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Teatro e ritualità del quotidiano: dalla proposta di matrimonio all’uccisione del maiale
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2022 @ 01:29 In Cultura,Letture | No Comments
Per gli 80 anni di Pietro Clemente
di Mariano Fresta
Il folklore e il teatro secondo Frazer e Toschi
Fino ad oltre la metà del secolo scorso chi in Italia si occupava di folklore e di teatro popolare tradizionale si imbatteva immancabilmente nelle teorie ottocentesche di James Frazer e nel volume Le origini del teatro italiano di Paolo Toschi, che di quelle idee positivistiche era convinto assertore e divulgatore. Non c’era usanza e credenza che non trovasse nell’enciclopedico Il ramo d’oro di Frazer una qualche parentela con la ritualità presente nella cultura classica o in quella di popolazioni allora chiamate “primitive”. Per Toschi, poi, in tutte le forme conosciute di teatro (sia quello popolare/folklorico sia quello cosiddetto “borghese” o culto) e nei loro elementi costitutivi si potevano individuare residui di antiche ritualità agrarie legate ai fenomeni cosmici o alla fertilità della Terra. Queste teorie, affascinanti da un punto di vista narrativo, si basavano, tuttavia, su congetture non tutte verificate o verificabili se non in alcuni loro aspetti; ma esse, per la loro capacità di dare semplici spiegazioni a fenomeni complessi e a prima vista misteriosi, trovavano una gratificante accoglienza specialmente tra i ricercatori dilettanti di folklore e nella stampa di divulgazione [1].
Questa diffusione del frazerismo si può spiegare col fatto che la curiosità, che è in tutti noi, di sapere qual è l’origine delle cose, come sono nate e come si sono trasformate fino ad arrivare al nostro tempo, era pienamente soddisfatta dall’interpretazione che di molti fenomeni sociali e culturali dava quel tipo di evoluzionismo positivistico. Queste teorie influenzavano particolarmente gli studi sul teatro popolare perché in quest’ultimo si addensavano frammenti ritualistici che avevano a che fare con il culto degli alberi, con le celebrazioni solstiziali, con l’agonismo (corse di cavalli, tiri con l’arco, gare podistiche) presente in certe feste antiche e in tutti i drammi che si basavano sul contrasto, per esempio, tra Bene e Male, tra giovani e vecchi, e così via.
Se, però, ci soffermiamo a considerare cos’è il teatro, come si realizza, che funzione ha in una qualsiasi comunità umana, possiamo vedere che, a prescindere dalle credenze in divinità cosmiche o ctonie e senza scomodare cerimonie solstiziali e fasi lunari, esso contiene in sé un qualcosa che possiamo definire “ritualità”. Il teatro dell’antica Grecia di ciò ci dà testimonianza, perché, in quel Paese le questioni di grande importanza per la convivenza civile e sociale (cos’è e come si esercita il potere politico, cosa sono la morale e la legge, ecc.) erano discusse pubblicamente per mezzo delle rappresentazioni teatrali in determinati periodi dell’anno ritenuti sacri.
Il tema da dibattere veniva trasformato in un’azione drammaturgica durante la quale i suoi vari aspetti erano affidati a “personaggi simbolici”: tra questi, quindi, si svolgeva il dramma, alla fine del quale tutto si ricomponeva e gli spettatori, ‘purificatisi’, per quello che avevano visto e sentito, e avendo rinsaldata la consapevolezza che precise leggi regolano la vita di una comunità, potevano tornare alle loro occupazioni quotidiane e agli usuali rapporti sociali. Nonostante ci separino culturalmente circa venticinque secoli dagli antichi Greci e non riteniamo più che gli spettacoli abbiano una qualche sacralità, il nostro teatro contemporaneo continua a funzionare esattamente allo stesso modo di quello di Sofocle e di Euripide. Constatiamo, infatti, che nei drammi di Pirandello e Beckett il dibattito su temi cruciali dell’esistenza si svolge tra personaggi che sono simbolo di qualcosa, che esso ha luogo in sedi deputate come i moderni edifici teatrali in città, esattamente come nell’antichità classica le questioni erano discusse nei teatri all’aperto, con le gradinate di pietra, gli stessi che ancor oggi ammiriamo ad Epidauro o a Siracusa o in qualsiasi cittadina di origine greco-romana di qualche importanza. La stessa cosa avviene nel campo del folklore, con la differenza che gli spettacoli campagnoli hanno luogo nelle radure dei boschi, nelle piazze, nelle cucine contadine e nelle stalle.
Nonostante le tesi di Toschi, quindi, è difficile pensare che tutte le rappresentazioni teatrali si possano far risalire al culto degli alberi, alle feste del solstizio d’inverno e alla natura che periodicamente muore e rinasce. Non si vuol con ciò negare che queste credenze abbiano avuto una loro influenza sulla cultura di tutti i popoli della Terra, ma siccome tutto scorre e si trasforma, è logico ipotizzare che, soprattutto da qualche secolo a questa parte, le fonti ispiratrici della ritualità siano stati altri elementi ed aspetti dell’esistenza umana. Ritualismo e simbolismo tra l’altro, sono due componenti connaturati, rispettivamente, alla cultura e al linguaggio, dei quali ci serviamo quotidianamente senza magari esserne coscienti. Mangiare è un fatto naturale e necessario, ma apparecchiare la tavola per il pasto principale della giornata, trovarsi con tutta la famiglia riunita attorno al desco, con precise norme per l’assegnazione dei posti dei partecipanti e la disposizione dei piatti e delle posate, è certamente un’azione che ha un suo ritualismo, che una lunga consuetudine ha reso impercettibile. Nel caso in cui però il pranzo preveda la presenza di ospiti o si svolga durante un’occasione festiva, questa carica di ritualità diventa ancora più forte ed evidente.
Quando ancora imperavano le teorie di Frazer e Toschi tutte le manifestazioni di teatro popolare (dal Bruscello alla Vecchia, dalle Bosinate al Maggio) sono state interpretate alla luce del rito; ma erano già evidenti alcuni aspetti che rimandavano invece alle condizioni di vita di coloro che di quelle tradizioni erano portatori. Specialmente nel teatro comico erano chiari i riferimenti alla vita di tutti i giorni, ma anche in quello drammatico gli aspetti che sembravano rifarsi a concetti metafisici, come il Bene e il Male, potevano facilmente essere ricondotti alle esperienze di vita delle comunità contadine e alle loro aspirazioni ad un reale riscatto sociale e culturale.
Ci sono dunque nella vita quotidiana momenti in cui i nostri comportamenti, pur senza volerlo, si trasformano in operazioni rituali e queste, a volte, danno vita ad azioni teatrali. Questo tipo di ritualità è molto diffusa ovunque e in tutte le classi sociali, ma si manifesta con maggiore evidenza nelle campagne e nelle città di origine contadina, in cui più tenace è la cultura tradizionale, specie quando siamo in prossimità di eventi cosmici, come i solstizi, oppure nei periodi in cui si affrontano vicende importanti per la vita rurale, come la semina oppure l’uccisione del maiale.
Molte attività agricole, infatti, si svolgono senza badare se in esse ricorrano elementi di ritualità, mentre l’uccisione del maiale assume le caratteristiche proprie di un rito tanto da influenzare perfino la comunicazione commerciale, come ci testimonia la documentazione fornitaci da una breve ricerca su Internet: infatti, in quasi tutte le pagine web in cui si parla dell’evento, l’espressione «uccisione del maiale» è preceduta dalla parola “rito”. Ci sono in realtà motivi precisi perché l’evento sia così definito: innanzitutto esso avviene sempre in un determinato periodo dell’anno, quello più freddo, che va da Natale alla fine di febbraio; è (o meglio, era) poi un evento atteso dalle famiglie rurali da molti mesi perché era fondamentale per l’acquisizione di importanti alimenti ricchi di proteine e di grassi. Fino a quasi metà del Novecento, l’alimentazione giornaliera dei contadini, infatti, si basava essenzialmente sul pane e su verdure crude e cotte, molto raramente comparivano nei loro piatti uova e carne di qualsiasi animale; così il maiale era quasi l’unica fonte di carne e di grassi che le tecniche di conservazione permettevano di avere a disposizione fino all’estate, quando si svolgevano i lavori più pesanti di tutta l’annata agraria. Tutto ciò faceva sì che nella giornata in cui si uccideva l’animale si creasse un’atmosfera di ritualità che aveva il suo apice in una festa collettiva in cui erano consumate quelle carni che non potevano essere conservate. In Piemonte e in molte altre regioni questo evento aveva il nome, appunto, di Festino [2].
Non è qui il caso di dilungarsi sul perché il maiale costituisse un elemento molto importante non solo dell’alimentazione ma anche dell’economia della famiglia contadina: basta dire che si allevava con poca spesa, perché si lasciava pascolare nei boschi, dove trovava ghiande e castagne e radici varie, e nei campi a maggese, mangiava gli scarti dell’alimentazione umana (frutta e verdura andata a male, avanzi dei pasti, ecc.). Esso, dunque, ha la prerogativa di essere onnivoro, di aumentare considerevolmente il suo peso in meno di un anno e di trasformare ciò che mangia in proteine e grassi; le sue carni, poi, possono essere conservate per diversi mesi grazie a procedimenti molto economici (salatura, aromatizzazione con pepe, e stagionatura in luoghi asciutti e arieggiati), ed infine è tutto utilizzabile, anche nelle parti non edibili, perché «del maiale non si butta niente». Per una famiglia contadina che viveva in una situazione alimentare di precarietà tutto ciò era di estrema importanza [3].
Il quotidiano nel teatro contadino di Marcianise
Se, dunque, riusciamo a capire i motivi per cui nell’uccisione del maiale sono presenti elementi ritualistici e magico-religiosi, più difficile è immaginare che anche certe regole e certi comportamenti della convivenza sociale diventino in alcuni casi materiali da trasformare in un canovaccio che, a sua volta diventa azione teatrale. Oggi non è più così, ma alcuni secoli fa la scelta della sposa e il fidanzamento si realizzavano per mezzo di scene teatrali, o meglio di “giochi rituali”: alcune filastrocche, che collochiamo tra i giochi infantili, come O quante belle figlie madama Dorè, oppure Oh che bel castello …, non sono altro che testimonianze, in versioni degradate, di richieste di matrimoni formalizzate, con cui in epoca medievale si “chiedeva la mano della ragazza” ai suoi genitori. Di tutte queste tradizioni oggi non abbiamo che frammenti sparsi qua e là e difficilmente ricostruibili, ma ogni tanto qualcuno di essi riemerge dall’oblio inducendoci a credere che la ritualità ha intriso e continua a intridere tutti i nostri comportamenti, anche quelli che riteniamo ingenui e naturali [4].
Nel 2017 Tommaso Zarrillo (nato nel 1945 a Marcianise, prov. di Caserta), già dirigente scolastico, proveniente da una famiglia di medi proprietari terrieri coltivatrice di canapa, pubblicava un volumetto di memorie in cui rievocava tutto il processo di lavorazione di quelle piante, dalla semina fino alle operazioni di maciullatura e di “spatolatura” che le trasformavano in fibra tessile. Per una legge del 1975, che inopportunamente non distingueva le piante da cui si ricavano droghe da quelle innocue, la coltivazione della canapa è stata proibita, costringendo proprietari, braccianti e artigiani dell’indotto a cambiare colture e lavoro. Meritoriamente Zarrillo dedica molte pagine non solo agli aspetti economici e sociali di quell’attività, ma ricostruisce di quel contesto il clima culturale, il linguaggio tecnico, i modi di dire e riproduce alcuni documenti tipici dell’espressività, come canti e rappresentazioni teatrali. Di quest’ultimi riporta due testi che sono stati via via formalizzati per essere recitati. Si tratta di due testimonianze ricostruite sulla base della memoria, molto utili per vedere come vicende della vita quotidiana possono trasformarsi in azioni sceniche in cui confluiscono elementi di ritualità, auspici di un’alimentazione ricca e soddisfacente e perentori messaggi pedagogici relativi all’etica del lavoro: nella prima si parla di una proposta di matrimonio, nella seconda, molto più articolata, dell’uccisione del maiale in una casa di medi proprietari terrieri.
Di questi due testi si faranno qui di seguito la lettura e il commento.
Dialogo di una mamma con il giovane innamorato della di lei figlia
Il testo è quello di una recita avvenuta in casa Zarrillo, dopo un pranzo tra datori di lavoro e lavoranti a conclusione di una delle faccende più pesanti relative alla coltivazione della canapa; in altre regioni questo pasto prende nome di “ben finita”, nel casertano è conosciuto come “‘a spaintata” (“la spaventata”), così chiamata per l’abbondanza e il numero delle pietanze che provocano, in chi è abituato a pasti poveri e scarsi, quasi un sentimento di paura e sgomento, come si trattasse di evento sovrannaturale.
Scrive Zarrillo (2017:107):
Esso non è drammaticamente complesso, perché ha solo tre personaggi (due Madri e un Giovane pretendente) di cui uno si limita a recitare la quartina iniziale composta da versi di misura diversa, dopodiché lascia agli altri due il compito di svolgere tutto il tema. Quindi si tratta solo di un dialogo, piuttosto serrato. L’argomento riguarda, per dirla brevemente, l’importanza vitale delle competenze lavorative dell’uomo e della donna in una società in cui il lavoro è l’unico mezzo per guadagnarsi il pane quotidiano. Il punto di partenza è dato dalle battute della prima madre: «Signor padrone, pagatemi perché devo procurare la dote a mia figlia per maritarla». La seconda madre interviene dicendo che sua figlia è così bella che non ha bisogno della dote; il giovane, che ha sentito, si propone allora come futuro sposo della ragazza. Al che si innesca un dialogo in cui il giovane, per garantire che sarà un buon marito, elenca tutte le sue competenze lavorative, specie quelle riguardanti la coltivazione e la lavorazione della canapa; la madre, a sua volta, illustra i lavori più propriamente femminili che sua figlia sa svolgere con maestria. Alla fine del dibattito, la Madre si convince a dare in sposa la figlia al giovanotto ma, trattandosi di personaggi che vivono in una società ancora patriarcale, invita il pretendente a chiedere anche al padre la mano della ragazza: «Figliu mio, va’ a parlà cco’ pate – primma ‘e mettere ‘o pere ‘int’ a casa mia».
Questo testo apparentemente non ha nulla a che fare con la ritualità, perché mette in scena temi di ordinaria quotidianità. Se, tuttavia, consideriamo chi sono i personaggi e qual è l’ambiente in cui vivono, si capisce il motivo per cui essi sentano la necessità di parlarne pubblicamente e in una forma per nulla quotidiana come può essere un’azione drammatica. Ci troviamo qui in un ambiente particolare come quello della lavorazione della canapa, in cui la manodopera essenzialmente è quella bracciantile. Pochi sono i grandi proprietari terrieri e tanti sono quelli che oggi chiameremmo coltivatori diretti; entrambi si servono di braccianti e di operai non specializzati, che tuttavia devono essere abbastanza abili nelle diverse fasi molto faticose del lavoro da compiere in alcuni periodi dell’anno in ambienti malsani e nocivi. Ammalarsi o perdere il lavoro in quelle situazioni, significava non potere più sfamare né se stessi né eventuali familiari: l’unica salvezza stava nella salute e soprattutto nelle capacità di sopportazione di enormi fatiche e nella capacità tecnica in certe operazioni.
Una madre che ha una figlia, bella ma senza dote (com’era probabile nella generalità dei casi), desidera per lei non un marito ricco ma un uomo che a fine settimana riesca a portare a casa il denaro necessario alla loro sopravvivenza. Da qui la sua insistente richiesta sulle capacità lavorative e sulle qualità morale del pretendente. D’altra parte, anche lei per illustrare il valore della figlia la paragona al ruotolo d’oro, cioè alla scorta di canapa arrotolata che si teneva in casa e da cui all’occorrenza si ricavavano lenzuoli e panni e che le donne portavano come dote. E poi ne tesse i pregi elencando tutte le virtù lavorative necessarie alla convivenza familiare.
Da parte sua il giovane pretendente si mostra consapevole delle qualità occorrenti per potersi candidare come marito e capo di casa ed elenca ed elogia tutte le varie capacità richieste da ogni fase della lavorazione della canapa. Alla fine, dichiara anche di essere moralmente a posto, come dimostra il suo essere membro di una confraternita, e di “saper stare in società”.
Si tratta di princìpi e di valori basilari per la vita di ogni comunità, specie di quelle che vivono di solo lavoro, e che devono esser fatti propri da ogni loro membro. Per questo è necessario ribadirlo continuamente, usando non tanto lo stile del parlato quotidiano ma quello, ben più incisivo ed efficace, del teatro che ha in sé un che di rituale e di sacro.
Il compianto funebre del maiale
L’altro copione riguarda i vari momenti dell’uccisione del maiale e della lavorazione delle sue carni; esso è il risultato di un processo di costruzione unitaria in quanto si tratta di scene che avvenivano durante le varie fasi di lavorazione delle carni che si svolgevano nell’arco di tre giorni. Zarrillo ha congiunto tutte le parti dandoci un testo unitario, ma per segnalarci la diversa collocazione temporale di ogni frammento ha usato categorie del teatro culto suddividendolo in “atti” e “scene”. Qui, pubblicando il testo senza interruzioni, si è preferito chiamare “quadro” ogni particolare momento del lavoro, e di premettere una breve didascalia per indicare le fasi delle operazioni.
Rispetto a quello precedente, il testo sull’uccisione del maiale tratta di un tema che è stato affrontato fin dai tempi in cui gli antropologi notarono che, prima di mangiarlo, coloro che avevano ucciso l’animale celebravano riti per allontanare eventuali punizioni da parte dello spirito dell’ucciso. Vedremo, però, che il testo casertano ci introdurrà in una situazione più vicina alle condizioni materiali di vita del mondo contadino.
Prima di passare alla lettura del canovaccio, occorre dare delle informazioni sulla scenografia e sullo spazio in cui aveva luogo il dramma. Siamo in un cortile attorno al quale sono disposte l’abitazione della famiglia proprietaria del maiale e tutte le costruzioni dei servizi: il lavatoio, il forno, le latrine, il pozzo, ecc.. In una parte del cortile vicina all’abitazione della famiglia, è disposta una balla di paglia, sulla quale deve essere condotto l’animale che lì sarà scannato; ad uno dei lati della balla le donne collocano i recipienti in cui sarà raccolto il sangue del maiale. Ai lati lunghi della balla si dispongono, a formare un semicerchio, le persone invitate ad assistere all’evento: familiari, parenti, vicini di casa, amici; esse interpreteranno i due Cori. Su uno dei lati corti invece stanno il Capofamiglia, la Moglie, il Norcino e un personaggio necessario a far procedere, in alcune scene, il dialogo fra le parti e che qui è indicato come il Commentatore (ma potrebbe essere il Presentatore o l’Animatore). Questa scenografia era riproposta sempre uguale nei due o tre giorni che occorrevano per compiere il lavoro.
Lettura del testo
Nel primo Quadro abbiamo il racconto molto sintetico di come il maiale è tratto dal casariello (il porcile) e condotto sulla balla di paglia. Fanno fatica ad adagiarlo sulla balla, perché l’animale si oppone e si ribella e soprattutto perché è pesante. «L’avete ingrassato ben bene», è l’elogio degli astanti al Capo famiglia che, compiaciuto, nota che esso così può dare un palmo di lardo. Nella realtà questa scena probabilmente era improvvisata dai presenti; qui è riprodotta a posteriori, come del resto anche le altre scene. Per questo, alcuni personaggi, come il Capo famiglia, la Madre e il Commentatore erano reclutati tra i lavoranti che avessero una certa capacità di teatralizzare la situazione, adattando versi e battute tradizionali già utilizzate (Zarrillo 2017:107).
Chi era presente alla scena, a questo punto, vedeva il norcino infilare il lungo coltello nella gola dell’animale e schizzare il fiotto di sangue che prestamente veniva raccolto in un contenitore. Si trattava di una scena violenta cui assistevano tutti, anche i bambini; ma nel testo non se ne parla: si dice solo che il Capo famiglia e il Figlio tengono fermo il maiale; dopodiché l’annuncio del Norcino: È morto.
Nel Quadro successivo, il Commentatore ripete per tre volte l’annuncio del Norcino e poi sono i due Cori che alternandosi ripetono per due volte: è muort’ è muort’ è muorto, probabilmente con accenti di dolore, quasi si trattasse di un parente. Di nuovo interviene il Commentatore con una frase che contiene due sentimenti contrastanti: Mi piace … e non mi piace. Le due espressioni antitetiche risultano oscure, così i due Cori chiedono spiegazioni, che arrivano in due momenti diversi. Il Commentatore, per prima elenca i motivi per cui l’uccisione del maiale è motivo di piacere: con il lardo spesso di quattro dita si possono fare ciccioli e strutto; e quindi, sollecitato dai due Cori che ripetono «E poi, e poi e poi?», aggiunge: «con le cotenne e le costole prepareremo il sugo in tegame, con la carne faremo prosciutto e salsicce, con la testa le zampe e le cotenne faremo la “minestra di Pasqua”, friggeremo le costolette, il fegato e la pappagorgia; mangeremo il soffritto, il sanguinaccio e le cervella». Alla fine dell’elenco, i ragazzini, galvanizzati da queste promesse alimentari, esplodono in esclamazioni di gioia.
I due Cori però vogliono sapere anche perché l’uccisione del maiale non piace. Alla domanda risponde il Capo famiglia, che probabilmente ha sensi di colpa: «Ho perso un amico; l’avevo comprato alla fiera di Venafro, pesava dieci chili; al mattino grugniva perché voleva essere salutato, la sera mangiava il suo beverone e poi dormiva per tutta la notte; l’ho allevato bene, adesso pesa due quintali». E i due Cori: «E allora perché l’avete ucciso?». La giustificazione del Capofamiglia ha qualcosa di paradossale: «In cambio del mio affetto, lui mi ha dato la carne; io gli ho dato la vita e lui mi ha dato la forza, l’energia per lavorare». All’insistenza dei due Cori, la risposta è filosofica: «Perché quando uno muore, poi nasce un altro». A conclusione di questo dialogo, tutti i presenti intonano un canto che sancisce quasi un patto tra l’animale e l’uomo:
Il coro di esultanza dei bambini chiude la scena, ma anche la giornata di lavoro.
Nel giorno successivo, quarto Quadro, il Norcino si prepara a spezzare il maiale e a selezionarne le parti per la conservazione. La suddivisione in pezzi sparsi del corpo dell’animale è sentita come un atto di sommo vilipendio nei confronti di un essere che il giorno prima era integro e vivo. Per non sentirsi responsabile della sua morte e soprattutto per non avere sensi di colpa, è necessario che esso venga svilito e disprezzato come cosa di infimo valore di cui ci si può disfare impunemente, riducendolo in pezzi inerti. Ed ecco, allora, che al maiale, ancora appeso per far sgocciolare meglio il sangue dai tessuti, si rivolgono parole di dileggio, trattandolo con ironia e raffigurandolo come un pupazzo su cui si può ferocemente scherzare, per far sì che la sua uccisione possa essere giustificata. Dice la Moglie: «Ti ho dato da mangiare, ora tu sarai il pasto per noi»; di rimando il Capo famiglia: «Sembri il fantoccio di carnevale agganciato ad un chiodo»; uno degli astanti: «Credevi di poter vivere in eterno? Ma non lo sai che il porco muore entro un anno di vita?».
A questo punto (quinto Quadro) interviene il Norcino che deve portare a termine il suo lavoro: «Allontanatevi, fatemi tagliare la testa; state più lontani, perché lo devo dividere in due parti»; e poi continua ad indicare le operazioni che man mano esegue. La Moglie, come responsabile della dieta alimentare della famiglia, commenta ogni singola operazione del Norcino: «Conserviamo la testa per il pranzo di Pasqua; con il cuore e il polmone faremo il soffritto, il fegato lo mangiamo subito fritto nella rete». Il Norcino dà altri ordini: «Prendete un catino e metteteci gli intestini dopo averli puliti»; il Capofamiglia aggiunge: «Aromatizzate con qualche fetta d’arancia l’acqua con cui lavate gli intestini, per evitare che puzzino»; e la Moglie commenta: «Useremo le budella per fare la salsiccia». La selezione delle carni da conservare continua, commentata con grande puntualità: «Conserva queste carni per quando saremo occupati con il cannule, il momento più gravoso della lavorazione della canapa».
Se poco prima tutti avevano cercato di sminuire il maiale come essere vivente per non avere sensi di colpa, adesso ridotto in pezzi inerti acquista un grande valore, perché esso «ci dà l’energia per lavorare, quel che togliamo a lui lo pigliamo noi». La Moglie, per paura che i prosciutti si possano guastare, suggerisce di usare una quantità maggiore di sale, ma il Capofamiglia osserva che piuttosto che usare più sale è meglio farlo asciugare in un luogo ben ventilato, come può essere l’androne dell’ingresso, perché così la carne si insaporisce meglio. Il lavoro ha assorbito tutti, ma il Figlio ha fame e reclama: qui si lavora troppo e non si pensa a mangiare. Il Norcino gli ricorda che prima occorre finire il lavoro e che in ogni caso bisogna guadagnarsi la costoletta con la fatica; e la Moglie promette al Figlio che dopo aver finito di insaccare le salsicce mangeranno il fegato e le costine. La “spaventata”, il pranzo da “ben finita” si farà a fine agosto, quando si saranno conclusi i lavori del ciclo della canapa.
La recita del testo, come abbiamo potuto vedere, è configurata alla stregua di una azione rituale. Intanto la disposizione degli astanti in semicerchio, attorno alla balla di paglia, indica di per sé la volontà di dar luogo ad una scena non quotidiana. Pur tenendo in considerazione le enormi differenze tra le due vicende, è abbastanza chiaro che in questo caso c’è un preciso riferimento alla ritualità del dramma classico; in campagna una volta si ammazzavano altri animali come polli e conigli, ma senza nessuna messa in scena e senza pubblico di spettatori. Per il maiale, invece, si ricorre ad una spettacolarizzazione dell’evento perché ad esso si vuole dare una connotazione particolare. Nel testo esaminato manca qualsiasi accenno ad altre operazioni che si svolgono nei giorni precedenti, come la preparazione del luogo, la predisposizione di quanto potesse occorrere (pentole, contenitori vari, coltelli, tritacarne, il sale, gli aromi e le spezie, tavolo per la macellazione, ecc.): il tutto in previsione di una vicenda che vuole essere diversa da altre consimili e a cui si dà un’importanza straordinaria.
Qualcuno può vedere nella balla di paglia che sta al centro del dramma un altare su cui fare un sacrificio; forse è un po’ sopra le righe interpretare la scena in questo modo, ma la congettura non è del tutto infondata se pensiamo che anche nell’antichità classica l’uccisione e il sacrificio di un maiale avevano le stesse procedure, come ricorda Zarrillo citando l’Epistola II, 1 di Orazio [5]. D’altra parte gli spettatori disposti in circolo, che interpretano i Cori come nelle antiche tragedie greche, rimandano alle celebrazioni rituali dell’antichità, senza dover scomodare Sir James Frazer. Anche la citazione del fantoccio di Carnevale può avere la stessa valenza: il Capo famiglia usa il paragone per dileggiare il maiale morto, ma noi sappiamo che sul personaggio del Carnevale si scaricano i peccati e le malefatte degli uomini che vengono, annualmente, purificati solo con la sua morte; quindi, se il maiale è appeso ad un chiodo, come il sacrificato fantoccio di Carnevale, si può arguire che anch’esso sia stato ucciso per fare del bene a coloro che restano.
L’antropologia ha affrontato molte volte i problemi che nascono nei rapporti tra umani ed animali, perché se da millenni l’uomo ha convissuto con cavalli, cani, gatti, bovini, pecore, polli, è anche vero che contemporaneamente è stato un predatore. L’uomo si è sempre giovato di questa contraddittoria convivenza, in quanto gli animali lo hanno aiutato nel lavoro, gli hanno dato di che coprirsi ma anche di che nutrirsi, non solo di latte e di uova ma perfino della loro stessa carne. «Io ti ho dato il mio affetto, ti ho allevato», dice il Capofamiglia al maiale nel testo esaminato e «tu ci dai la carne per renderci resistenti al duro lavoro». È come, dunque, se tra i due ci fosse un rapporto di “amicizia” e di “solidarietà” o addirittura di complementarità. Questo rapporto, per chi abita in città e possiede un cane o un gatto, si limita ad uno scambio “affettivo”, basato sulla compagnia che l’animale può offrire alle persone, specie quelle sole, mentre per chi vive in campagna, oltre all’affetto, che si instaura tra esseri che vivono in stretto contatto quotidiano, ci sono motivazioni di utilità (l’allevamento delle pecore per il formaggio e la lana, delle galline per le uova; l’utilizzazione, ormai non più necessaria, della forza bovina per l’aratura de campi, l’uso dei cani come custodi della proprietà) e di notevoli interessi economici. Da non sottovalutare poi, visto che l’uomo è pure carnivoro, l’apporto alimentare che molti di questi animali mettono a disposizione degli allevatori. In campagna, inoltre, accanto agli animali domesticati ci sono anche quelli selvatici (uccelli vari, lepri, volpi, cinghiali, fagiani) che vivono ai margini dei terreni coltivati o nei boschi circostanti: anche nei loro confronti l’uomo nutre un certo rispetto (in fondo, si tratta sempre di “vicini” di casa), ma è pronto ad imbracciare il fucile sia per difendere la sua proprietà, sia per procurarsi altro tipo di carne, cacciandoli.
Questa convivenza contraddittoria ha degli effetti psicologici notevoli, oggi alleviati dal fatto che ci sono i macelli e i salumifici che provvedono a rifornire negozi e supermercati di bistecche e di insaccati, ma fino a quando è esistito un mondo in cui il rapporto uomo-animale era molto più stretto di quanto non sia oggi, l’uomo predatore ha ucciso e mangiato gli animali, non senza un senso di colpa la cui gravità era proporzionale al grado di vicinanza tra i due mondi. Da questo senso di colpa forse nasce la cultura dei vegetariani e dei vegani che fa rifiutare loro l’alimentazione basata sulle carni, ma anche quella, più restrittiva, che prevede il divieto di consumare prodotti animali come il latte. Per evitare il senso di colpa, coloro che per cibarsi delle carni devono uccidere un animale hanno tuttavia trovato come giustificarsi per il loro comportamento: la letteratura etnologica è molto ricca di informazioni sugli accorgimenti, più o meno rituali, che precedono o seguono l’uccisione di un animale. Tra i modelli più classici c’è quello dell’animale totem di cui parla Sigmund Freud in Totem e tabu, poi c’è quello del “capro espiatorio”; più comune è invece la cosiddetta “commedia dell’innocenza” con cui si finge che l’animale destinato a morire abbia commesso nei confronti dell’uomo, uno sgarbo o un’offesa che deve essere punita con la morte, o che sia diventato, come scrive la Verdier, mechant, cioè cattivo e perciò pericoloso. Oppure l’uccisore, creando un’altra scena, chiede all’animale perdono per l’atto che sta per compiere [6].
Nel testo di Marcianise, però, non c’è nessuna commedia dell’innocenza e all’animale non si chiede scusa, né perdono; anzi ci sono parole di dileggio. È anche vero che il Capofamiglia si mostra dispiaciuto per la morte del maiale (“Ho perso un amico, gli ho dato il cuore”), ed è anche vero che non lo uccide di sua mano ma chiama il Norcino, una persona estranea alla famiglia e all’ambiente, così come certe tribù etnologiche invitavano al banchetto finale gente di altre tribù che si prestavano ad ammazzare l’animale, assumendosene la colpa e l’eventuale punizione. Qui siamo in presenza di un’altra visione del mondo: accertato che il maiale costituiva una delle primarie fonti di proteine, la sua uccisione diventava necessaria. Nessuno prova piacere ad uccidere, e in forma così violenta, un animale con cui in qualche modo si è convissuti, ma per trasformarlo in cibo lo si deve fare, diventa un fatto “naturale”, anche se spiacevole e doloroso. Farlo alla presenza di altre persone e poi condividere con queste il pasto costituito da costole e fegato dell’animale ucciso alleggerisce il senso di colpa e il dispiacere; e dopo l’atto violento si può fare festa, perché prevale la contentezza di sapere che una parte molto importante dell’alimentazione annuale è stata garantita [7]: ammazzare un maiale non è come ammazzare un pollo, perché questo serve solo per un pasto, il primo invece fornisce alimenti per molti mesi dell’anno.
Tutto, pertanto, dai preparativi all’uccisione, dalla preparazione dei prosciutti al pasto finale, assume l’aspetto di un rito sentito e partecipato. Dietro alla teatralizzazione e alla ritualità, presenti nelle scene tecniche della macellazione, dei procedimenti di conservazione e dell’uso alimentare delle varie parti del maiale, forse si vuole nascondere il fatto che tutto si svolge secondo la crudele legge della mors tua vita mea. Ma crudele era anche la vita dei contadini di una volta molto più vicina alle vicende, anch’esse dure e dolorose, della Natura.
Anche in questa teatralizzazione della lavorazione delle carni del maiale, più che della sua uccisione, al di là degli elementi rituali, c’è da notare la puntualità con cui è descritto sia il lavoro del Norcino sia i modi con cui la Moglie dice di voler cucinare le varie parti dell’animale. In una situazione di grande precarietà alimentare non ci si può permettere il lusso di non utilizzare o di sciupare anche una parte minima di tutto quel ben di dio. Da qui la necessità di ribadire puntualmente le azioni da fare per non dimenticarne nessuna, come nella proposta di matrimonio il pretendente ribadisce pubblicamente quali devono essere le doti di un onesto lavoratore e cittadino che vuole metter su famiglia.
È straordinario, infine, trovare la somiglianza del concetto espresso dal Capo famiglia per spiegare il motivo della morte del maiale (Pecché quanno more uno – po’ ne nasce un altro), con quello, incommensurabilmente diverso e più tragico, con il quale Alcide Cervi commemorò la morte dei suoi sette figli: «Dopo un raccolto ne viene un altro. Tiriamo avanti». Mi pare, tenute le debite distanze, che a dettare le due frasi sia stata la stessa filosofia contadina che accetta le leggi naturali relative al ciclo vitale e agli stretti legami tra la vita e la morte.
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