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Terrorismo tra apatia e nichilismo

copertinadi Annamaria Clemente

Nel mondo della letteratura europea abita, da qualche anno, un autore distintosi immediatamente per una particolare attitudine a filtrare gli eventi del mondo, rielaborandone i contenuti in modo acuto: Pascal Manoukian, scrittore spiccatamente sensibile, detiene la facoltà di rendere intellegibili fenomeni altrimenti poco interpretabili. Autore particolare, educato all’empatia,  abbiamo già avuto modo di incontrare e apprezzare, grazie a Derive (66thand2and, 2017) e  a quel particolare sguardo, felice compromesso tra il sentire del singolo, del giornalista inviato di guerra, alla ricerca delle proprie origini e la Storia densa del popolo armeno. Sguardo onnicomprensivo che correla ed interseca le storie raccontate da altri con la Storia, sguardo reso profondo dal bisogno documentaristico e dall’istinto narrativo, traiettorie che procedono parallelamente, alimentandosi vicendevolmente e trovando la propria radice nella consapevolezza di far parte di una violenta quanto tragica storia: quella del genocidio armeno.

L’imperituro proposito: «[…] Chaque bourreau m’a renvoyé au destin de ma famille, à celui des Arméniens. C’est le manque de contours de ma propre histoire qui m’a incité à dessiner celle des autres. On ne fait jamais rien par hasard» (Le diable au creux de la main, 2013), ritorna anche nell’ ultimo romanzo Ciò che stringi nella mano destra ti appartiene (66thand2and, trad. it. F. Bonomi, 2018).

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Dopo l’attentato terroristico a Barcellona

Karim, figlio di algerini musulmani, Charlotte, figlia di armeni ortodossi, uniti dall’unica fede possibile: «[…] la felicità. Uno stato di grazia che li avvolge e nel quale si crogiolano dal momento del loro primo bacio, avvenuto sulle note di Don’t Stop Me Now, un evergreen anni Settanta» sono i protagonisti di questa storia. Sulle note di quella canzone, i due costruiscono la loro relazione, edificano una famiglia e ben presto il ventre di Charlotte prende «le sembianze di una moschea. Al suo interno batteva un cuoricino a centocinquanta pulsazioni per minuto al quale già immaginava di canticchiare tutte le parole del mondo». Ma a dispetto della felicità e di quelle parole : «Sono una stella cadente. Una tigre che sfida le leggi della gravità. Sono una macchina da corsa. Sto viaggiando alla velocità della luce. Vado, vado, vado. Nessuno mi può fermare», la vita di Charlotte viene fermata insieme a quella della sua creatura nel modo più atroce: a cena con le amiche, al Zébu blanc, per festeggiare il cambiamento in atto sarà vittima di un attentato. Il suo corpo, il bellissimo corpo amato da Karim verrà disintegrato dalla follia di Aurélien, francese radicalizzato ed ex compagno di scuola di Karim. Per il protagonista, da quella notte, gli occhi fissi sull’immagine di sacchi appiattiti:

«Dove sono finite le curve del suo corpo, le sue anche, il suo seno, il suo pancione, il suo bambino e i suoi calci? È tutto immobile, senza forma. Ha letto che i kamikaze imbottiscono le cinture esplosive di chiodi e bulloni per non lasciare neanche un solo pezzo di corpo identificabile, e che basta un solo proiettile di arma da guerra per sfigurare un volto. Per chi rimane, non riuscire a riconoscere la persona amata è una doppia pena, perfino peggio che non ritrovarla».

inizierà una discesa negli inferi: si radicalizza, intraprenderà il viaggio per la Siria, con il solo obiettivo di rintracciare il sicario che armò la mano di Aurélien e vendicare così Charlotte e la sua bambina, la piccola Isis, un nome che avrebbe dovuto omaggiare la dea Egizia «dai poteri infiniti», unica dea capace di riassemblare il corpo del marito Osiris.

Lo sconcerto di Karim è certamente quello di un uomo che ha perso la donna amata e il futuro. L’attenzione posta dall’autore alla specifica modalità di uccisione, quella kamikaze, avviene mediante la descrizione dei pensieri di Karim, dei ricordi che rimandano ossessivamente al corpo di Charlotte, un corpo da amare, ma anche un corpo in assenza che continua ad abitare negli spazi della casa mediante la sua immaginazione, così come è un corpo senziente, materia inanimata che continua a provare sensazioni. La lettura suggerisce una vera e propria impossibilità da parte del protagonista nell’accettare che la sua compagna sia stata vittima di una macabra quanto empia dipartita, pensiero ovvio ma che permette di fare una digressione interessante. Secondo Fabietti a monte della incomprensione vi è un problema legato ad un comportamento che gli uomini hanno incorporato nel corso dell’evoluzione, divenendo alla lunga parte del corredo genetico:

«Tuttavia credo che all’origine dello sconcerto di fronte a questo modo irrazionale di fare la guerra vi fosse l’abitudine, forse filogeneticamente incorporata, di non poter concepire l’uccisione del proprio simile senza la mediazione di un’arma e, naturalmente, facendo uso del proprio corpo. Lo scandalo dell’attentatore suicida consiste probabilmente nel fatto che un simile gesto contravviene ciò che l’essere umano è andato elaborando nel corso della sua evoluzione» (Fabietti: 66).

2Spiega l’antropologo appoggiandosi alle teorie di Burkert, che l’aggressività intraspecifica, che in tutte le specie è inibita, negli esseri umani al contrario viene sviluppata con la caccia. La caccia e l’evoluzione della tecnologia bellica offrirono la possibilità agli uomini di uccidere animali con strumenti a distanza, che mentre eliminavano il contatto visivo diretto tra uomo e vittima, disinnescavano il meccanismo naturale di controllo costituito dall’inibizione all’aggressività intraspecifica. Secondo l’antropologo è alla luce di questi fatti che il fenomeno dell’uccisione uccidendosi e lo sconcerto suscitato da tale atto privo di razionalità devono essere interpretati adottando nel farlo un punto di vista emico. L’osservatore, per valutare concretamente il fatto e sfuggire ad un’analisi generalizzante che rischia di non giungere alla piena comprensione deve necessariamente assumere uno sguardo interno alle categorie di pensiero di chi sceglie di immolarsi per un bene superiore:

«Oltrepassando lo sconcerto derivante dallo spettacolo di un conflitto armato in cui l’attaccante sceglie premeditatamente e sistematicamente di autoeliminarsi nel momento stesso in cui annienta il nemico, e cercando di non cadere nel tranello che consiste nel ricondurre il fenomeno a categorie note e precostituite (kamikaze, follia, disadattamento ecc.), dovremmo cercare di “assumere il punto di vista dell’attore” per parafrasare una celebre affermazione di Malinowski – e muovere dalle autorappresentazioni di coloro che hanno fatto dell’attentato suicida la meta finale della propria vita oppure un gesto apprezzabile e/o da incoraggiare» (Ivi: 67) 

Pascal Mounakian è perfettamente in linea con quanto auspicato da Fabietti tanto che Karim tenterà di assumere il punto di vista dell’attore calandosi realmente nella parte, recitando il copione del born again, del musulmano rinato, nel tentativo di vendicarsi e di comprendere. Per indossare  quella pelle il primo passo è quello di entrare nella rete, nel doppio senso del termine:

«Vuole affrontare il mostro, tagliargli la testa o perdere la sua. Abu Karim sarà il suo cavallo di Troia. Conferma. Senza ripensamenti. Benvenuto su Facebook lo accoglie il computer. Benvenuto nell’Isis pensa Karim con la paura del vuoto, come sull’orlo del precipizio».
pierluigi-longo

@Pierluigi Longo

È interessante notare in questo passo come nel pensiero del protagonista vi sia identità tra l’organizzazione terroristica e il social network, tale corrispondenza valutata in modo tanto ovvio quanto naturale è indice di un attento studio da parte dell’autore riguardo le teorie e le analisi sociali, psicologiche o politiche che in questi anni, a partire dagli eventi di Charlie Hebdo e del Bataclan, si sono moltiplicate. Queste evidenziano come esista un collegamento diretto tra Isis e utilizzo della rete Internet, l’organizzazione avvalendosi degli strumenti offerti dal web per attrarre proseliti. Occultati dai media informatici, impiegando al massimo grado un linguaggio accattivante, i fautori dell’Isis tessono reti attraverso la diffusione di video dal forte impatto emotivo, millantando doni e ricompense ultraterrene, lanciando messaggi sovrasaturi di slogan galvanizzanti riferite a sure decontestualizzate, richiami altamente ambigui che, se captati da individui fragili e deboli, riescono a far presa sull’ immaginazione, sul bisogno di essere parte di un tutto. Mettendo in gioco queste dinamiche che fanno leva sul gruppo, su un’idea di comunità, della possibilità di un rispecchiamento individuale e sociale, offre loro la possibilità di impiegare in modo soddisfacente una vita spesso vuota che non trova speranze a cui aggrapparsi.

L’adesione allo Stato Islamico si configura dunque come la possibilità di colmare tali vuoti, di avere risposte a interrogativi esistenziali, di creare un’identità altrimenti impossibile da plasmare o gestire nel mondo occidentale, un mondo in cui troppo spesso tali soggetti non riescono ad identificarsi. In particolare ad esserne sedotti sono giovani e giovanissimi che vivono in situazioni marginali, individui vittime di esclusione sociale,  privati di qualsiasi futuro, spesso ragazzi e ragazze non necessariamente collegati alla religione islamica, come mostrano molte delle biografie tracciate sui born again o sui foreign fighters, i combattenti stranieri che si recano in Siria per ingrossare le file del Califfato. Sono giovani disorientati che covano sentimenti conflittuali nei confronti della società, delle istituzioni, della famiglia e l’incontro con l’organizzazione terroristica riesce a dar un senso al loro caos interiore. Scrive il politologo Oliver Roy a tal proposito: 

«Troviamo l’Isis al crocevia fra due immaginari, uno religioso e classico (il Califfato), l’altro connesso a una certa cultura “giovanile” e che si manifesta anche in contesti privi di alcun rapporto con l’Islam» ( Roy 2017: 62).

Spesso questi ragazzi hanno alle spalle storie di ghettizzazione, di esclusione, di alcool o droga, di mancanze materiali e di assenze sentimentali. Anche nel romanzo di Manoukian quasi tutti i percorsi di radicalizzazione raccontati presentano tale contraddizione, tali modelli narrativi;  è così nel racconto di di Lila:

« Ci siamo conosciuti su facebook. Prima ero haram: fumavo, bevevo, me ne fregavo di tutto, la moschea non sapevo neanche dove fosse, non conoscevo mezza preghiera. Mia mamma era disperata. Poi è arrivato lui e mi ha aperto gli occhi con l’Islam e il resto. Ora, ti giuro, la cosa più importante per me è Allah. È una macchina, si ferma, beve un sorso di limonata e poi riparte. Sarah guarda la foto di Hicham: una ventina di anni, tenuta mimetica e fascia in testa. Beh, mica male. È siriano?. Lila bacia lo schermo. «Algerino puro, come me. Cazzo, quant’è cogliona mia madre, dovrebbe essere felice».

3O ancora: Aurèlien viene circuito non in una moschea ma in palestra, non luogo di culto religioso ma della persona, del corpo. Continuando con la teoria proposta, l’antinomia non va ricercata in cause di ordine sociale come i modelli interpretativi dominanti affermano perentoriamente riconducendo la complessità del fenomeno ad un unica variabile, quella di una mancanza da parte della società che non riesce a farsi carico e a risolvere le situazioni di marginalizzazione, di inclusione sociale. Andrebbe piuttosto indagato l’orizzonte ideologico entro cui si muovono tali attori, le autorappresentazioni che essi costruiscono, i modelli narrativi utilizzati e introiettati. Secondo Roy emerge una certa tendenza al nichilismo ravvisabile nell’età adolescenziale, frutto velenoso di quel disagio giovanile  deprivati di ogni valore, un certo stato psichico che altera la percezione della realtà azzerando  ogni tentativo di progettualità e di speranza nel futuro, uno sguardo disilluso nei confronti delle istituzioni, ma soprattutto carico di quella rabbia, di quel  ribelle bisogno di rottura con la generazione precedente, di rivolta contro i propri padri, che è necessario per costituirsi persona ma che qui è spinto al limite, assume i contorni della distruzione:

«A nostro parere, è l’associazione sistematica con la morte a costituire un aspetto chiave dell’attuale tendenza alla radicalizzazione. In tal senso, la dimensione nichilistica appare fondamentale. Ad affascinare non è la costruzione dell’utopia ma la rivolta pura» (Roy 2017:13).

Il terrorismo non è quindi frutto di un processo di radicalizzazione dell’Islam, quanto piuttosto il processo contrario quello «dell’islamizzazione della radicalità» (ivi:14), di una violenza che si presenta nelle vesti di thanatos, dell’impulso alla morte:

«L’Isis non ha creato il terrorismo ma ha attinto a una riserva già esistente. La sua abilità è stata quella di offrire ai giovani la costruzione narrativa all’interno della quale possono realizzarsi. Se poi altri volontari votati alla morte, che siano psicopatici o ribelli senza causa, che non hanno molto a che fare con la causa dell’Isis, si appropriano di una narrazione in grado di dare alla loro disperazione  una dimensione planetaria, tanto meglio per il Califfato» (Roy 2017:13).

È la fascinazione della morte il richiamo che fa scattare l’affiliazione al gruppo terrorista, non il credo in una non meglio identificata realizzazione utopica, ma «la rivolta pura» (ivi:13). Questo tipo di nichilismo continua Roy ha caratteristiche apocalittiche, globali, mistiche:

«In compenso, la morte cancella una vita di peccati. Ciò spiega perché agli occhi dei jihadisti la questione della pratica religiosa non sia fondamentale: la morte lava tutte le mancanze. Il Nichilismo (l’inanità della vita) è parte integrante del loro misticismo (raggiungere Dio)». (2017:64).

Ritroviamo nel primo capitolo del romanzo un breve scambio di battute tra Charlotte e Karim che, ad una prima lettura potrebbe sembrare sibillino, ma risulta invece rivelatore alla luce di quanto esposto da Roy:

«Non mi hai spiegato cosa spinge i ragazzi di qui ad andare là.
Adesso è lui che vorrebbe riattaccare.
Cosa vuoi che ti dica, sono ragioni talmente distanti dai nostri valori che è difficile anche solo immaginarle. È così per ogni generazione. I giovani comunisti andavano in Unione Sovietica per vivere in una società senza classi, gli hippie partivano per Katmandu con il sogno di un mondo senza violenza… E per questi tizi qui l’avventura non è più fare la Parigi-Dakar, ma la Parigi-Raqqua».

4Manoukian utilizza quindi la medesima chiave di lettura per scardinare il fenomeno. Questo scambio di battute tra i due protagonisti richiama l’ipotesi che nella scelta di affiliarsi giochi una certa tendenza alla ribellione anche se i veri motivi restano distanti dai nostri valori. Ciò è particolarmente vero se si tenta di analizzare la figura di Aurélien. L’ex compagno di classe di Karim rientra pienamente nel modello teorico sopraposto: è un ragazzo che la società non ha saputo supportare, un brillante studente che viene arrestato nel suo percorso scolastico da una perdita, quella paterna, dalla mancanza di risorse finanziarie, e ammaliato dal denaro facile, sotto il peso delle fragilità frequenterà cattive compagnie, inizierà a drogarsi, a spacciare, fino alla tragedia immane: la perdita della sorella più piccola che segnerà il suo non ritorno. Poi l’incontro con Akim, Assan ed il «clan dei barbuti», «la sua nuova famiglia» e:

«Per Aurélian è stato come tirare lo sciacquone sulla sua vita di merda: il sangue sul parafango, pulito; la testa di sua sorella sul marciapiede, volatilizzata: gli scatti d’ira di suo padre, cancellati; e lo stesso valeva per i compagni di università diventati ingegneri  senza di lui, per il peso dell’assenza, per il sorriso perduto di sua madre, per i fratelli Zéroul e l’ansia di dover pensare a tutto da solo, come un’unica ruota e attento a non uscire mai di strada».

Da lì una volta trovato il gruppo, la scelta di radicalizzarsi sarà un passo breve. Manoukian descrive il processo coercitivo a cui sono sottoposti i neofiti, lo stretto e serrato controllo sul fisico e sulla mente del soggetto, l’isolamento totale. Ma è soprattutto il nichilismo a caratterizzare il personaggio di Aurélien, questa tendenza all’autodistruzione, la pulsione verso la morte, l’odio per la madre, il padre, i sensi di colpa per la sorella, la ricerca del nulla eterno, della propria distruzione per essere perdonato, per essere salvato:

«Aurélien non prova niente, nessuna paura, nessun dolore, nessuna angoscia. Le due pasticche di Captgon gli hanno riempito il cervello di slogan galvanizzanti. È totalmente disinibito. La morte non è più un tabù. Può uccidere o farsi uccidere, non ha più alcuna importanza. Anche lui morirà. Si è preparato per l’occasione. Si è profumato e truccato gli occhi per presentarsi al cospetto di Dio, come i guerrieri afgani. Nel fodero della giacca ha cucita una frase del Profeta. Vorrei combattere per Allah ed essere ucciso».

Leggere la scelta di farsi saltare in aria attraverso la lente proposta da Roy chiarisce ciò che nel romanzo appare come un rebus. Manoukian dissemina varie interpretazioni ma la realtà ultima è inafferrabile, i reali motivi che spingono Aurélien rimangono oscuri o comunque poco giustificabili. A rafforzare lettura del romanzo attraverso il nichilismo potrebbe contribuire il tentativo di accostare il romanzo precedente. Idea poco peregrina dal momento in cui appaiono in qualità di cameo due dei personaggi di Derive: Chanchal e Iman. Se Derive si caratterizzava per una tecnica narrativa che puntava a sollecitare nel lettore l’empatia, quella capacità di sentire dentro, di comprendere pienamente lo stato d’animo altrui  qui ci ritroviamo al suo opposto, all’immagine rovesciata, ad essere sollecitata è l’apatia, nel senso di a phatos, assenza di passioni, del vuoto interno. Il lettore non riesce a comprendere così come Aurélien risulta apatico, vuoto, un vuoto che contiene il nulla.  Ancora una volta Pascal Manoukian riesce a restituire in un romanzo estremamente  acuto la chiave di lettura per penetrare le logiche della follia che abitano i nostri giorni.  

Dialoghi Mediterranei, n. 34, novembre 2018
Riferimenti bibliografici
Fabietti U., il debito inestinguibile: sul sacrificio, pp.2-84, ipertesto disponibile al sito: http://www.formazione.unimib.it/DATA/Insegnamenti/_107/materiale/fabietti%20-%20il%20debito%20inestinguibile.%20sul%20sacrificio.pdf
Roy O., 2017, Generazione Isis: chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perchè combattono l’Occidente, Feltrinelli, Milano
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Annamaria Clemente, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni. Su questo tema ha scritto saggi e numerose recensioni.

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