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Solidarietà intermittente

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2020 @ 00:23 In Cultura,Società | No Comments

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Steinlen, Les deux Amis, 1917

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di Riccardo Talamo

Sono giorni di caldo. Clima torrido sulla nostra pelle che scommette sui soliti “noliti” e frasi fatte, una stagione prevista che come ogni anno dà avvio ai soliti disastri. Si potrebbe calcare la mano sui cambiamenti climatici, domandarsi se le montagne che bruciano puntualmente attorno a noi sono un effetto collaterale o il puntuale cadeau di criminali allo sbaraglio o, per esempio, come mai su Palermo cada tanta acqua da inabissare l’arteria stradale nel giro di poche ore. Sarebbe senz’altro il momento di cercare le relazioni climatiche che hanno accelerato i grandi disastri del 2020, incendio in Australia su tutti. Invece no. A noi per ora ci piace il COVID.

Effettivamente anche questa terribile pandemia ha innescato una serie di interrogativi che legano possibilità di diffusione e gravità dei contagi a cattiva qualità dell’aria, come conseguenza di aree maggiormente industrializzate e quindi più esposte alla violenza dell’elemento patogeno. Sul web proliferano gli appuntamenti per discutere su queste eventualità, analisi di ARPA, ISPRA, SNPA, e chi più ne ha più ne metta, concedono un’unica riflessione: potrebbe darsi che circondarsi di nubi tossiche non sia esattamente salutare come respirare arietta di montagna, ma non ne siamo sicuri.

Di una cosa siamo certi, un pensiero che portiamo avanti con forza ed estrema puntualità, il nemico bisogna vederlo. Ci destabilizza pensare che amici e parenti potrebbero contagiarci, ci infastidisce dover rimandare aperitivi e incontri eventuali per preservare qualcosa che non conosciamo, ma una soluzione deve pur esserci. Qualcuno col quale prendersela nei giorni di noia, una minaccia riconoscibile da cui difendersi. C’era venuto in mente l’immigrato, ma un concetto così vecchio andava rafforzato. Eureka: l’immigrato che porta il virus.

Apro una breve parentesi citando gli eventi terribili di Minneapolis. L’antirazzismo e i diritti umani sono il fil rouge che mi conduce ad un concetto d’inclusione fin troppo ambiguo. Ho considerato le reazioni rivoltose in USA come sostanzialmente comprensibili, ma dover delegittimare un omicidio così brutale come quello di George Floyd è un passo indietro clamoroso, un’offesa per tutti. È dal secondo dopoguerra che ci illudiamo di non dover tornare sull’argomento, ma gli eventi di questi giorni esprimono con forza un’esigenza contraria. Così varie polemiche su film, statue e cioccolatini, tutte afferenti un unico linguaggio, una dicotomia che si rafforza nel tentativo di cancellarla.

migranti-mascherine-1200x1200Così il leit motiv di queste settimane riporta a galla due temi fortissimi: No al razzismo, No agli immigrati infetti. Mi sono chiesto come si potesse chiudere il cerchio, come il dire comune spesso enunci concetti diametralmente opposti con tanta convinzione ed efficacia. La risposta è semplice, empatia strumentante, tanti piccoli dispiaceri come ami di un palamito ricco di ipocrisie e di una morale che regoliamo secondo la nostra percezione e i pesci che vogliamo tirare su.

La riflessione sull’etica richiama un concetto contiguo: la singolarità e la relazione con il suo fuori, con altre singolarità. Questo indubbiamente evidenzia una strada, un riconoscimento. Quella che abbiamo chiamato etica altruistica della relazione non sopporta empatie, identificazioni, confusioni. Essa vuole infatti un tu che sia veramente un altro, un’altra, nella sua unicità e distinzione. Per quanto tu sia simile e consonante, la tua storia non è mai la mia, dice questa etica. Per quanto siano simili larghi tratti della nostra storia di vita, non mi riconosco in te e, tanto meno, nella collettività del noi (Cavarero, 2000: 120). Ma, nonostante tutto, è sempre l’emozione che veicola il nostro dire e fomenta le paure che regolano l’agire umano sin dall’alba dei tempi.

Prendendo spunto da Sara Ahmed (2004) e dalla sua associazione tra le parole passione e passivo ho rilevato l’interessante nesso tra due operazioni psicologiche che caratterizzano la vita di ogni individuo. La studiosa britannica indica come significativo il fatto che due termini condividano la stessa radice poiché essere passivi indica una negazione già sentita come sofferenza, la paura della passività è legata alla paura dell’emotività, in cui la debolezza equivale all’essere modellati da altri. Essere emotivi quindi comporta passività, il proprio giudizio è influenzato, diventa reattivo piuttosto che attivo, dipendente e non più autonomo.

Nella storia filogenetica del pensiero evolutivo la nascita dell’emozione viene collocata anteriormente rispetto a quella della ragione. Il nostro cervello ha consentito di differenziarci dalle altre specie proprio in virtù di questa possibilità, ovvero mettendo in subordine il cosiddetto sistema limbico rispetto alla funzione dell’ultimo archipallio, chiamato da Paul MacLean (2006) Neocortex, “aggiunto” cronologicamente dopo e che ha consentito il successo, o quantomeno il dominio, della specie umana rispetto alle altre (Ernandes 2006).

Naturalmente in questo gioco oppositivo tra emozione-ragione dobbiamo leggere una gerarchia in cui alcune emozioni sono produzioni più elevate, mentre altre rimangono segni di debolezza; infatti la storia evolutiva dell’uomo è narrata non solo come il trionfo della ragione sull’emozione, ma anche come la capacità di controllare tali emozioni e di sperimentarle in funzione del pensiero non eliminando quelle positive. Goleman (1997) ci parla delle buone emozioni aggiungendo che se coltivate divengono strumenti utilizzabili come punti di forza, miglioramento di vita e carriera professionale.

Rimangono comunque le emozioni incolte, quelle indisciplinate, che frustrano la formazione dell’individuo e le sue competenze. Possiamo trovare una serie di sentimenti in relazione a questa disamina, tutti legati alla sicurezza, alla gerarchia sociale, al senso di prevaricazione. Le emozioni, citando ancora Sara Ahmed, agiscono nel «fare» e «modellare» i corpi come mondi in azione verso gli altri dai quali spesso prendono, non solo fisicamente, le distanze (Ahmed, 2004).

27973194_1569000563135758_2987628321564054560_nLe azioni dunque innescano reazioni. Nei termini di Spinoza (1959), le emozioni modellano cosa i corpi possono fare e come si sono modellati in termini di azione potenziale. Anziché domandarci cosa sono le emozioni, dovremmo pertanto chiederci cosa possono innescare. Descartes (1985) suggerisce che gli oggetti, o soggetti, non eccitano passioni diverse perché sono diversi, ma a causa dei diversi modi in cui entrano in relazione con noi e possono danneggiarci. Quindi stiamo parlando di proprietà causali che ci portano ad amare o odiare non in relazione al buono o al cattivo dell’oggetto, ma alla valutazione sul danno, o beneficio, che ne possiamo trarre. In questo senso l’attribuzione valoriale di categorie positive è del tutto soggettiva e arbitraria. Le emozioni sono intenzionali nel senso che implicano inevitabilmente un orientamento, una direzione verso un oggetto (cfr. Parkinson, 1995: 8).

Modelli funzionalisti sull’emozione parlano della teoria evolutiva e della relativa lettura della paura con funzione protettrice, una reazione istintiva all’incontro con il pericolo. Inutile fare esempi su traumi che ci riportano nel tempo fobie nei confronti di oggetti, luoghi o situazione lette in maniera del tutto erronea, contesti che ritornano in modo più o meno conscio e che abbiamo affrontato in un momento precedente della nostra vita. Quello che ne traiamo è semplice: ciò di cui diffidiamo non è necessariamente pericoloso per sua natura, anzi il più delle volte neanche lo conosciamo. Poi ovviamente, in termini di emozioni e relativi giudizi, dobbiamo tener conto del fattore empatico e di come il modo di esprimere sentimenti e valutazioni possa coinvolgere altri soggetti che tendano a rappresentarsi in disagio o apprezzamento senza alcuna valutazione diretta. Le emozioni quindi non dovrebbero solo essere considerate all’interno di stati psicologici, ma come pratiche sociali e culturali definite.

In questo clima di contagio emotivo, in termini di «altro», è chiaro il riferimento con il discorso precedente e il modo in cui l’intera questione trattata in queste pagine rischia di degenerare in contagio emotivo in modo esponenziale. Il discorso di Ahmed appare funzionale nel definire criticamente la psicologizzazione dell’emozione all’interno di una struttura sociale che appare determinata da fattori che escludono la realtà in favore di vere e proprie sceneggiature minacciose che, a loro volta, innescano conseguenti sentimenti negativi provocando l’interruzione di ogni tentativo di analisi. Lavorare sulle emozioni significa accettare il fatto che non riusciremo a legarci ad un senso di oggettività e di giustizia. Significa attraversare i confini disciplinari (sociali, culturali, storici e così via) e sponsorizzare un prodotto meramente soggettivo (Berlant, 1997).

Come ci comportiamo di fronte alle emozioni? Perché fino a mezzogiorno siamo antirazzisti e dopo pranzo cominciamo a sentire il peso dell’invasione? È sempre il dolore e l’empatia che selezionano priorità in automatico e ci proiettano con forza in difesa di ciò che ci appare concettualmente più pericoloso.

Christian Aid, in una lettera del 9 Giugno, parte proprio dal citare le mine antiuomo, oggetto devastante che ci crea un senso di sconforto e rabbia nell’immediato

«Landmines. What does this word mean to you? Darkened by the horrific injuries and countless fatalities associated with it, it probably makes you feel angry or saddened. I’m sure you will be interested in the success stories that your regular support has helped to bring about …Landmines. Landmines are causing pain and suffering all around the world, and that is why Christian Aid is working with partners across the globe to remove them … Landmines. What does this word mean to you now? I hope you feel a sense of empowerment» (Christian Aid Letter 9 June 2003).

210109232-776de5ac-0816-40de-800d-b44e0bf7d926Poi aggiunge che il lavoro tra i partner mondiali, associato alla rimozione di questi oggetti di morte, crea, in antitesi, un senso di crescita e conforto. In che modo il dolore entra in politica? Come sono modellate le esperienze vissute con dolore attraverso il contatto con gli altri? Il dolore è stato spesso descritto come privato, una sensazione che mi appartiene e gli altri non possono comprendere o comunque esattamente percepire. Eppure il dolore degli altri è costantemente evocato nei discorsi pubblici, attraverso la divulgazione di un’informazione che pone la sofferenza sempre e comunque al centro del discorso.

Nel brano sopra citato Ahmed ci fa notare come il dolore venga prima di tutto. Aid nel testo mette in evidenza l’efficacia del termine «mine». Questo non è accompagnato da alcuna descrizione o storia, è sufficiente da sola per evocare immagini di dolore e sofferenza su chi legge. Le mine terrestri sono di per sé effetti di storie di guerra, collocate da uomini per ferire o uccidere altri uomini. La parola evoca quella storia, ma la rappresenta anche come storia di guerra e ingiustizia. Con questo esempio l’autore del testo ci mostra come il dolore negli altri diventi immediatamente il nostro. La lettera di Aid si concentra sulle emozioni. Si presuppone che il lettore sia mosso dunque dal dolore provocato dalle ferite altrui, ed è questo sentimento che lo mette in relazione con l’evento dell’«altro» producendo rabbia e tristezza. Tali emozioni negative rievocano un senso di empatia nel lettore.

Chiaramente non diventiamo gli «altri» sentendoci come loro, l’apparente condivisione di un sentimento di dolore non pone lettore e vittima in una posizione di equivalenza. È un sistema di allineamento che funziona per prossimità, ma ci esclude sempre e comunque. Nella lettera traspare un sentimento di speranza, è significativo come nel testo si legga la promessa non tanto del superamento del dispiacere degli altri, ma nella responsabilizzazione del lettore stesso: «I hope you feel a sense of empowerment», così il dolore dell’altro può essere risolto. Diviene un mezzo necessario per alleggerire il sentimento di sofferenza. Il lettore occidentale (nell’accezione culturale del termine), infatti, si sente meglio dopo aver sentito parlare di storie tristi in cui altri individui hanno superato tale condizione.

Il dolore è sempre stato problematico dal punto di vista filosofico e politico. Se le ferite fisiche e le malattie possono essere osservate dall’esterno, il dolore ha una qualità privata che potenzialmente isola il sofferente dagli altri. Per sua natura può essere difficile da comunicare in modo adeguato, questa caratteristica ha portato la filosofa Elaine Scarry ad affermare che la sofferenza intensa distrugge il mondo (cfr. Scarry, 1990: 52).

La rappresentazione della sofferenza negli altri è significativa in tal senso, fissa l’altro come colui che incarna una possibilità, quella di vincere tale condizione. L’Occidente dà agli altri aiuti, donazioni, diventa generoso e accogliente, in alcuni casi, nella misura in cui li ha già abbondantemente e inesorabilmente danneggiati nel corso della storia. Ma cosa significa provare dolore? È difficile parlarne. Come suggerisce Elaine Scarry (1985), questo non è soltanto l’effetto di un trauma corporale, esso resiste e frantuma il linguaggio e la comunicazione. C’è una connessione tra la sovrarappresentazione del dolore e la sua non rappresentabilità. Posso non saperlo descrivere, ma posso evocare i sentimenti che suscita in me. Questo viene solitamente descritto come una sensazione (Cowan, 1968), ma è ovviamente un tipo particolare di percezione, è soggettivo e soprattutto comporta associazioni tra elementi dell’esperienza sensoriale e la sua effettiva esperienza (Chapman, 1986).

In poche parole, il dolore non è riducibile ad una sensazione sgradevole o negativa, questo coinvolge l’esperienza che ci aiuta a riconoscerlo producendo forme complesse di associazione che a loro volta generano determinati stati emotivi. Tutto ciò ci riporta ad un’esigenza primaria, quella di riconoscere il dolore e superarlo preferibilmente attraverso gli altri. Questa è l’essenza del discorso sulla lettera di Aid e, parallelamente, su tutto ciò che ci circonda, che riconosciamo come esperienza di sofferenza indiretta, e tendiamo ad avvicinare a noi ad uso e consumo del superamento del nostro disagio. Questo è il discorso su Floyd e su tutte le relazioni dolore-solidarietà che incoraggiano un senso di rinnovata empatia che tendiamo a soffocare quando l’altro ci risulta colpevole di qualcosa.

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Tony Cragg, Riot, 1987

Esiste un meccanismo che disinnesca i nostri sensi di colpa, si chiama campanilismo, tutela del proprio orticello e se ci mettiamo anche figli e famiglia abbiamo trincerato tutto il nostro dovuto odio verso l’altro. Super sintesi: siamo tutti uguali, non si chiamano i cioccolatini moretti, aiutiamoli a casa loro, ci infettano.

Potrei dilungarmi sul potere della parola e la potenza di un veicolo sapientemente strumentalizzato. Potrei sciorinare vergognose prime pagine di testate giornalistiche che hanno confuso la libertà d’espressione con l’insulto becero e gratuito. Non mi va di incappare nell’errore che denuncio: l’analisi faziosa e incoerente di chi pretende di avere ragione poggiando il proprio ginocchio sul nostro dispiacere. La doppia questione che ho aperto merita comunque un’ulteriore considerazione che mi avvia alla conclusione. Punto numero uno: non esistono malati abusivi, gente che scappa su barconi e si scopre positiva al covid mi risulta meno colpevole di chi se lo becca al matrimonio del cugino. Punto numero due: i moretti sono buoni, Via col vento è un bellissimo film, le vicende del passato vanno narrate, ricordate nelle loro ingiustizie sociali e non dimenticate. Non possiamo né dobbiamo chiudere Auschwitz. Non siamo, per fortuna, etnicamente uguali e non dobbiamo dissimulare colori e vestiti. Non è l’uguaglianza il valore da difendere, ma il diritto di essere amabilmente diversi.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
 Riferimenti bibliografici
Ahmed, S.
2004    The Cultural Politics of Emotion, Edinburgh University Press and Routledge, Edinburgh.
Berlant, G.L.
1997    The Queen of America Goes to Washington City, Duke University Press, Durham.
Cavarero, A.
2000    Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, Feltrinelli, Milano.
Chapman, C.R.
1986    Pain, Perception, and Illusion in R.A. Sternbach (ed.), The Psychology of Pain, Raven Press, New York.
Ernandes M.
2006    Neurobiologia e Genesi delle Religioni, Alinea, Firenze.
Goleman, D.
1997    Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano.
MacLean, P.D.
1970    The triune brain, emotion, and scientific bias, in F.O. Schmitt (ed.), The neurosciences: Second study program, Rockefeller University Press, New York.
Parkinson, B.
1995    Ideas and realities of Emotion, Routledge, London.
Scarry, E.
1985    The Body in Pain: The Making and Unmakingof the World, Oxford University Press, New York.

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Riccardo Talamo, da oltre dieci anni nel mondo della formazione si occupa di antropologia e studi storici. È interessato ai mutamenti cerebrali come riferimenti biologici e culturali. Dallo studio del Triune Brain di Paul MacLean nasce l’esigenza di indagare su caratteristiche evolutive e dipendenze endogene ed esogene afferenti al neocortex, quindi esclusivamente umane. Dall’analisi del fenomeno migratorio, nel 2019, la tesi che affonda l’indagine sull’utilizzo strumentale di dispositivi emozionali ad uso e consumo di specifiche narrazioni. Dopo la partecipazione a diversi seminari su realtà distopiche e psicologia evolutiva il lavoro di ricerca si arricchisce di nuovi spunti legati alla sociologia del social network e alla costruzione semantica e culturale di identità per opposizione.

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