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Solo l’autocritica può consentire il dialogo
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2016 @ 00:17 In Cultura,Religioni | No Comments
di Augusto Cavadi
Il monoteismo è sempre, e soltanto, matrice di violenza? La storia dei monoteismi è, anche, storia d’intolleranze, condanne capitali e stermini di massa. Il mio amico Luigi Lombardi Vallauri mi ha una volta confidato la soddisfazione per i contrasti fra gli esponenti apicali delle tre religioni abramitiche: «Te l’immagini che disastro per l’umanità se rabbini, vescovi e imam andassero a braccetto? Sarebbe una valanga insostenibile di fondamentalismo». Andrebbe meglio – è andata meglio – in regimi politeistici? Un mio amico che stimo molto lo sostiene da anni. Nel suo blog [1] così si legge dall’11 luglio 2009:
E qui Biuso cita, non so quanto pertinentemente, Giovanni, 17, 11-23.
Francamente, però, non mi pare che la storia dia ragione al cento per cento a Biuso: Ateniesi e Spartani, Greci e Persiani, Romani e Barbari – con tutto il loro politeismo (a sfondo panteistico) – non si fecero mancare guerre e stragi. Come attesta anche l’antecedente storico e logico del monoteismo, l’eno-teismo (non un solo Dio in assoluto, ma un Dio – il mio – più forte degli altri), la convinzione di avere dalla propria parte uno dei molti “dèi” non è servita certo a disarmare gli eserciti. Forme moderne di mistica statalistica (fondate sulla tesi hegeliana dello Stato come incarnazione di Dio nel mondo), tipiche di regimi totalitari di destra come fascismo e nazismo, non si sono allontanate dalla fanatica convinzione del Gott mit uns. Né monoteismo né enoteismo né politeismo né panteismo, dunque: andrebbe – è andata – meglio con l’ateismo? Basterebbe leggere Nietzsche, il profeta più efficace della “morte di Dio”, per rispondere negativamente: «che la forza non si manifesti come forza, che non sia volontà di sopraffare, di abbattere e di dominare, sete di nemici, di resistenza e di trionfi, è esattamente altrettanto assurdo che volere che la debolezza si manifesti come forza» (così si legge nella Genealogia della morale).
Né la storia dei socialismi reali, dall’Unione Sovietica alla Cambogia, depone a favore della risposta affermativa [2]. Sembrerebbe che, per un mondo più pacifico o per lo meno cruento in minor misura, l’ideale sarebbe l’agnosticismo teologico: non so se c’è Dio e, a essere sinceri, non m’interessa neppure (vedi il sorriso di Buddha a chi gli poneva interrogativi teologici) [3]. Indubbiamente gli scettici sono meno bellicosi dei portatori (malati) di verità (relative ma ritenute illusoriamente) assolute. Eppure il pianeta conosce casi di fondamentalismo buddhista [4] e, in misura plateale e micidiale, il fondamentalismo del laicismo borghese-capitalistico che dubita di tutto, tranne del profitto come criterio di senso; che tollera tutto, tranne gli ostacoli al proprio arricchimento continuo; che non ucciderebbe una mosca per un dissenso di ideali, ma trita milioni di esistenze umane e animali e vegetali per fornire di carburante la propria macchina tecnologica (infernale) [5].
Ma se la violenza viene praticata in nome di monoteismi, politeismi, ateismi e agnosticismi, come delegittimarla teoreticamente in modo da indebolirla nel suo radicamento sociale? Sono convinto che ogni posizione teologico-filosofica si presti a utilizzazioni ideologiche contrastanti: in nome dello stesso Dio, o dello stesso Nulla, è possibile fondare tanto l’impegno individuale e politico per il bene e la giustizia quanto strategie, soggettive e collettive, d’intimidazione e asservimento di viventi d’ogni specie [6].
Allora non vedo, attualmente, alternative: ogni intellettuale – intendo ogni persona pensante che non si adagi sul conformismo né sul tradizionalismo – deve vigilare all’interno della propria prospettiva sul mondo (che spesso si abbina a una qualche forma di appartenenza comunitaria) affinché tale weltanschauung venga declinata in senso sempre meno compatibile con l’odio e sempre più favorevole alla cooperazione nella pluralità.
Il Dio della Bibbia è interpretabile in senso nonviolento?
La mia origine anagrafica (Palermo) e la mia formazione giovanile (filosofica e, poi, teologica) mi hanno indotto – per non dire costretto – a fare i conti con il Dio della Bibbia: è esso interpretabile solo in senso violento o anche in senso nonviolento? Le risposte sono varie e non tutte – ovviamente – compatibili. Una prima risposta è una condanna netta e inappellabile:
Così Céline in Rigodon (Einaudi, 2007: 14). «Concordo con lui e lascio volentieri a ebrei e cristiani, agli idolatri del ‘Libro’, il culto verso una divinità inetta come Jahvé. Non gli uomini soltanto, infatti, sono imperfetti ma lo è l’universo stesso poiché frutto dell’imperfezione del demiurgo che ha preteso di essere Dio» [7].
Chi sposi questo rifiuto tranciante dell’intera Bibbia si condanna a privarsi, però, non solo di contenuti inaccettabili per una coscienza etica matura, ma anche di intuizioni profetiche che hanno ispirato e potrebbero continuare a ispirare dei giganti della storia planetaria, da Francesco d’Assisi a Dante Alighieri, da Michelangelo a Thomas More, da Erasmo da Rotterdam a Johan Sebastian Bach, da Isaac Newton a Galileo Galilei, da Blaise Pascal a Martin Luther King, da Giovanni XXIII a Nelson Mandela…L’Occidente ha nella Bibbia il suo «grande codice culturale» (per riprendere Northrop Frye) verso cui è debitore di molti errori e di altrettanti meriti.
Una seconda risposta, risalente a Marcione (II secolo d. C.), distingue, all’interno della biblioteca che chiamiamo Bibbia, il Dio dell’Antico Testamento dal Dio del Nuovo: per condannare, come irredimibile, la prima figura e salvare esclusivamente la seconda. L’opinione di Marcione è stata bollata dalla Chiesa dell’epoca come eretica, ma non tutti i teologi hanno accettato la condanna. Anche in anni recenti Hanna Wolff, riprendendo opinioni autorevoli come quella di von Harnack, ha sostenuto l’opportunità di espungere dalle Sacre Scritture Torah, Salmi e Profeti [8] Basterebbe cassare l’Antico Testamento per avere una Bibbia fautrice di nonviolenza? La risposta è negativa per almeno due ragioni. La prima è che del Nuovo Testamento fa parte il corpus paolino: e qui non mancano i toni minacciosi, le maledizioni, le condanne senza appello. Una seconda ragione è che persino la figura di Gesù, isolata dagli antecedenti veterotestamentari e dai commentari paolini, non è esente da tratti violenti: come ha sostenuto il biblista Giuseppe Barbaglio, il Dio annunziato da Gesù è un “Giano bifronte” in cui convivono tratti di rigore inflessibile e tratti di tenerezza materna [9].
Scartate, in quanto insostenibili o incomplete, le soluzioni prospettate (condanna in blocco della Bibbia; condanna in blocco dell’Antico Testamento e dell’epistolario attribuito a Paolo di Tarso) non resta che una direzione di ricerca e di lavoro: la rielaborazione critica degli insegnamenti biblici. Essa si basa sul presupposto che i testi biblici tramandati non abbiano un’essenza straordinaria, addirittura divina, ma siano testi redatti da uomini con pregi e difetti che – come tutti i prodotti umani – sono un impasto di grano e zizzania, di profumi e spine: per chi crede in una qualche ipotesi di Trascendenza, la Bibbia (come tutti i capolavori dello spirito umano) è il risultato mirabile della riflessione paziente degli autori e della felice ispirazione dall’Alto [10]. Si tratta dunque di affrontarla ‘laicamente’: evitando il bigottismo che induce a manipolare avvocatescamente i passaggi scomodi così come ogni forma di bigottismo capovolto incapace di riconoscere i diamanti immersi nella melma.
In due testi precedenti ho cercato di mostrare, in concreto, come il messaggio biblico possa essere piegato su posizioni tribali, identitarie [11] o, addirittura, violente e distruttrici [12], ma anche quali ripensamenti teologici potrebbero liberarlo dalle scorie e farne una proposta di cooperazione, dialogo e liberazione.
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