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Sul rapporto tecno-scienza e riproduttività. La potenzialità generativa femminile: nuova risorsa economica?
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2019 @ 00:21 In Cultura,Società | No Comments
Quando Susan Griffin – filosofa vicina all’area dell’ecofemminismo – nella sua opera Women and Nature: The Roaring inside her (1978) scrive di scenari oppressivi sulla vita delle donne e sulla natura, intraprende una riflessione che potremmo considerare alquanto attuale in merito ad alcuni importanti interrogativi della nostra epoca: il rapporto tra uomo e natura e il ruolo che la tecno-scienza ha sulle esistenze umane (Bianchi 2010: 1-2).
La questione tecnologica e di un suo ruolo attivo sul piano umano, d’altronde, si innesta all’interno di un dibattito femminista – che trasversalmente attraversa anche l’ambito ecologico, oltre che relativo alla polarizzazione sociale e politica di genere – per il quale, ad oggi, vi è una sovrapposizione della tecno-scienza sulla corporeità femminile, specialmente sulla sfera riproduttiva e che intravede, in particolare, sull’aspetto procreativo e materno una strumentalizzazione economica di carattere post-coloniale.
Il termine ecofemminismo che fu introdotto dalla femminista francese Françoise d’Eaubonne nel 1974, la cui espressione rimandava ad una rivoluzione dal tratto ecologico e ambientale, tra gli anni Settanta e Ottanta, si delinea con elaborazioni teoriche e idee innovative che evocano una progressione in linea antimilitarista (Angelini 2008: 236)
Con l’indiana Vandana Shiva, interprete dell’ecofemminismo in chiave post-coloniale, il richiamo concettuale è invece un’attenzione specifica ai meccanismi economici di sviluppo neoliberista in Paesi come l’India e l’Africa. Il pensiero di Shiva che si muove in direzione di una critica al sistema economico attuale, alla globalizzazione e alle biotecnologie, solleva alcuni decisivi interrogativi in merito allo sfruttamento delle risorse naturali, analogamente alle risorse umane, ossia i popoli, giacché l’economia per come è attualmente strutturata, ha contribuito a modificare alla radice la formazione della popolazione rurale indiana, una natura peraltro posta in parallelo alla femminilità e, quindi, la speculazione sulla natura terrena converge con la natura sessuale e riproduttiva della donna.
Da questo punto di vista, la manipolazione della natura è la metafora di una violenza contro la donna, in quanto natura femminile da addomesticare al fine di sfruttare le sue risorse sessuo-procreative. Il legame ambiente-natura femminile, è perciò considerato da Shiva mediante questo parallelismo. La sottolineatura teorica dell’ecofemminismo riconosce dunque il «nesso tra oppressione della natura, delle donne, dei poveri, degli animali» (Zambroni 2016: 28).
La riflessione di Shiva viene ripresa da Maria Mies, secondo cui la società contemporanea presenta visibili connubi tra sfruttamento delle risorse, soprattutto procreative-femminili, e capitalismo. Mies critica decisamente la società della globalizzazione neoliberista, laddove, la nuova risorsa economica non è altro che il corpo della donna data la sua forza riproduttiva. Pertanto, il ragionamento di Mies, allineato ad una teorizzazione post-coloniale, mette in luce quanto la sfera biologica e materna, sia diventata la fonte prevalente di accrescimento del capitale (Corradi 2007: 41-42).
Le elaborazioni appena accennate si connettono alle argomentazioni classiche di un femminismo che dagli anni Sessanta, sino agli anni Settanta e Ottanta – nelle posizioni dapprima di Simone de Beauvoir per la quale la subordinazione femminile derivava da una categorizzazione di essa sul ruolo materno e poi, con Shulamith Firestone che, addirittura, presupponeva che la concretizzazione della libertà per la donna dovesse avvenire mediante una scissione dall’essere materno e l’intervento della tecnologia su tale aspetto avrebbe, per l’appunto, consentito la via della liberazione – si pronuncia in favore dell’autodeterminazione femminile, cercando di comprendere ed esaminare le cause che hanno caratterizzato la condizione di subalternità sociale-politica delle donne. Così scrive Raffaella Baritono:
L’elemento che viene, dunque, identificato quale causa principale del rapporto di dominio-oppressione è la riproduzione, in quanto condizione di dipendenza della prole sulla donna.
Per questa ragione, Firestone auspica una possibilità di scegliere e lo fa pensando, perfino, alla riproduzione artificiale, tant’è che la tecnologia è lo strumento perfetto ai fini di una realizzazione della liberazione corporea da una forma di schiavitù riproduttiva. In tal senso, seguendo il ragionamento di Firestone «una donna moderna dovrebbe liberarsi dai “vincoli della sua natura” e dalle funzioni materne» (Russo 2010: 101). Secondo la studiosa attivista la liberazione deve realizzarsi attraverso una scissione dell’essere donna da ciò che costituisce, sostanzialmente, la sua natura e che – a mio modo di vedere – non necessariamente deve congiungersi con una dipendenza o minorità sociale per la donna, e che vuol dire invece, approcciarsi alla maternità con consapevolezza e intenzionalità autonoma. E quindi, nelle intenzioni di Firestone, in che modo la donna può liberarsi dal gioco biologico della maternità? Ricorrendo «ai metodi di controllo della fertilità e alle tecnologie riproduttive, giudicate perciò in modo incondizionatamente positivo» (Mordacci 2003: 224), elemento questo che apre un ulteriore snodo di riflessione che si presenta concettualmente critico per i risvolti etici legati all’intervento delle tecnologie sulla vita riproduttiva femminile venendo identificate come «terapie della sterilità» (Moneti Codignola 2005: 330).
In tal modo, le metodiche tecno-scientifiche sembrano connettersi al concetto di medicalizzazione del corpo femminile, un corpo che in ogni modo deve essere ristabilito per esplicare al meglio le proprie funzionalità generative in considerazione che la «sterilità viene equiparata a una malattia e le tecniche di riproduzione artificiale si presentano come la cura di questa malattia» (idem: 330).
Il nesso femminilità-maternità è quindi difficile e controverso, anche in relazione alle differenti posizioni femministe che nel corso del tempo sono state avanzate e che hanno, in un certo qual modo, rivisto le posizioni eccessivamente radicali – per esempio quella di Firestone – indirizzandosi su un fronte diverso. È quello che hanno fatto Adrienne Rich e Nancy Chodorow, le quali invece si riferivano alla maternità come risorsa da affermare autonomamente, o nel significato di genealogia e relazione nel caso di Luce Irigaray e Adriana Cavarero.
In quest’ottica, è chiaro che la questione della differenza viene ad essere amplificata da una gestione differente uomo-donna in ambito pubblico e privato e legata alla funzione materna, ma che può comunque divenire un potenziale interiore che è della donna e che è parte della sua stessa natura femminile; la maternità che si slega dal condizionamento sociale e patriarcale della donna incardinata al ruolo di moglie e madre e che emerge con il senso della piena autodeterminazione corporea, ovvero, è la donna e soltanto lei che decide con piena coscienza quando diventare madre.
Detto ciò, l’aspetto riproduttivo-procreativo non è visto solo come un fardello da cui affrancarsi, bensì nel senso di una affermazione identitaria materna. «Il dominio tecnologico della maternità va allora rifiutato, almeno fintanto che le tecnologie riproduttive non siano realmente divenute strumenti di autonomia nelle mani delle donne» (Mordacci 2003: 224-225). All’interno di tale inquadratura, e sul discorso dell’utilizzo della tecno-scienza su ciò che concerne la procreazione, dunque, si distinguono due concezioni del pensiero femminista, un orizzonte teorico che sostiene in positivo l’impiego delle tecniche scientifiche a scopo riproduttivo per le opportunità legate ad una libera scelta che da esse deriverebbe, e un’altra prospettiva più categorica nell’individuare criticità etiche che sarebbero insite nel loro utilizzo.
Sul punto, Laura Corradi in una serrata critica che conduce nel libro Nel ventre di un’altra. Una critica femminista delle tecnologie riproduttive (2017) osserva che nell’utilizzo delle metodiche tecno-scientifiche si celerebbe il fervore neoliberista del mercato del “diritto” alla riproduzione e il diritto in questione è, in realtà, rivolto ad alcuni soggetti privilegiati economicamente. Negli ultimi anni, infatti, il femminismo si è discostato da alcune versioni eccessivamente favorevoli alle tecnologie, intravedendo in esse un modo per reiterare un nuovo tipo di oppressione patriarcale sulle donne.
In particolare, la surrogazione di maternità – denominata talvolta anche come gestazione per altri – che viene a congiungersi con le tecniche di procreazione assistita ed è attuata in genere tramite forma contrattuale, ridefinisce alla radice non solo il concetto di genitorialità o maternità, bensì pone in luce il problema dell’autonoma gestione sul corpo e la procreazione per le donne, in considerazione delle differenti posizioni di potere tra coloro che possono godere di tale tecnica – coppie o donne con un benessere economico – e chi invece è in una situazione di svantaggio sociale tale da mettere a servizio il suo corpo per l’ottenimento di un miglioramento. È il caso di alcune donne appartenenti ad uno status inferiore che intravedono nella possibilità di utilizzare sé stesse e il proprio utero vantaggi economici, e l’esempio dell’India è significativo. Senza entrare in una questione prettamente giuridica o di definizione medico-scientifica – che non è nelle mie intenzioni intraprendere – il problema del compenso che si cela nella relazione contrattuale tra i due soggetti coinvolti, a mio avviso, mette in evidenza la drammaticità del tema della condizione di subalternità di certe donne, collegata ad una sorta di espropriazione post-coloniale della generatività attraverso il denaro.
Alla luce di tale osservazione, la maternità tende ad acquisire una valenza simbolica nel mercato riproduttivo, connettendosi ad una cultura economico-patriarcale e tecnologica che determina e reitera, ancora una volta, la sua espansione sui corpi femminili.
Del resto, vanno ridiscusse le contraddizioni in merito alla situazione personale di vita di una donna che diverrebbe più autonoma, eventualmente, posticipando il desiderio di maternità – avendo una certa difficoltà nel conciliare i tempi professionali e quelli genitoriali – per avvicinarsi in seguito ad essa, possibilmente, con l’ausilio delle tecniche riproduttive, individuate quasi come soluzione rispetto alle criticità nel concretizzare la maternità – anche in età avanzata – analogamente a quelle donne che pensano di adoperarsi per fini economici snaturando sé stesse, iniziando dalla propria natura. E, la riflessione del femminismo e della prospettiva ecofemminista sulla tecno-scienza, ha contribuito a rendere quanto mai evidenti gli influssi patriarcali nell’incentivare eventuali interventi sulla vita procreativa femminile, omologando nuovamente il ruolo della donna a quello di madre, incardinandola ancora e ad ogni costo, alla funzione materna – socialmente accettata – su cui per secoli il pensiero femminista ha attuato le più forti critiche.
In questo senso, è di rilievo la riflessione di Nancy Fraser, filosofa statunitense, per la quale uno degli errori del femminismo, già dagli anni Sessanta e Settanta, è quello di essersi intrecciato ad una svolta culturale creando, di fatto, una connivenza con il sistema economico neoliberista (Casalini 2015: 35). Brunella Casalini, inoltre, nota che l’attuale epoca neoliberale ha prodotto una nuova fisionomia del ruolo femminile entrato in massa nel lavoro, ma con salari molto bassi e forme contrattuali incerte. Il neoliberismo economico coincide, peraltro, con la crescita esponenziale della povertà delle donne e con l’aumento del tempo dedicato al lavoro remunerato rispetto al lavoro cosiddetto di cura (idem: 37).
Il tema di un ripensamento in merito a forme di sfruttamento riproduttivo – nel caso della surrogazione di maternità – svela quanto la società sia permeata da un neoliberismo che è sia economico che culturale e
D’altro canto, sul nesso scienza-vita umana si incrocia inevitabilmente l’argomento spinoso del corpo biologico e delle sue parti ridotte a materiale di scambio e, quindi, elemento integrante dell’ambito attinente alla bio-economia. Melinda Cooper e Catherine Waldby parlano, infatti, di una economia incentrata sulla vendita di gameti, sui possibili pericoli di una sperimentazione farmaceutica non etica – o della clonazione – il cui scopo sarebbe quello di trarre un profitto. Su tale punto è necessaria una attenta riflessione, dato che la tecno-scienza può essere uno strumento utile di aiuto e supporto della vita umana, senza però che si imponga su di essa.
Il tema del bio-lavoro – così viene definito da Cooper e Waldby – sta ridefinendo totalmente l’economia globale, e il valore di mercato è attribuito in base alle potenzialità umane, genetiche, biologiche, riproduttive delle donne, così che il processo bio-economico non può non avvicinarsi al bio-potere, un concetto caro al filosofo Foucault, e il passaggio alla modernità tecnologica viene sancito dal sorgere di un potere strutturato e organizzato su più livelli, nel quale l’assoggettamento coinvolge primariamente la realtà biologica e umana.
La visione quasi “tentacolare” di un potere tecnologico ingloba quindi l’elemento della fecondità, cercando di stabilire su tale funzione naturale un preciso controllo, trasformandola in qualcosa che non rientra più nel progetto procreativo comunque connesso ad una scelta libera e consapevole – e che tutto sommato rientra nelle preoccupazioni dell’attuale femminismo – e che, invece, tende a determinarsi quale sentimento di personale godimento risolto nel potere del denaro.
E giacché la maternità non dovrebbe essere posizionata sull’istanza di un desiderio che va sempre e comunque realizzato, anche danneggiando altri individui, – per esempio, le donne cosiddette surrogate, delle quali è necessario considerare la parte emozionale e psicologica, in quanto direttamente implicate nelle fasi di gestazione e parto – ci si deve orientare per un diverso senso della maternità, vista non unicamente nella tracciatura di una decisione autoreferenziale. A guardar bene, la situazione delle “madri” surrogate sembra pressoché distante da una libera autodeterminazione procreativa, tenendo conto che l’esistenza di un contratto che stabilisce i termini della relazione tra coppia committente e donna che partorisce, implica una transazione commerciale, con conseguente cessione del “bene” prodotto. L’elaborazione critica di un determinismo bio-tecnologico proviene, in modo ancora più deciso, dal femminismo post-coloniale e de-coloniale e le tecniche biomediche – che intervengono in maniera pressante sulle esistenze umane – sono identificate quali dispositivi attraverso cui il potere maschile reitera il dominio sui corpi delle donne.
In un’ottica antropologica, non è possibile tralasciare il punto di una questione che, storicamente, ha incardinato il dualismo sulla definizione di una imposizione dell’uomo sulla donna. È Silvia Federici che associa la supremazia maschile al potenziale riproduttivo delle donne, allineando il tema all’argomento del corpo femminile come risorsa politico-economica. Qui, l’elemento post-coloniale si innesta mediante un corpo procreativo identificato quale oggetto di una forma di colonizzazione diversa rispetto al passato, non più in un rapporto asimmetrico tra colonizzatore e soggetto colonizzato, ma si estende ad una conquista economica del potere sessuale e generativo delle donne. Adesso, la materia da possedere non è la terra fisica e geografica; è l’energia femminea della capacità del “dare” vita.
L’espansione di questa tipologia di dominazione neo-coloniale, comunque espressione di una diversa forma patriarcale, conduce pertanto ad un rafforzamento della subalternità, delle dicotomie di status tra soggetti che possono acquisire e realizzare un obiettivo mediante il denaro e altri soggetti che non si trovano in analoghe condizioni. A tale riguardo, penso che ai fini del ragionamento risulti interessante la posizione di Paola Tabet:
La teorizzazione di Tabet, ben collegata alla posizione marxiana del lavoratore espropriato del suo prodotto e che si rivolge anche alla donna – nel caso specifico della donna surrogata – requisita a sua volta del proprio, il bambino, rileva perfettamente la condizione femminile la cui attività principale è legata alla procreazione, laddove in qualsiasi società, alla donna è richiesto l’espletamento del suo dovere: procreativo-materno. Nel contesto, il pensiero di Karl Marx sottolineava la reale natura del lavoro umano, un’attività non libera di cui l’uomo non poteva manifestare alcuna titolarità, un lavoro di cui egli era sostanzialmente espropriato a vantaggio di altri. Il lavoratore non ha autonomia e ha una funzione solo in relazione al prodotto finale. In tal senso, il lavoratore assume lo status oggettivante di “cosa” che produce “altro da sé”.
La valutazione di un soggetto si conforma sulla base delle qualità e dell’utilità del bene prodotto e quest’ultimo non appartiene più al lavoratore; il prodotto è esterno a lui; il lavoratore lo crea, ma non è lui il proprietario, cosicché, il rapporto tra colui che produce e il prodotto stesso, si determina quale processo di trasformazione che priva l’operaio della propria umanità, lo rende schiavo e senza valore. In modo analogo, la donna viene così confiscata del suo potenziale sessuale-materno.
Sessualità e maternità si sovrappongono e la prestazione fisica delle donne costituisce, specialmente in convergenza all’orizzonte neoliberale del mercato, la risorsa primaria dello sfruttamento, anche per quanto concerne il settore pornografico in cui le rappresentazioni sessuali del corpo femminile vengono accentuate, come la questione della prostituzione, problema che non accenna a diminuire ed è in crescita esponenziale.
Specificatamente, nella surrogazione di maternità – nella sua forma contrattuale – è necessario evidenziare che il bambino «diventa prodotto da scegliere, selezionare e programmare» (Pessina, Picozzi: 2002: 100). Concettualmente, la logica neoliberale del mercato si profila come la struttura razionale di una ideologia post-moderna, che pone centralità sul lavoro delle attività umane perché produttrici di beni. In questo quadro, lo stesso soggetto umano è innalzato a strumento per la produzione di qualcosa e tale processo finisce con l’identificare il corpo, in quanto mezzo per lo sviluppo di alcune attività, quale categoria principale dell’economia di produzione.
La derivazione marxiana di questa prospettiva si adatta all’interazione con la teorizzazione del corpo in quanto risorsa, e in connessione ad una riduzione dell’autonomia e dell’integrità individuale. L’egemonia maschile-coloniale esercitata sulle donne è stata, dunque, attuata al fine di determinarla quale forza-lavoro da adoperare, primaria risorsa dell’economia. Di conseguenza, la sessualità all’interno delle società capitalistiche e neo-coloniali, diviene categoria storica della primaria funzione lavorativa legata alla dicotomia di classe.
L’angolatura mette in evidenza un mercato capitalistico inclusivo del lavoro di riproduzione biologica e sociale della vita, il cui tassello viene ad essere costituito mediante la manipolazione della sfera procreativa, e corpo femminile e natura riproduttiva vengono considerate alla pari di una risorsa (Bianchi 2010: 19). Così, viene a profilarsi la negazione del corpo stesso e dell’autodeterminazione delle donne, della loro capacità riproduttiva, allorché, nella illusione di un senso di autonomia – tra l’altro, connesso alla scelta di prestare il proprio corpo al servizio della surrogazione – si produce di fatto la perdita della propria integrità fisica e della libertà riproduttiva, sottesa ad un incessante antropocentrismo economico, che cela la verità di una schiavitù corporea neo-coloniale nel significato di una malintesa forma decisionale.
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