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Sciascia: la scrittura della ragione e le ragioni della scrittura
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2022 @ 01:21 In Cultura,Letture | No Comments
di Bernardo Puleio
Nel mio intervento cercherò di abbozzare le connessioni esistenti tra la scrittura della ragione di uno scrittore dalla vasta e complessa formazione, nella quale spicca la matrice illuminista e francese, che vive nella anomalia di una realtà siciliana che spesso sconfina nella follia, e la pluralità delle ragioni di una scrittura che ha assunto molteplici forme, dal saggio al romanzo, dall’articolo al discorso parlamentare. E anche qui bisognerebbe fare un discorso più complesso che meriterebbe un approfondimento a parte: il maestro di Racalmuto sfugge a ogni catalogazione di genere.
Il saggio e il romanzo si contaminano e, spesso, il giallo una delle linee letterarie predilette, si capovolge in una aporia, in una negazione del giallo classico. Analogamente, la lucidità del ragionamento, anziché chiarire le problematiche, aggiunge complessità e impossibilità di sciogliere inequivocabilmente le matasse della oscurità della realtà. I discorsi parlamentari poi nella consolidata stringatezza e brevità dell’autore, contengono una pluralità semantica dal momento che afferiscono a varie sfere, dal discorso politico ad un ricco sostrato di intelaiature e di citazioni letterarie. Gli articoli di giornale, che non rientrano nello specifico di questo piccolo saggio, sovente diventano attività polemica che si iscrive nella connotazione del panflettista che adopera la penna come un colpo di spada senza mai rinunciare ad un discorso ordinato, elaborato nella biblioteca mentale dello scrittore, come frutto di una ragnatela fertile della dimensione letteraria basata sulla trasmissione degli auctores che costituiscono il dizionario, l’enciclopedia della scrittura.
Matteo Collura, in Alfabeto eretico, ha pubblicato un inedito del diciannovenne Sciascia, scritto nel giugno del 1940, dal titolo Fantasia agrigentina (a tutt’oggi questo è da considerarsi l’exordium letterario del giovane scrittore): attraverso una descrizione “romantica” profondamente partecipata dei paesaggi, della storia della cultura di Agrigento, emerge già nettamente delineato, il nume tutelare Pirandello. Attraverso le “lenti” inforcate dal grande drammaturgo, in un rapporto di “filiazione”, con precoce maturità, Sciascia osserva il “paesaggio” umano siciliano.
Il testo assolve ad una duplice funzione: la scrittura diventa saggio letterario, inglobando una citazione tratta dal pirandelliano Discorso su Verga (1931: un testo che colpì moltissimo, fin da giovane, lo scrittore al punto che lo volle rieditare nella silloge Delle cose di Sicilia, una raccolta di scritti rari o inediti, pubblicata con la casa editrice Sellerio a Palermo nel 1980), ma assume la connotazione di un’indagine “antropologica” sulla Sicilia e sulla sicilianità [1].
In Una storia semplice, l’ultimo testo scritto, per meglio dire dettato alla figlia, nel 1989, l’anno della morte, il professore Franzò, sfogliando alcune lettere, resta impressionato: «A diciotto anni Pirandello pensava quel che avrebbe scritto fin oltre i sessanta» [2]. Allo stesso modo, si può asserire che Sciascia, a diciannove anni, ha già perfettamente delineato il percorso che seguirà fino alla piena maturità: Pirandello è l’interprete “realista” travagliato e lacerato della Sicilia.
Ne La Sicilia come metafora, così si esprime lo scrittore sulla sua formazione:
Il rovello pirandelliano è un tarlo corrosivo [3] che appare come un dato connaturato alla realtà siciliana, non astratto, non filosofico ma realistico e popolano, secondo una lettura di uno degli autori più cari a Sciascia: Antonio Gramsci [4]. In Pirandello, padre putativo del maestro di Racalmuto, è possibile riscontrare, secondo Gramsci, un autore contestualmente paesano, nazionale ed europeo: un giudizio nel quale, Sciascia, evidenziando una seconda filiazione nei confronti del piccolo grande sardo [5], si identifica pienamente [6], elaborando la teoria che il massimo della sicilianità coincida con la universalità [7].
A giudizio dello scrittore di Regalpetra, con mirabile intuizione, e fulminea chiarezza (III: 1029), Gramsci coglie nei personaggi pirandelliani la realtà di persone vive e non loici fantocci. È Gramsci a fornire la linea interpretativa di riferimento sul realismo di Pirandello, già intuito, come si evince da Fantasia agrigentina, nel 1940. E tuttavia il realismo pirandelliano designa un mondo che sconfina nella dolorosa follia. Da qui deriva una inestricabile affilatissima e irrisolta dialettica sciasciana che sarà incentrata sulla ricerca di una complessa indagine sulla ragione, abbracciando soprattutto i modelli francesi.
Il nome di Paul-Louis Courier, vignaiolo della Turenna, seguace delle spedizioni napoleoniche in Italia, insigne grecista, “colpevole” di avere versato inchiostro, nella Biblioteca Laurenziana, sul manoscritto di Dafni e Cloe, autore di alcuni ironici e taglienti pamphlets (La petizione alle due Camere, Il pamphlet dei pamphlets), è assai noto agli sciasciofili. Per il piccolo giudice di Porte aperte (1987), Courier è sinonimo di diritto e ragione.
Come potesse essere finito in un solaio di Racalmuto, un testo raro, come quello di Courier, è la domanda che ha fatto scattare la dotta e documentata ricerca di Caronna [8], attento studioso dell’intellettuale francese. Nell’introduzione a Le parrocchie (1956), il nome di Courier è significativamente presente ed è associato a giustizia e ragione
Affermazioni queste, da cui si evince che l’ingiustizia, l’arretratezza delle condizioni socio-economiche di Racalmuto, inducono Sciascia a “sguainare” la spada – la letteratura come buona azione dunque – contro i soprusi, nel nome di Courier, confidando nella scrittura- ragione, la più alta forma di letteratura intesa come forma di giustizia. È evidente uno scopo ideologico: la speranza che la penna-spada possa infliggere qualche buona stoccata e permettere a salinari e braccianti di migliorare, nel nome del diritto, la propria condizione. Il nome di Courier, dagli esordi, dal ‘56 fino all’87, è associato, insieme al francese, alla cultura francese[9], al diritto e alla ragione. Nelle Parrocchie, è presente un chiaro intento moralistico: la ragione per cui, alla maniera di Courier, Sciascia vuole assestare dei buoni colpi di penna, coincide con la ragione dei salinari, dei braccianti, dei vecchi senza pensione, dei bambini che vanno a servizio.
Durante un incontro organizzato a Palermo nel 1965, alla presenza del sociologo triestino Danilo Dolci, lo scrittore insisteva, citando Courier, sull’intento moralistico della letteratura, considerata (manzonianamente?) una buona azione, utile a cambiare il mondo, a far conseguire progressi (qui l’eco gramsciana è forte): prima dei risultati letterari conta la realtà, l’attualità della realtà.
Può essere interessante osservare che lo scrittore concludeva l’intervento, riponendo con umiltà, grande attenzione nel giudizio del pubblico dei lettori. Nella prefazione alla edizione del 1967 delle Parrocchie, Sciascia spiega
Tuttavia, qualche anno dopo, nel 1971, proprio dalla “bandiera rossa” cioè dal Partito Comunista, o per meglio dire da importanti dirigenti di quel partito [11], sarebbero stati lanciati acuminati strali contro Sciascia, autore ne Il contesto, di una ironica e raffinata analisi sul doppiogioco dei rivoluzionari (i comunisti), pronti a malgovernare col partito di maggioranza [12]. I colpi assestati dalla penna-spada tratteggiano la decadenza dell’Italia, un Paese contraddistinto da una desertificazione ideologica
Il Contesto narra la vicenda di Cres, un farmacista ingiustamente condannato, che ordisce un folle disegno di vendetta: uccidere giudici innocenti, depistando gli inquirenti per potere assassinare Riches, il presidente della Corte Suprema. A Rogas, poliziotto colto, lettore attento di Voltaire, viene affidata la delicata indagine. Il centro del libro è costituito dal dialogo tra Riches e Rogas. Il giudice è convinto, in maniera del tutto fanatica, che l’errore giudiziario non possa esistere perché, quasi come in una sorta di religione trascendente, come nell’atto della Eucarestia, anche se il sacerdote è indegno, in ogni caso avrà luogo la transustanziazione, così, anche nel momento in cui verrà pronunciata una sentenza, anche se il giudice è una persona corrotta, la validità dell’atto non potrà mai essere messa in discussione. È una mentalità autoreferenziale che postula religiosamente, in maniera inquisitoriale, lo stato di colpa dei cittadini
Riches e Rogas sono su posizioni diametralmente opposte: il giudice nega uno dei fondamenti della ideologia di Rogas-Sciascia: il Trattato sulla tolleranza di Voltaire. Il testo, scritto nel 1763, traendo spunto da un grave errore giudiziario, nella Francia ancora insanguinata, all’interno delle stesse famiglie, da conflitti di natura religiosa, sviluppa alcuni concetti fondamentali: il perdono e la pietà, il rispetto verso le opinioni degli altri, il valore della solidarietà. In altri termini, diritto e ragione. Per esempio, nel Dizionario filosofico, Voltaire fornisce la seguente definizione della tolleranza [13]:
Nella prima pagina del Trattato sulla tolleranza è presente uno dei fondamenti della ideologia dello scrittore di Racalmuto: la difesa del diritto e della ragione nel nome del garantismo. Scrive Voltaire [14]:
È un passo di capitale importanza nella ideologia di Sciascia. In primo luogo perché attorno a questo passo viene costruito, ne Il Contesto, il punto di vista del personaggio vicario Rogas, che addirittura, uscendo dall’abitazione di Riches si imbatte in Cres, comprende di avere di fronte il potenziale serial killer e ne diventa complice consentendogli di uccidere il giudice, reo di avere attaccato fanaticamente il Trattato di Voltaire: Riches espia con la morte l’attacco contro la ragione di Voltaire. Va comunque osservato, in secondo luogo, che le riflessioni del filosofo illuminista costituiscono il faro delle battaglie e delle polemiche delle ragioni della scrittura, basata sulla difesa della ragione, cioè del diritto e del garantismo, contro ogni idea precostituita e pregiudizievole di un potere assoluto. Nel libro-intervista del 1979, La Sicilia come metafora, Sciascia, anche dopo la parodia contenuta nel finale di Candido [1977], ribadiva l’esemplarità di Voltaire, uno degli auctores più rilevanti nel sistema delle idee dello scrittore siciliano:
Ovviamente si potrebbero anche citare passi in cui l’autore si diverte a smentire la filiazione con Voltaire ma, alla luce di tanti importanti continui riferimenti, ai quali si può aggiungere il celebre saggio Il Secolo educatore che esalta il Settecento illuminista e la figura di Diderot, si può asserire che, anche al cospetto del pessimismo, la barra della navigazione è fermamente tenuta dal timone della ragione. Non falliscono gli ideali della ragione, semmai la società e le classi dirigenti si allontanano, per ignoranza, per cinismo per sete di potere, dalla ragione, creando condizioni di vita non ragionevoli, cioè ingiuste. Prende piede una concezione complessa, caratterizzata dall’eroismo tragico, dalla solitudine dell’eroe sciasciano:
Il pessimismo dello scrittore non scaturisce dalla negazione o dalla insufficienza della ragione, ma dal tradimento continuo, nella società e nella classe dirigente, delle istanze di diritto e giustizia, cioè delle ragioni della ragione, di cui si alimenta la sua scrittura. Da qui le ragioni di una scrittura che denuncia il potere, la degenerazione del potere.
Il 3 giugno 1973, Sciascia pubblica un’illuminante nota su La stampa, a proposito dell’anarchico Bertoli e della strage compiuta, davanti alla questura di Milano, in occasione della scopertura del busto del commissario Calabresi. Nell’articolo su La stampa, lo scrittore denuncia la criminalità insita nel potere, la presenza di un vero iperpotere occulto che, attraverso le stragi e la delegittimazione del potere ufficiale, serve a mantenere lo staus quo. Le considerazioni riportate in quell’articolo gli piacquero a tal punto che furono riproposte in Nero su nero (II: 730):
Questo iperpotere, proseguiva lo scrittore, ha dato prova di sé a partire dalla strage di Portella della Ginestra (in provincia di Palermo, dove, il I maggio 1947, furono uccise 13 persone che si erano radunate per ascoltare il comizio di uno dei più grandi capi comunisti isolani: Girolamo Li Causi) con la morte di Giuliano e di Pisciotta
Lo scrittore elabora la teoria della contrapposizione dei poteri formulata nel dialogo tra due delle vittime sacrificali de Il cavaliere e la morte, il dottor Rieti, funzionario dei servizi segreti e il Vice:
C’è un aspetto dell’attività di Sciascia che non è stato molto studiato e che invece andrebbe messo maggiormente in luce e riguarda la sua attività di parlamentare svolta a partire dal 1979 quando, a sorpresa, si candidò e fu eletto all’interno del Partito Radicale. Pannella volle che Sciascia diventasse capogruppo radicale a Montecitorio. Il 10 agosto 1979, lo scrittore, a nome del Partito Radicale, spiegò le ragioni del voto di sfiducia al costituendo governo Cossiga. Il discorso del cittadino Sciascia – sembra che riecheggi la precisione delle acuminate riflessioni di un Robespierre o di un Courier – è molto tagliente: Cossiga era stato Ministro degli Interni all’epoca del sequestro Moro, la sua Presidenza del Consiglio, nel momento in cui si sarebbe insediata la commissione Moro, di cui anche lo scrittore avrebbe fatto parte, con grande fastidio di comunisti e democristiani,
Si tratta di un discorso stringato, privo di retorica, assolutamente letterario, del modo di intendere secondo ragione e diritto la letteratura, perfettamente in linea con quanto lo scrittore ha pensato ed elaborato nei suoi testi demistificatori: le ragioni della scrittura, di una scrittura di smascheramento dell’impostura, arrivano direttamente nella sede del potere politico della Nazione. Nella seduta del 26 febbraio 1980, l’autore del Giorno della civetta chiede che nella lotta alla mafia i controlli patrimoniali siano estesi
Non rientra nell’oggetto di questo piccolo saggio l’analisi della scrittura del polemista, dei tanti colpi di spada assestati attraverso articoli che spesso hanno assunto la forma dell’affaire Sciascia [17]. Tuttavia non è forse fuori luogo soffermarsi sull’ultima polemica, non molto nota, sostenuta dallo scrittore nel marzo del 1989 sulle colonne del quotidiano La Stampa.
Sciascia polemizza con Luciano Canfora, autore del libro Togliatti e i dilemmi della politica, nel nome di Gramsci. L’oggetto del contenzioso riguarda una lettera scritta dal militante comunista Grieco, nel 1928, da Mosca e indirizzata a Gramsci, incarcerato dal tiranno fascista. Era chiaro che la lettera indirizzata ad un detenuto politico così illustre sarebbe stata sottoposta all’inquisizione giudiziaria del tribunale speciale fascista. Questa lettera, ritenuta autentica dal fondatore del PCI, quantomeno intempestiva, ne avrebbe potuto aggravare la già tribolata posizione giudiziaria. Canfora ritiene che la lettera sia stata una montatura organizzata dall’OVRA, la polizia politica fascista, per ordire un complotto ai danni di Gramsci. Sciascia con due interventi sulla Stampa del 17 e del 21 marzo, dopo aver puntigliosamente riletto alcune parti delle Lettere dal carcere, sottolineando che Gramsci riteneva autentica la lettera di un militante personalmente conosciuto – autenticità confermata dallo storico ufficiale del Partito Comunista, Paolo Spriano – smentisce la tesi di un complotto organizzato dall’OVRA: la lettera non è stata inclusa tra le prove a carico dell’onorevole Gramsci e il magistrato giudicante così allusivamente si è espresso [18]: «Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera». Pertanto Sciascia arriva alla conclusione di una affinità tra il caso Gramsci e il caso Moro: ambedue abbandonati se non addirittura traditi dai propri partiti.
Fino all’ultimo, le ragioni della scrittura coincidono con la verità e con una visione eretica contraria ad ogni logica di potere. Sciascia si mostra attento e appassionato ammiratore gramsciano, anche se il suo primo intento è quello di stabilire una lettura anticonformista e veritiera dei fatti, anche se traspare tutta la sua ostilità nei confronti di una cinica e immorale real politik, anche se Moro e Gramsci vengono accomunati in uno stesso destino di martirio, appare evidente la diversità, la centralità del ruolo esercitato dall’intellettuale sardo.
La diversità a cui qui si allude non è frutto solo di una precisazione storica o di una distinzione ideologica, è il riconoscimento del peso morale e intellettuale svolto dal dirigente comunista: sulla figura di Moro, non si dimentichi il seguente giudizio molto caustico contenuto nell’Affaire Moro: «Né Moro né il partito da lui presieduto avevano mai avuto il senso dello Stato» (II: 482).
Il 1989 è l’anno della morte e, significativamente, Sciascia conclude la sua esistenza, nel nome dei padri Pirandello, spesso citato in Una storia semplice, e Gramsci, ma rievocando anche le ragioni di una scrittura che parteggia per gli uomini soli e abbandonati, prigionieri della retorica di un potere spietato che obnubila l’intelligenza della ragione, omologando il sentire pubblico: e oggi, finita la dittatura fascista, finita l’egemonia culturale comunista, sono ben evidenti e tangibili le forme della tirannide più ipocrita e più asservita al potere, la tirannide dei nomi apparentemente inclusivi, degli intellettuali buonisti, una tirannide che lascia inalterata la condizione di disuguaglianza, il fascismo del politicamente corretto.
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