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Scontro di valori e fine di un mondo possibile. Limiti dei valori occidentali postmoderni

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2016 @ 01:09 In Cultura,Società | No Comments

 

 Ludwig Meidner, Paesaggi Apocalittici, 1912

Ludwig Meidner, Paesaggi Apocalittici, 1912

  di Linda Armano

Amalia Signorelli, nell’Introduzione al suo lavoro Ernesto de Martino. Teoria antropologica e metodologia della ricerca scrive che, quando un gruppo umano è in crisi, è perché cerca valori altri rispetto a quelli che rifiuta o perché al suo interno si confrontano gruppi che fanno riferimento a valori diversi.

In questo lavoro verrà trattato il tema dei valori occidentali, ossia la dimensione ideologica dell’azione e del pensiero, della loro fragilità sia a livello individuale che collettivo e dello scontro tra essi e valori altri. Un’analisi dei valori e del motivo della loro impraticabilità in senso assoluto nella realtà postmoderna non può certamente risolversi in una semplice elencazione e descrizione di singoli eventi, ma occorre darne, anche con una certa urgenza, un’interpretazione valida e suscettibile di inglobare elementi di provenienza diversa e di esprimere contenuti nuovi. È certo che il tema qui trattato dovrebbe essere sottoposto a varie griglie di lettura, tutte in diversa misura pertinenti e produttive, che richiedono competenze diverse e che contribuirebbero a mettere in luce il vero dispiegarsi di fenomeni spesso tragici che basano la loro ragione d’essere sullo scontro di valori.

L’Occidente ha simbolicamente innalzato l’11 settembre 2001 a confine tra un prima e un dopo, in seguito al quale il mondo non è stato più lo stesso. Il dramma mondiale, in cui si è palesato per la prima volta dal dopoguerra l’interrogarsi sul senso di una modernità fragile e sofferta, ha contemporaneamente aperto la possibilità della fine di un mondo che prima invece sembrava funzionasse. In quel giorno di apocalisse fu percepita la distruzione della domesticità di una realtà sicura e prevedibile, mettendo in discussione l’intera storia dell’Occidente e dei suoi valori.

L’11 settembre 2001 ha costituito un prototipo di modello, una sorta di archetipo figurativo, oggi sempre più variamente riprodotto attraverso avvenimenti tragici di matrice terroristica. È un negativo che continua a palesarsi entro determinate performance di violenza relativamente circoscritte nella loro messa in scena.

Ascrivendo all’interno di un rigore scientifico quanto vogliamo argomentare, gli atti terroristici in Occidente, oltre ad essere interpretabili come conseguenza di un fallimento dei modelli di integrazione, sono eventi sociali a cui applicare le teorie e i metodi dell’antropologia dei disastri. Lo scontro di valori della «seconda modernità» (Beck 2001) deve essere interpretato seguendo visioni culturali elaborate entro determinati contesti sociali. Pur verificandosi infatti con la stessa intensità e attraverso azioni simili, l’impatto di un evento catastrofico e i danni da esso prodotti saranno sempre diversi in sistemi sociali differenti. Ciò si spiega in quanto la percezione delle persone non dipende esclusivamente dalla fisica dell’evento e dagli agenti dell’impatto, ma deriva soprattutto dalle relazioni sociali che si attivano durante e dopo la crisi, in funzione del tipo specifico di cultura posseduto da ciascun sistema nei confronti dell’evento.

Gli atti terroristici sono ascrivibili nel concetto di «disastro», la cui definizione classica lo descrive come uno sconvolgimento di un ordine stabilito in un contesto umano o naturale, violento o distruttivo, più o meno rapido, che dà luogo a morti, feriti e considerevoli danni materiali. Gli eventi catastrofici possono essere di varia specie e generalmente vengono classificati in base al tipo di fenomeni che li determinano. Gli aspetti fondamentali che contraddistinguono l’atto terroristico in quanto evento disastroso all’interno dell’Occidente sono: l’eccezionalità dell’evento e la bassa percezione di controllo dello stesso; l’interruzione della normale vita sociale; la distruzione della vita umana e l’iterazione di tale distruzione; il numero di vittime – che non vuole significare solo i defunti e i feriti, ma anche i sopravvissuti fisicamente indenni e i sinistrati che hanno accusato la perdita dei loro parenti e dei loro beni – e la quantità dei beni distrutti.

La collocazione cronologica di eventi tragicamente violenti in Occidente ha visto un loro susseguirsi sempre più fitto negli ultimi anni, culminando principalmente nel cuore dell’Europa. Per interrogarsi sull’universo dei significati degli atti terroristici contro l’Occidente è utile delineare alcune costanti antropologiche, con chiari riferimenti storici, che caratterizzano il nostro modo di operare nella realtà. È sempre più palese che l’insieme dei valori tradizionali, prodotto da una lunga storia che va dal diritto romano alla dottrina cristiana, fino ai nazionalismi ottocenteschi,  riassumibili nella triade Dio-Patria-Famiglia, appare obsoleto, nel senso di poco utile a chi deve decidere, valutare e agire in un mondo globalizzato e secolarizzato, dove la famiglia è ormai un termine omnibus, all’interno del quale trovano posto numerose ed eterogenee forme di convivenza; la patria è sempre più spesso vissuta nei termini di razzismo escludente; e Dio, pur nelle infinite variazioni del concetto a cui si assiste, ha sempre meno il carattere di fonte assoluta di verità.

Non va meglio per i valori della modernità: Libertà, Fraternità e Uguaglianza che suonano come petizioni di principio sempre più inattuali, di fronte ad una società che registra i divari di reddito più alti della storia moderna; dove la competizione viene predicata come valore destinato a sostituire la fratellanza; dove la libertà, almeno come forma di partecipazione alla vita civile e politica, è resa ogni giorno più impraticabile dalla crisi delle istituzioni e dai monopoli della comunicazione (Signorelli 2015: XIX). Questa situazione provoca scontri anche feroci tra i difensori dei valori tradizionali e i paladini dei valori della modernità o di valori altri, che pure in passato avevano trovato formule di coesistenza e di compromesso, seppur spesso forzato da parte di qualche gruppo sociale. A livello collettivo quindi lo scontro tra valori culturali mina la costruzione di una convivenza che garantisca almeno condizioni generali stabili nei rapporti umani e un minimo di certezza delle regole. Insomma, i valori postmoderni, ancorché maggioritari quanto a diffusione, non sembrano in grado di tirare fuori la convivenza umana dalla crisi di inconsistenza e di incertezza che la caratterizza nel contesto attuale.

 New York, 11 settembre 2001 (AFP file photo)

New York, 11 settembre 2001 (AFP file photo)

La conversione all’Islam come sostituzione dei valori maggioritari

È chiaro che, alla luce di attacchi terroristici in Europa e nell’Occidente intero, è fondamentale, per chi appartiene a questo mondo culturale, rendere il disastro socialmente comprensibile, oltre che culturalmente accettabile e superabile. Come ogni catastrofe, la tragedia che colpisce le persone dovrebbe essere, quando si comincia a ricostruire la nostra precaria identità, anche un’opportunità per chiederci chi siamo veramente.

Attacchi terroristici, violenza e morte che colpiscono tutte le categorie sociali, compresi bambini piccolissimi, avvengono purtroppo quotidianamente nel mondo per opera di fanatici estremisti. La percezione violenta che l’Occidente ha davanti a queste «stragi esterne» sembra, molto spesso, sfiorare l’indifferenza, quasi a sintetizzare che le popolazioni extra occidentali tollerino meglio il disastro, lo rendano culturalmente pensabile e socialmente accettabile in quanto più abituate a questo genere di eventi. È certamente un’assurdità. Pur nell’elaborazione di definizioni e di classificazioni locali e culturalmente variabili del concetto del male, la morte violenta è sempre e ovunque uno shock antropologico. Sta di fatto però che la cultura occidentale sembra negare come possibili la concretizzazione nella realtà dei concetti di «attacco terroristico» e di «strage di persone».

La struttura culturale su cui si regge l’Occidente è quella che Pierre Dardot e Christian Laval definiscono con il termine di «razionalità neoliberista», dove con «razionalità» s’intende una modalità storico-culturale di pensiero e di azione collettiva costituite da un insieme di strategie e di procedure, mentre «neoliberista» non ha nessun riferimento concettuale con il liberismo classico relativo al lassaiz faire e ai limiti del governo sul sistema di mercato.

Questa mentalità culturale costituisce il principio fondante dell’intera società occidentale postmoderna ed è una modalità di pensiero che ha conquistato la quasi totalità degli aspetti dell’esistenza individuale e collettiva e che solo superficialmente è di carattere economico. Di questa mentalità contemporanea è possibile individuare due momenti storici precisi relativi alla sua fondazione: il congresso Walter Lipmann nel 1938, dove viene stabilita l’origine politico-culturale del mercato, e la costruzione della Comunità Europea che si basa sui principi della nuova governance, la quale prevede flessibilità dei salari e dei prezzi, riforma del sistema pensionistico, promozione dello spirito d’impresa e la lotta contro dottrine scettiche verso i valori neoliberali.

Questa mentalità culturale presenta ricadute nazionali culturalmente e socialmente definite. In Italia si modella, per esempio, nel sincretismo ottenuto tra razionalità neoliberale e la struttura della relazione clientelare, culturalmente tollerata, onnipresente e onnicomprensiva, in cui il potere è costruito sul controllo dell’accesso alle risorse e che Amalia Signorelli riassume nel titolo del suo lavoro del 1983 Chi può e chi aspetta: chi può è chi ha la connessione giusta, la raccomandazione, il protettore e per questa via si sistema; tutti gli altri sono coloro che aspettano un’occupazione, un’opportunità, un aggancio senza il quale non salta fuori nessuna sistemazione.

Al di là dei particolarismi, in generale la razionalità neoliberista si intromette nelle istanze economiche, burocratiche, nelle logiche strumentali d’interesse all’interno di tutti gli ambiti della vita fino a strutturare totalmente la soggettività di ognuno. I concetti chiave di tale razionalità, basati su strategie politiche, sono competitività e adattamento, che portano alla generalizzazione della concorrenza quale norma di comportamento e dell’impresa come modello di soggettivazione.

La presa di consapevolezza antropologica relativa alla realtà contemporanea si basa dunque su alcuni aspetti fondamentali: il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita che, come tale, richiede un intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema operativo specifico. L’essenza del nuovo ordine di mercato non sta nello scambio ma nella concorrenza che diventa la nuova norma delle pratiche economiche. Anche lo Stato arriva ad essere sottoposto alla norma della concorrenza considerandosi esso stesso un’impresa sia nel suo funzionamento interno che nelle relazioni con gli altri Stati. L’esigenza di universalizzare la norma della concorrenza supera i confini dello Stato e penetra nelle persone, nel loro rapporto con sé stesse e con gli altri nella quotidianità.

L’impresa è promossa a modello di soggettivazione, dove tutti siamo imprese da gestire e capitali da fruttare. La conversione delle menti si ottiene tramite una trasformazione dei comportamenti attraverso tecniche e dispositivi di disciplina sia economici che sociali, con l’obiettivo di portare gli individui a governarsi autonomamente sotto la pressione della competizione e della concorrenza, per cui chi non riesce a tenere il passo e ad essere competitivo viene tagliato fuori dal sistema facendogli credere che è solo colpa sua. Si crea così una mentalità capace di imporsi come unico quadro della condotta umana.

 Parigi

Parigi

Come qualsiasi prodotto umano però anche la mentalità neoliberista ha dei limiti che lascia scoperti interi settori sociali e culturali, crea vuoti esistenziali e produce scontri con valori altri. È evidente, soprattutto all’interno di contesti urbani, come il fallimento della mentalità neoliberista e del modello di integrazione nei confronti degli immigrati, provochi una scelta di valori nuovi rispetto a quelli maggioritari da parte di alcuni gruppi sociali subordinati, valori che danno a questi ultimi l’illusione di poter cambiare la loro quotidianità.

Facciamo l’esempio della Francia e delle cosiddette «banlieue». Di fronte al grande bisogno di trascendenza a cui gli ideali della nazione non rispondono, la vita che diventa insopportabile, l’ideologia politica ridotta a merce scadente che non basta, assieme al basso livello di istruzione e all’alto tasso di criminalità, l’unica soluzione che si presenta per debellare l’ingiustizia sociale subita è, per alcuni gruppi emarginati, la conversione a nuovi ideali. L’ideologia è però sempre miope ed ingannevole; ciononostante c’è chi ha sostituito con l’Islam l’ideologia del riscatto sociale contro i potenti. L’Islam è dunque, per alcuni gruppi marginalizzati della Francia, un’occasione per colmare il vuoto esistenziale davanti all’impossibilità di un reale cambiamento sociale. L’Islam, ed in particolare la jihad quale guerra condotta per la causa di Dio, diventa per molti l’unica risposta valida.

Ma come si può spiegare antropologicamente la vulnerabilità dei francesi? Traggo l’esempio da un’esperienza diretta. Nel 2009 ho vissuto nove mesi a Lione per il dottorato di ricerca. Avevo preso in affitto un appartamento in Rue Montesquieu all’interno del quartiere multietnico della città. Il quartiere presenta i tratti della classica banlieue francese: alta delinquenza; giovani ubriachi, di origine per lo più maghrebina, per le strade; spaccio e consumo di droga; scontri tra bande rivali; tensioni con la gendarmerie; cassonetti ed auto bruciate. Personalmente avevo subìto dei fatti che mi lasciarono terrorizzata per tutto il periodo della mia permanenza a Lione. Un giorno, tornando dall’università, un gruppo di quattro giovani iniziarono ad inseguirmi a piedi. Correndo raggiunsi il portone d’ingresso del palazzo in cui vivevo e riuscii, in tempo, a chiuderlo davanti ai loro visi. Il giorno dopo i quattro giovani mi aspettarono sotto casa all’interno di un’auto e cercarono di investirmi. Ma perché? È certo che io non c’entravo nulla, ma era anche certo che quel quartiere apparteneva a loro ed io ero percepita come un corpo estraneo che doveva essere almeno spaventato a morte. Un giorno la mia tutor di tesi mi chiese come mi trovavo a vivere nel quartiere multietnico di Lione ed io non nascosi la mia paura e le mie difficoltà. La risposta della docente mi lasciò però frastornata: «Il quartiere è una realtà interessante!» (premetto che lei vive in uno dei quartieri più lussuosi della città). Non fu l’unica, in seguito, a darmi una risposta simile dopo i miei racconti sul quartiere.

Lione, guerriglia urbana

Lione, guerriglia urbana

Se volessimo generalizzare questo tipo di risposte credo che la vulnerabilità di una parte di francesi risieda in percezioni come queste che vedono in tali quartieri, oggettivamente rappresentativi di realtà socialmente ed economicamente difficili, un esotismo che attribuisce all’oggetto di osservazione una totale alterità, più immaginata che reale. I quartieri multietnici in Francia sono visti da molti francesi come manifestazioni di culture altre avvolte dal mistero, intriganti, al tempo stesso capaci non solo di incuriosire ma anche di sedurre. È probabile che il mio punto di vista non fosse oggettivo ma influenzato dalla paura; ma è sicuro che le risposte che incontravo da parte dei francesi che frequentavo all’università erano sicuramente fuori rotta.

Dall’altro lato, in Francia esiste invece un sistema di pensiero perfettamente in linea con la politica di immigrazione caratterizzata da un orientamento assimilazionista ed etnocentrico rispetto ai colonizzati importati, all’interno del territorio nazionale, all’inizio del periodo di industrializzazione nel XX secolo. In generale questo filone di pensiero si aspetta che gli immigrati, al fine di integrarsi totalmente alla cultura francese, debbano mettere da parte la propria identità originaria per essere considerati dagli autoctoni come dei «buoni francesi».

Inscrivendo quanto raccontato nelle interpretazioni dell’antropologia dei disastri, questa testimonianza può essere, seppur piccolo, un utile tassello per l’analisi del pre-impatto dell’atto terroristico. L’attentato è il prodotto di una incubazione in cui la cattiva trasmissione delle informazioni tra i vari livelli del sistema per molteplici motivi si conclude con un evento precipitante che fa innescare il disastro. La carenza informativa è sempre connessa ad altri fattori di tipo tecnico, organizzativo, comunicativo, sociale e culturale: è per questo che l’evento catastrofico va studiato nel suo contesto socio-culturale (Turner, Pidgeon 2001).

In generale però l’esempio scritto è estendibile non solo alla Francia, ma all’Occidente intero. Il quadro che si disegna mostra un percorso di sostituzione dei valori maggioritari, quelli neoliberali, con un’islamizzazione estremista delle periferie culturali per ottenere un riscatto sociale ed economico rispetto alla situazione subìta. Naturalmente un conto è l’Islam e un altro è l’orrore della deriva terrorista. Davanti ai tragici fatti degli attentati terroristi i musulmani sono sconvolti, disgustati dalla violenza e lottano per far capire al mondo la loro ferrea presa di distanza. Il Corano non è affatto il libro di guerra che sventolano i fanatici del terrore. Oggi più che mai è infatti necessario comprendere l’universo dell’Islam per sapere cogliere le differenze al suo interno.

La sostituzione dei valori neoliberali con i valori dell’Islam, non riguarda solo chi è già musulmano; episodi di conversione riguardano anche persone nate, cresciute in Occidente e di fede cristiana. È il caso, descritto anche da Roberto Saviano, del documentario Napolislam di Ernesto Pagano, girato nel 2015, in cui si raccontano storie di conversione all’Islam di persone napoletane. Il documentario testimonia una città in trasformazione i cui protagonisti sono persone che, riprendendo Signorelli, aspettano l’aggancio giusto che non arriva. Persone, con forte accento napoletano, seguono e discutono tra loro le regole coraniche, gente che, pur non sapendo esprimersi correttamente in italiano, recitano perfettamente le preghiere in arabo. Ma ciò che è maggiormente messo in luce nel documentario è la riflessione italiana sull’Islam che si limita ad un doppio schieramento tra chi condanna e chi difende, senza mai affrontare il nocciolo antropologico della questione. È anche questa una situazione di periferia in cui, lungi dal degrado a cui siamo abituati, possono crearsi nuove ipotesi di vita, nuove aperture, dialoghi e confronti con l’Islam.

Napolislam,  musulmani napoletani in preghiera lungo le vie di Napoli

Napolislam, musulmani napoletani in preghiera lungo le vie di Napoli

Un caso esemplare mostrato nel documentario è il racconto di un anziano, Giovanni Yunis, proveniente da una famiglia cattolica osservante, che si è convertito all’Islam e si è messo a studiare l’arabo. La conversione dell’uomo – racconta il protagonista – è avvenuta tramite una chiamata di Allah mentre la moglie – scherza con ironia – non ha sentito alcuna chiamata ed è rimasta cattolica. Eppure i due coniugi continuano a vivere assieme e a dormire nello stesso letto dietro il quale è appesa l’effige di una Madonna e davanti il quale Giovanni stende il tappetino verso la Mecca e si mette a pregare – caso questo tipico delle categorizzazioni delle culture popolari, diverse dalle arbitrarie classificazioni scientifiche, in cui la convivenza di due componenti contrari o diversi, non crea alcuna contraddizione. La fede islamica si fonde con la cultura napoletana, tanto che i protagonisti assumono indifferentemente atteggiamenti riconducibili più propriamente alla religione islamica ed altri più tipicamente napoletani.

Alcune video-interviste di un altro documentario, Cercavo Maradona, ho trovato Allah, girato precedentemente a Napolislam da Ernesto Pagano e da Lorenzo Cioffi, raccontano la storia di alcuni convertiti dei quartieri popolari, con precedenti per droga e criminalità, che hanno imparato l’arabo per fede e che hanno trovato nell’Islam l’unica via di salvezza dalla vita criminale. Nel documentario l’Imam incontra i nuovi fedeli, persone che cercano una strada, un senso e che trovano nel Corano il «libretto delle istruzioni per l’uomo».

Non sono certo paragonabili i casi di conversione all’Islam nel territorio napoletano e i casi dei terroristi che flagellano la Francia, l’Europa e l’Occidente in generale. Il punto comune è però il fallimento dei valori occidentali e la marginalizzazione sociale di certi gruppi che tali valori ha prodotto nel corso del tempo. L’impegno come strada per realizzarsi, il lavoro come possibilità di crescita economica e sociale, il rispetto delle leggi come via per ottenere la giustizia: tutto questo a Napoli, ma anche, per esempio, nelle banlieue francesi o belghe, è già fallito da molto tempo. La differenza è però che, osservando questi fatti come fenomeni di sostituzione dei vecchi valori con dei nuovi, si intuisce la fame di spiritualità nel caso napoletano, che crea un ponte tra Napoli e il mondo arabo, e la fame di rivendicazione degli effetti provocati dai modelli di integrazione occidentali, ma soprattutto la fame di morte da parte di assassini terroristi.

Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016 
Riferimenti bibliografici
U. Beck, La società del rischio. Verso una nuova modernità, Carocci, Roma, 2001 [tit. or. Risikogesellschaft. Aufdem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1986].
P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi srl, Roma, 2013
A. Signorelli, Chi può e chi aspetta. Giovani e clientelismo in un’area intera del Mezzogiorno, Liguori Editore, Napoli, 1983.
A. Signorelli, Ernesto de Martino. Teoria e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro Edizioni, Roma, 2015.
B. A. Turner, N. F. Pidgeon, Disastri. Dinamiche organizzative e responsabilità umane, Edizioni di Comunità, Torino, 2001 [tit. or. Man-made Disasters, Butterworth-Heinemann, London, 1997].
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Linda Armano, è dottore di ricerca in antropologia culturale e storia. Ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia, occupandosi di cultura orale in ambito europeo. Attualmente collabora con varie società e associazioni applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti disciplinari: dal marketing, al turismo, alla formazione di neurologi e psicoterapeuti per la cura di persone affette da malattie degenerative. L’obiettivo principale è diffondere l’antropologia al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica per la risoluzione di problemi reali.

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