

Con-prendere, come ho già detto, significa includere nella vicinanza anche ciò che non appare affatto vicino. Significa assumere la lontananza come punto di vista altrettanto utile e rivelatore, significa andar fuori e guardare da fuori, magari per ritrovare le stesse cose che ci appaiono uniche quando guardiamo dal di dentro.

Le diverse orbite di circolazione scientifica, quella degli storici e quella degli antropologi, sono destinate probabilmente a non congiungersi mai, e forse è bene che sia così. Nel caso di Goody e di Braudel si potrebbe dire tuttavia che essi, tanto l’uno quanto l’altro, hanno cercato di inventare dei percorsi misti, o quanto meno di esporsi all’attrazione dell’orbita concorrente. Resto convinto del fatto che i rischi di queste scelte “devianti” siano ampiamente compensati dai frutti di conoscenza che ne sono venuti, e che continueranno a venire.

 Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Non sembrerà fuori luogo un richiamo a Freud che, in Il disagio della civiltà postula, come una sorta di esperimento mentale, una metafora ardita, controfattuale: egli immagina una visione della storia di Roma, della città, in cui il passato e i suoi vari strati si conservino compresenti, come se le epoche e le loro configurazioni urbane si presentassero insieme, l’una sopra l’altra ma l’una insieme alla altra. Una immagine del tutto controfattuale, certo, ma che consente di riunire diacronia e sincronia, transizione e simultaneità…
[2] Contenente o continente? Se una cosa è chiara a partire dalla geografia, è il fatto che il Mediterraneo non definisce un continente; per noi isolani, sardi, corsi, siculi e forse cretesi, ciprioti, dall’altra parte del mare si trova “il continente” e “continentali” sono gli abitanti di quelle terre… così come, per i filosofi britannici le scuole di pensiero europee appaiono, di nuovo, “continentali).
[3] Un commento alimentare, o meglio sulla identità alimentare, ormai convenzionalmente codificata nella definizione, tanto stereotipata quanto vaga della “dieta mediterranea”.
Chi come me ha vissuto nella sua infanzia e adolescenza la cucina familiare della ultima fase della economia contadina e di paese, nel Sud e nelle Isole, penso che abbia difficoltà a ritrovare in quella formula i gusti e i modelli alimentari del proprio passato mediterraneo. La “dieta mediterranea” era fatta di pane, legumi freschi e secchi (fave, ceci, piselli), prodotti di raccolta, cacciagione, uccellagione (dalle lumache ai funghi, ai cardi selvatici, grive, etc) i prodotti del pollaio (uova e piuttosto di rado, polli). Per noi sardi, poi, una modesta disponibilità di pescato (muggini, ghiozzi, anguille).
La distinzione fra cibo quotidiano e cibo festivo, come quella regolate dalla scala di condizione sociale erano inflessibili, mentre assai scarso era l’apporto di alimenti confezionati e di importazione tonno, scatolami, burro, formaggi di fabbricazione industriale erano praticamente assenti.
[4] In altri ambienti scientifici, nelle scienze fisiche, come in biologia, e più in generale nelle ricerche sulla complessità il tema acquista dimensioni e implicazioni molto impegnative, in particolare per quel che riguarda non solo la dinamica della totalità e della sua composizione, ma la espressione di ordini emergenti e la causazione up-down…
[5] La Antropologia del Mediterraneo ha potuto raggiungere, forse al culmine del suo sviluppo (o alla soglia del suo compimento?) lo statuto di una vera e propria specialità disciplinare, una sorta di antropologia regionale al pari di quelle, più affermate (africanista, americanista, oceanista etc), sul finire del secolo. Una galleria affollatissima di studiose e studiose, si può trovare nella corposa raccolta di saggi pubblicata a cura di Dionigi Albera, Anton Blok e Christian Bromberger, L’anthropologie de la Méditerranée,  Anthropology Mediterranean, Maisonneuve &  Larose, Maison méditerranéenne des sciences de l’homme, Parigi 2001.
[6] Se le seguissimo, per esempio, il filone del delitto d’onore fino al limite orientale dell’Eurasia, in pieno paesaggio hindu, scopriremmo che lo schema si deforma strutturalmente. Laggiù, infatti, il delitto diventa atto di giustizia, e non riguarda né l’adulterio, né la passione e la gelosia, ma l’ethos dell’appartenenza. Il crimine è quello commesso dalla coppia di innamorati che, unendosi a dispetto della gerarchia di casta, mescolando l’eredità di discendenze incompatibili, per rango o per identità etnica, incorrono nella sanzione violenta che sarà decretata dal panchayat di villaggio, o di più villaggi. Il matrimonio turpe e blasfemo viene punito spesso con il bando dei colpevoli dalla comunità, e, non di rado, con la morte. – la cronaca ne dà notizia più che occasionalmente, soprattutto negli Stati più conservatori, il Rajasthan, il Gujarat, l’Aryana.
[7] Julian PITT-RIVERS The place of grace in anthropology 2011 | HAU: Journal of Ethnographic Theory 1 (1): 423–450 ISSN 2049-1115 (Online) | R e p r i n t | (Ristampa del testo, postscript, in Peristiany e Pitt-Rivers, a cura, Honor and Grace in Anthropology, Cambridge 1992.
[8] Non avevo mancato di farne esplicita menzione nel mio testo sulla famiglia.
Riferimenti bibliografici
Albera Dionigi, Anton Blok e Christian Bromberger, L’anthropologie de la Méditerranée,Anthropology Mediterranean, Maisonneuve &   Larose, Maison méditerranéenne des sciences de l’homme, Parigi 2001.
Braudel Fernand, a cura, La Mediterranée, due volumi: I L’espace et l’histoire, e II Les hommes et l’Héritage) Arts et Métier Graphiques, Parigi 1978
de Martino Ernesto, La fine del mondo. Guida allo studio delle apocalissi culturali, Einaudi Torino 1977
Galasso Giuseppe, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Guida, Napoli 2009
Geertz Clifford, Meaning and Order in Moroccan Society: Three Essays in Cultural Analysis, 1979
Goody Jack, Famiglia e matrimonio in Europa. Origini e sviluppi dei modelli familiari dell’Occidente, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1984
Guichard Pierre, Structures sociales «orientales» et «occidentales» dans l’Espagne musulmane, Paris-La Haye, Mouton 1977
Gulick John, The Middle East: An anthropological perspective, Goodyear pub. Co., Pacific Palisades 1983
Herzfeld Michael, Anthropoly through the Looking Glass. Critical Ethnography in the Margins of Europe, Cambridge University Press, Cambridge 2010
Lisón Tolosana Carmelo, The Ever-Changing Faces of Honour, in Albera et Al. 2001: 133-147
Peristiany J. C., a cura, Mediterranean Family Structures, Cambridge University Press, Cambridge 1976
Peristiany, John George e Pitt-Rivers Julian, a cura, Honor and Grace in Anthropology, Cambridge   University Press, Cambridge 1992
Pitt-Rivers Julian, The people of the Sierra. Weidenfeld & Nicolson Londra 1954
Pitt-Rivers Julian, The place of grace in anthropology 2011 «HAU: Journal of Ethnographic Theory» 1 (1): 423–450 (Online) | R e p r i n t | (Ristampa del testo, postscript, in Peristiany e Pitt-Rivers, a cura, Honor and Grace in Anthropology, Cambridge 1992).

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Pier Giorgio Solinas, ha insegnato per molti anni Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università di Siena, e in diverse Università all’estero. Ha lavorato e pubblicato soprattutto sulla parentela, l’antropologia economica, l’etno-demografia e la cultura materiale, con ricerche sulla mezzadria toscana, sui pastori sardi immigrati in Toscana, sulle forme recenti di famiglia. Tra le sue ultime pubblicazioni: Colore di pelle colore di casta. Persona rituale, società in India (2015); Ancestry. Parentele elettroniche e linguaggi genetici (2015); Lettere dagli antenati. Famiglie, genti, identità (2020).

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