La solidarietà tra i popoli fu, come è noto, il terreno sul quale si incontrarono le tre principali tradizioni culturali e politiche dalle quali provenivano i cosiddetti “padri dell’Europa”, essendo il valore solidaristico il retaggio comune – sebbene declinato secondo modalità specifiche e proprie di ciascuna – sia della corrente cristiana, sia di quella social-democratica, sia di quella liberale (da non confondere, ovviamente, con la scuola liberista e neo-liberista anglosassone e d’Oltreoceano).
Fu dunque sulla base di questo comune principio di unione solidale tra i popoli che politici, pensatori ed economisti come, ad esempio, Robert Schuman (cristiano-democratico), Jean Monnet (liberale), Altiero Spinelli (social-democratico), Alcide De Gasperi (cristiano-democratico), per limitarci ai più noti, hanno sognato gli “Stati Uniti d’Europa”, consegnandoci una visione condivisa di quella che, completata dalle generazioni successive, sarebbe dovuta diventare, dopo di loro, l’Europa politica.
Come si sa, tuttavia, per sognare e tramandare lo stesso sogno occorrono sognatori di pari statura etica e intellettuale; mentre raramente la storia ci consegna epigoni all’altezza dei fondatori.
Già negli anni ’80 il neoliberismo era penetrato in Europa, anche in forza della sua carismatica incarnazione nel conservatorismo thatcheriano, in un Regno Unito da sempre euroscettico e legato a doppio filo con gli Stati Uniti; neoliberismo che ha continuato a permeare il Continente ancora per tutti gli anni ’90 e oltre, sia pure nella versione “social-moderata” di Tony Blair (la cui dottrina riformista della “terza via” ha cercato di legare il neoliberismo stesso a istanze di riforma e miglioramento del welfare state, aprendo le porte di quest’ultimo a investimenti, privatizzazioni e partnership pubblico-privato, mentre in nome del pragmatismo economico veniva flessibilizzando – e precarizzando – il mondo del lavoro).
Il vento neoliberista anglo-americano che è spirato in Europa in quegli anni, con la sua carica di individualismo, libera competizione e primato dell’istanza economicistica sulle esigenze sociali, ha finito per sacrificare a queste direttrici il principio solidaristico che aveva ispirato i primi padri fondatori, imprimendo alla costruzione dell’Unione europea una brusca svolta verso la cultura politico-economica di matrice anglo-americana.
Basterebbe citare solo due circostanze significative. La prima riguarda i cosiddetti “criteri di convergenza” del Trattato di Maastricht (1992), istitutivo dell’Unione europea, delle sue attuali istituzioni e della moneta unica, ovvero i selettivi e rigidi criteri economico-finanziari – tutt’altro che solidaristici! – cui gli Stati aspiranti membri dell’Ue sarebbero stati obbligati da quel momento a soddisfare per poter essere ammessi (e poter restare) nell’Unione: stabilità dei prezzi (inflazione che non superi di +1,5% la media dei tre Stati membri con l’inflazione più bassa), stabilità dei tassi di interesse a lungo termine (non oltre il 2% in più rispetto alla media degli Stati Ue con l’inflazione più bassa), stabilità del bilancio pubblico (deficit pubblico inferiore al 3% del Pil e debito pubblico inferiore al 60% del Pil) e stabilità del tasso di cambio (almeno 2 anni senza svalutazioni del proprio tasso di cambio all’interno del Sistema monetario europeo – Sme). Un’Europa ridotta a club esclusivo di Stati benestanti, di ricchi e per ricchi, ad alto gradimento per le banche.
La seconda circostanza esemplare attiene alle inflessibili modalità con cui questi severi criteri di appartenenza/permanenza sono stati fatti valere nel primo caso concreto di grave cedimento intra-comunitario: la grande crisi finanziaria della Grecia del 2009. Per sanare l’enorme sforamento del debito pubblico e del deficit di bilancio, per un verso causato – tra le altre cose – da una spesa pubblica particolarmente alta (anche a motivo di una inefficiente gestione delle risorse pubbliche) non adeguatamente coperta dalle entrate fiscali, e per altro verso ingigantito dalla crisi finanziaria globale, scoppiata negli Stati Uniti l’anno precedente con il crollo del valore dei titoli subprime (crisi nata come crack finanziario e poi divenuta, nella sua espansione globale, economica e occupazionale, la quale nel caso specifico ha colpito in modo oltremodo devastante una economia già poco competitiva come quella greca, caratterizzata da elevata inflazione e ridotta produttività), fu istituita la famigerata cosiddetta “troika”, ovvero un austero e non sempre trasparente gruppo di direzione e controllo del risanamento greco, costituito dalla Commissione europea (che doveva monitorarne la politica economica e, in particolare, il rispetto degli obiettivi di bilancio e riforma imposti dall’Ue), la Banca centrale europea (che a sua volta doveva monitorarne la stabilità finanziaria e la gestione della politica monetaria, anche attraverso una “diretta” assistenza tecnica) e il Fondo monetario internazionale (che doveva monitorare la politica economica del Paese e il rispetto degli obiettivi di bilancio e riforma imposti dal FMI, anche in questo caso mediante una diretta assistenza finanziaria).
Del resto, un segnale piuttosto eloquente sia della “svolta a U” dell’Europa, e quindi di un certo suo “smarrimento” rispetto ai propri valori fondativi (soprattutto quelli solidaristici, appunto), sia delle incrinature interne che ne minavano la coesione, l’integrità e – non ultimo – il peso sullo scacchiere internazionale, è stata ed è ancora la paralisi politica rispetto alla proposta di dotare l’Unione di una propria Costituzione, speculare e tuttavia peculiare rispetto a quella statunitense. Come è noto, tra il 2002 e il 2003 la Convenzione europea presieduta da Valéry Giscard d’Estaing aveva elaborato, non senza faticose mediazioni, un progetto di Costituzione (fu in tale occasione che si accese il dibattito, ad esempio, sulla esplicita menzione o meno delle “radici cristiane” dell’Europa, rigettata a favore di un più generico riferimento al “patrimonio spirituale e morale” del continente). Un progetto di Costituzione, questo, che fu adottato nel 2004 dal Consiglio europeo ma la cui ratifica, sottoposta nel 2005 a tutti gli Stati membri, fu bocciata dai referendum in Francia e Paesi Bassi, decretando così il fallimento del varo (né il Trattato di Lisbona del 2007, nel quale furono inseriti alcuni principi e disposizioni che erano già stati elaborati nel progetto di Costituzione, ha mai avuto il valore e il peso di una Costituzione propriamente detta e validamente ratificata).
Fu così che si determinò un contesto di debole radicamento nell’humus dei valori e degli ideali fondativi, a favore di una influenza (e sudditanza) culturale esogena, e di una conseguente scarsa coesione interna tra gli Stati membri, la quale si rifletté in un cedimento limitato di sovranità a favore delle istituzioni sovranazionali comunitarie, soprattutto in materia di sicurezza, difesa e politiche migratorie (onde, ad esempio, il fallimento dell’idea di costituire un esercito comune europeo, con la significativa ed eloquente “delega” di questo compito sovranazionale alla Nato).
È in un simile contesto che ha fatto irruzione, a partire dal 2013, quella che l’Europa stessa ha definito “crisi dei migranti”, con tutti gli effetti divisivi e ulteriormente alteranti – sul piano dell’ispirazione “valoriale” e dell’indirizzo politico comunitario – che essa ha indotto nell’Unione, al punto che, col senno di poi, non sarebbe irragionevole chiamarla piuttosto “crisi dell’Europa dinanzi alla questione dei migranti”. Negli anni immediatamente successivi all’inizio della guerra in Siria e all’uccisione politica di Gheddafi in Libia (evento che ha precipitato il Paese nordafricano in un caos politico, sociale ed economico nel quale è tuttora immerso), eventi entrambi accaduti nel 2011, e complici una serie di altre circostanze internazionali (guerra in Afghanistan, soprattutto con la ripresa delle ostilità militari nel 2009-2011, povertà e conflitti in Paesi come Eritrea, Sudan e Somalia, disastri ambientali causati dai cambiamenti climatici ecc.), l’Europa è stata investita da un flusso migratorio di profughi e richiedenti asilo straordinariamente consistente, sia alle frontiere orientali (siriani) sia a quelle meridionali (subsahariani e asiatici, in particolare mediorientali e del subcontinente indiano, confluenti in Libia con l’intento di raggiungere, da lì, l’Europa). Flusso che – a ragione o a torto che sia – ha colto di sorpresa e spaventato l’Unione europea e la cui eccezionale portata è durata circa 4 anni (fino al 2016), alimentata alle frontiere meridionali dalla stagione, breve ma intensa, delle cosiddette “primavere arabe”, una serie di proteste e di manifestazioni di rivendicazione democratica, contro i propri governi autoritari, promosse da movimenti popolari costituiti soprattutto da giovani, che si sono propagate a macchia d’olio nei Paesi nordafricani che si affacciano sul Mediterraneo, alimentandone ancor più i flussi migratori verso l’Europa.
Ai 280mila profughi entrati irregolarmente in Europa nel 2014 (anno in cui nel mondo il numero di profughi e sfollati interni è arrivato a circa 60 milioni, il più alto dalla Seconda guerra mondiale), soprattutto attraverso le rotte del Mediterraneo – centrale e orientale – e dei Balcani, ne sono seguiti, nel 2015, oltre 1 milione solo tra Italia e Grecia, attraverso il Mediterraneo (per un quarto bambini e per un sesto donne; per poco meno della metà siriani, seguiti da afghani e iracheni), con quest’ultima che, nei primi 6 mesi dell’anno, ha superato l’Italia come primo Paese Ue di sbarco ed è divenuta punto di partenza per la continuazione del viaggio, da parte di molti dei profughi ivi sbarcati, lungo la rotta balcanica per raggiungere l’Europa settentrionale (specialmente la Germania), mentre 1,2 milioni sono state, in tale anno, le richieste d’asilo presentate nell’Unione (anche in questo caso per la stragrande maggioranza in Germania).
È così nata, in Europa, una profonda spaccatura tra Paesi disposti ad accogliere i richiedenti asilo, secondo un regolamentazione degli ingressi e un piano di distribuzione interna dai Paesi di primo approdo (e quindi anche a modificare il Regolamento di Dublino che, nato in circostanze differenti, obbligava i Paesi di primo ingresso a ospitare i profughi ivi giunti e a gestirne da solo le domande d’asilo), e Paesi indisponibili ad ospitarne e fautori di una linea dura contro gli ingressi dei migranti (tra i quali il cosiddetto “gruppo di Visegrad”, costituito da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, divenuti membri dell’Ue nel 2004). L’eccezionale afflusso di profughi in Europa, la cui impreparazione ha finito per alimentare al suo interno un diffuso clima di paura e incertezza, ha per reazione rinfocolato in tutta l’Unione la propaganda xenofoba dei partiti nazionalisti, divenuti “sovranisti”, che hanno moltiplicato i propri consensi elettorali e spesso sono anche ascesi al potere nei rispettivi Paesi, sotto l’unanime slogan “national first”.
Un po’, dunque, per l’acquisito potere di pressione politica di questi partiti, un po’ per il timore che essi potessero salire al governo di una gran parte degli Stati membri, svuotando o delegittimando il potere sovranazionale delle istituzioni comunitarie a favore di una rivendicazione nazionalista, soprattutto qualora la linea politica dell’Unione fosse entrata in contrasto con quella anti-immigrati da loro sostenuta e strumentalmente alimentata con l’apparente evidenza fattuale di una Europa “invasa” da migranti, ecco che le posizioni comunitarie hanno finito per virare anch’esse, rapidamente e inesorabilmente, verso politiche di chiusura, respingimento e arroccamento.
È emblematica, in questo senso, la doppia veste adottata, in uno stretto lasso di tempo, dalla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, che dapprima, nel 2021, insieme al rimpianto presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, cita e rende omaggio al Manifesto di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, alla loro visione di una Europa dei popoli aperta, pacifica e solidale, per poi accompagnare di persona, nel luglio 2023, la prima leader di governo sovranista dell’Unione, Giorgia Meloni, in Tunisia, per firmare un accordo oneroso di impedimento forzato dei flussi migratori dal Paese nordafricano con il presidente Saied, già riconosciuto come un autocrate senza scrupoli che, violando i diritti umani, respinge e abbandona oltre i confini nazionali, nel deserto libico del Sahara, intere famiglie subsahariane, anche con bambini piccoli, lasciandole lì letteralmente morire di fame e di sete.
È una svolta identitaria (o meglio: anti-identitaria), questa dell’Unione, che in 10 anni l’ha vista:
- rifiutare il coinvolgimento e il finanziamento della missione italiana Mare nostrum di ricerca e salvataggio dei profughi nel Mediterraneo, inaugurata nel 2013 a seguito del tragico naufragio di ottobre al largo di Lampedusa, sostituendola l’anno successivo con la missione Triton (poi Themis), affidata a Frontex, e poi con altre operazioni militari (Sophia, Irini ecc.), con compiti – ben diversi! – di pattugliamento delle frontiere marittime e respingimento dei migranti;
- sottoscrivere direttamente, o sostenere indirettamente tramite singoli Paesi membri (Italia in primis), accordi oltremodo onerosi con Paesi terzi confinanti, spesso semi-dittatoriali e non rispettosi dei diritti umani, per il blocco forzato dei flussi lungo le rotte migratorie più battute verso l’Unione (Turchia, almeno 9,5 miliardi di euro; Libia, circa 1 miliardo di euro; Tunisia, centinaia di milioni di euro; e ancora Niger, Marocco, ecc.), mettendo così in atto la cosiddetta “esternalizzazione delle frontiere” (delega della gestione degli ingressi a Stati terzi, come se i confini nazionali fossero spostati al loro interno) quale strategia di elusione del divieto di respingimento (principio di non refoulement) sancito dalla Convenzione di Ginevra;
- finanziare, lungo la rotta balcanica, campi “di confinamento” dei profughi in Bosnia ed Erzegovina (almeno 100 milioni di euro dal 2018 al 2021) in cui tenere bloccati i migranti, in condizioni disumane (senza acqua, senza elettricità, senza fogne, al gelo in inverno e sotto il caldo torrido d’estate), e sostenere finanziariamente le polizie di frontiera croate per respingerli “a catena”, molte e molte volte anche violentemente (braccaggio con droni, botte, bruciature, denudamenti, docce gelide, bastonate, sassate, torture, violenze sessuali, furti ecc.), garantendo a queste polizie europee silenzio e impunità.
Una conversione alla caustica chiusura e alla bruta repressione, questa della “fortezza Europa”, che – in spregio e in sfregio del diritto internazionale – segna un totale rinnegamento delle proprie radici ideali e valoriali, letteralmente incenerite sull’altare del sovranismo dilagante, il quale ha in questi mesi trovato una sponda formidabile – ancora una volta – nella seconda amministrazione di Trump, negli Stati Uniti.
In Italia, poi, questo processo era iniziato in anticipo, grazie al successo elettorale di partiti dichiaratamente anti-immigrati della seconda Repubblica cui, negli ultimi 27 anni (ovvero dal varo del testo Unico del 1998 in poi) sono state di fatto delegate le politiche migratorie nazionali, sia quando a governare è salito il centro-destra, con la diretta promozione di interventi normativi di stampo sistematicamente restrittivo e repressivo (tra i quali i pacchetti sicurezza Maroni 2008 e 2009, i pacchetti sicurezza Salvini 2018 e 2019, i decreti leggi Piantedosi 2022 e 2023, il decreto Mantovano 2024 ecc.), sia quando vi è invece salito il centro-sinistra, il quale ha sostanzialmente perseguito una condotta di paurosa omissione o di acquiescenza alla status quo, timoroso di perdere consensi con politiche contrarie alla distorta rappresentazione collettiva dell’immigrazione e dei migranti che la propaganda di odio xenofobo aveva già inoculato tra la popolazione (criminalizzandoli e addossando su di loro la responsabilità di tutte le disfunzioni endemiche del Paese: disoccupazione, perché ci rubano il lavoro; corruzione, perché vivono alle spalle degli italiani onesti; malasanità, perché ci portano malattie sconosciute; criminalità, perché sono più propensi a delinquere, ecc.).
Ne è risultato che l’attuale governo Meloni, fortificato del fatto che anche la linea politica comunitaria ha finito per virare decisamente verso la stessa direzione populistico-sovranista, ha infine estremizzato le proprie politiche migratorie repressive, forzando ancor più il diritto internazionale e costituzionale attraverso una serie di iniziative inedite: la valutazione extra-territoriale (nei centri appositamente fatti costruire in Albania) delle domande d’asilo sottoposte a procedura accelerata, ovvero con ridotte tutele e garanzie, per richiedenti protezione provenienti da cosiddetti “Paesi sicuri” (questi ultimi determinati sulla base del discutibile criterio della ridotta incidenza percentuale di pregresse concessioni di protezione a originari di tali Paesi, in violazione del principio di valutazione individuale “caso per caso” a prescindere dall’andamento generalizzato), o le recentissime norme sulla sicurezza, varate attraverso la decretazione d’urgenza per saltare la discussione parlamentare e arrivare a un varo immediato (dopo che il presidente Mattarella ne aveva rilevato nel testo originario diverse disposizioni anticostituzionali), le quali introducono una serie aggiuntiva di reati penali volta a restringere il diritto di manifestazione e protesta anche pacifica, o di resistenza anche passiva, nelle carceri e nei Cpr (luoghi di detenzione forzata le cui condizioni di vita sono spesso documentatamente atroci).
E, incredibilmente, in tutte queste misure l’Italia ha per la prima volta fatto scuola nell’Unione europea, dal momento che non solo il Patto europeo su migrazione e asilo, definitivamente varato nel 2024, formalizza la possibilità di adottare misure analoghe al “modello Albania” inaugurato dall’Italia, ma la Commissione europea a guida Von der Leyen ha recentemente proposto un regolamento in cui l’Unione possa attenersi a una lista di “Paesi sicuri” che include proprio quelli (Egitto, Bangladesh, Tunisia) che i giudici italiani avevano contestato poter essere considerati tali dal governo Meloni, costringendo così a un immediato trasferimento in Italia di tutte le poche decine di richiedenti asilo maschi, provenienti dai primi due Paesi ricordati, che erano stati trasportati in Albania immediatamente dopo essere stati prelevati in mare dalla nave militare Libra. Il che costituisce di fatto un vero e proprio endorsment istituzionale dell’Unione alle “avanguardiste” politiche migratorie italiane.
Del resto, due recentissime circostanze restituiscono plasticamente quanta siderale distanza si è attualmente cumulata tra l’odierna Europa e quella sognata dai padri fondatori, entrambe riguardanti il governo italiano, quale punta più avanzata di questa deriva continentale verso il sovranismo più estremo.
Da una parte, lo sbarco in fila indiana e con i polsi ammanettati da fascette, scortati da militari e a favore di telecamere e fotografi, dei 40 migranti trasferiti via mare nel centro albanese da Cpr italiani, a emulazione di quanto il presidente Trump aveva clamorosamente ordinato poche settimane prima, facendo imbarcare su un aereo, analogamente ammanettati e in fila indiana, un gruppo cospicuo di immigrati di origine latino-americana, così espulsi e rimpatriati nei rispettivi Paesi d’origine. Un’imitazione visiva che dice eloquentemente quali riferimenti “ideali” ispiri oggi l’Italia e l’Europa populista.
Dall’altra parte, la recente sortita della presidente Meloni, in Parlamento, sul Manifesto di Ventotene: infastidita da un’iniziativa editoriale di un noto quotidiano nazionale, che pochi giorni prima ne aveva diffuso su scala nazionale una copia allegandola in omaggio all’edizione giornaliera, il capo del Governo, dopo aver ironicamente letto in Aula alcuni passaggi sparsi, strumentalmente selezionati e decontestualizzati, ha chiosato provocatoriamente: “Certamente questa non è la mia Europa!”. Niente di più vero, purtroppo, alla luce di quanto qui ripercorso.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Luca Di Sciullo, dottorato in filosofia, è attuale presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, dove si è specializzato nell’analisi dei processi di integrazione degli immigrati a livello territoriale. Ha curato, per conto del CNEL, una serie di nove Rapporti sugli Indici di integrazione degli immigrati in Italia, di cui ha ideato, messo a punto e consolidato la metodologia di misurazione. Dal 2009 è docente di filosofia presso l’Istituto Filosofico Teologico “San Pietro” di Viterbo, aggregato al Pontificio Ateneo “S. Anselmo” di Roma.
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