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Sante non si nasce, si diventa. Fisicità femminile e interpretazione magico-religiosa

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2016 @ 00:37 In Cultura,Religioni | No Comments

 Natività di  Andreji Rublev, 1405

Natività di Andreji Rublev, 1405

di Veronica Polese 

«De femmene oneste una ‘nce steva e addiventaje Madonna!» [1]. Maria incarna appieno le caratte- ristiche femminili esaltate dalla dottrina cattolica e la sua figura di madre e donna mite viene usata come esempio di femminilità da seguire.  Ma per raggiungere questo risultato sono stati necessari tempo e reinterpretazioni teologiche. Inizialmente Maria divenne la summa delle precedenti divinità pagane e ne mantenne alcuni attributi iconografici (es.: la luna di Diana, il melograno di Cerere), alcuni appellativi (es.: Regina Mater come Giunone, Mater deorum o Sancta Dei Genitrix come Rea) e le furono attribuiti poteri taumaturgici, tra cui la protezione durante il parto [2].

Ed è proprio attraverso la raffigurazione del parto di Maria, ovvero la Natività, che è possibile cogliere i cambiamenti ai quali il suo personaggio è soggetto. La scena sintetizza allegoricamente i misteri dogmatici della Vergine madre, della Madre immacolata e del Figlio di Dio che si fa uomo, ad indicare quanto Maria sia un personaggio fondamentale del contesto narrativo-figurativo, anche se nel corso della storia ha dovuto cedere “posizioni” alle figure maschili dotate di potere divino, cambiando progressivamente postura, in relazione alle interpretazioni teologiche in voga nelle diverse epoche. Dapprima appare distesa sul giaciglio da partoriente, successivamente si siede ed effettua una rotazione verso il bambino, per poi inginocchiarsi in adorazione, come da attuale tradizione.

Tra il VII al IX secolo, l’iconografia della Natività subisce influenze bizantine: al centro della scena, distesa su un lungo cuscino, si trova Maria, distante dal bambino che giace nella mangiatoia, di lato o alle sue spalle. Con la codificazione e la diffusione di questa immagine, Maria diviene protettrice di gravidanza e parto. È ciò che caratterizza il passaggio successivo, tra l’XI e il  XIII secolo, quando Maria non è più distante dal bambino ma, dopo averlo dato alla luce, si rivolge al neonato con fare affettuoso di madre. Con la diffusione della dottrina francescana che predica un Dio più prossimo all’uomo, a partire dal XIII secolo, l’immagine della Natività subisce un’ulteriore modifica: Maria, si caratterizza esplicitamente con la tenerezza di una madre, attraverso nuovi gesti: tocca la culla; tiene il bambino tra le sue braccia; lo allatta. Da questo momento in poi, la madre non è più sola al centro della scena, ma è affiancata da suo figlio.

In seguito alla pratica del presepe di san Francesco d’Assisi, si diffonde il motivo iconografico del santo che prega in ginocchio alla nascita di Gesù. Così Maria deve adeguarsi ancora una volta e si inginocchia innanzi al Figlio di Dio (sebbene sia anche suo figlio), assumendo la posa attuale e, al pari di tutti gli altri esseri umani, umilmente venera il Bambino, passando definitivamente in secondo piano [3].

Simone De Beauvoir ha scritto: «La donna è abituata a vivere in ginocchio; normalmente, ella attende che la sua salvezza scenda dal cielo dove regnano i maschi» [4]. Come per Maria, che da Mater Dei Genitrix è diventata madre adorante, le revisioni teologiche hanno infatti scavato un solco tra i generi, determinando una cultura della subalternità della donna.

N.G. december 2015, Usa

N.G., december 2015, Usa

Le discussioni sulla madre di Gesù hanno da sempre accompagnato lo sviluppo della teologia cristiano-cattolica, tra devozione e speculazione, tanto da diventare un vero e proprio ambito della disciplina, indicata con il termine mariologia. I Padri della Chiesa  si sono sempre dovuti confrontare con questa figura femminile, espressione del potere generativo e dunque di una forza simbolica divina, seppure ancorata alla sua essenza umana. Uno fra questi è San Bernardo di Chiaravalle che, nel commentare l’Annunciazione del vangelo secondo Luca, così scrive:

«Apri il tuo seno, o Vergine, dilata il tuo grembo, prepara il tuo utero, perché ecco sta per compiere in te grandi cose colui che è potente, talmente che, invece della maledizione di Israele, tutte le generazioni ti chiameranno beata. Non aver timore della fecondità, perché non ti toglierà l’integrità. Concepirai ma senza peccato. Sarai gravida, ma senza sentire il peso. Partorirai, ma senza tristezza. Non conoscerai uomo e partorirai un figlio»[5].

Nell’era moderna è Papa Giovanni Paolo II che negli anni ’80 rilancia il culto mariano, esaltando Maria come modello morale di femminilità composta, umile, materna, che accetta la sofferenza, in opposizione alla figura della donna femminista, che accetta invece il divorzio, il sesso slegato dalla procreazione, l’aborto ed i metodi contraccettivi. Nel sinodo del 1981 Wojtyla definisce la famiglia un concetto derivato direttamente da Dio e ribadisce la posizioni della Chiesa in merito a sessualità e contraccezione.

«[…] Pertanto la Chiesa può e deve aiutare la società attuale, chiedendo instancabilmente che sia da tutti riconosciuto e onorato nel suo valore insostituibile il lavoro della donna in casa. Ciò è di particolare importanza nell’opera educativa: viene eliminata, infatti, la radice stessa della possibile discriminazione tra i diversi lavori e professioni, una volta che risulti chiaramente come tutti, in ogni campo, si impegnino con identico diritto e con identica responsabilità. Apparirà così più splendida l’immagine di Dio nell’uomo e nella donna. Se dev’essere riconosciuto anche alle donne, come agli uomini, il diritto di accedere ai diversi compiti pubblici, la società deve però strutturarsi in maniera tale che le spose e le madri non siano di fatto costrette a lavorare fuori casa e che le loro famiglie possano dignitosamente vivere e prosperare, anche se esse si dedicano totalmente alla propria famiglia (Donna e società-23)»[6].

L’Esortazione Apostolica propone una guida allo sviluppo di una società prospera, in cui il ruolo della donna viene riconosciuto ma circoscritto entro i confini familiari, (madre e lavoratrice per e nella famiglia), secondo l’ottica di un potere maschile [7].  Di fatto il Potere si assicura il controllo sociale attraverso il controllo delle nascite ed utilizza il Sacro per legittimare se stesso, oltre che per emarginare e spaventare i suoi antagonisti. Il Sacro dunque non è altro che la proiezione del Potere, trasformato in una rappresentazione trascendente, esterna al soggetto che lo detiene [8].

Non a caso quando era nota esclusivamente l’evidenza della fecondità femminile ed il ruolo del maschio era ancora sconosciuto, le comunità veneravano un principio divino femminile, come testimonia la moltitudine di statuette votive dedicate alle dee della fertilità. I manufatti votivi, rinvenuti in quasi tutti gli insediamenti del Neolitico, sono caratterizzati da attributi antropomorfi materni enfatizzati e sono assimilabili al culto della Dea Madre [9].

Statuine Dea Madre

Statuine Dea Madre dell’età Paleolitica

Ma il potere generativo femminile, con la sua forza simbolica, ha generato nel maschio una paura atavica, che ha portato come conseguenza l’esclusione della donna dalla determinazione religiosa e sociale. Secondo l’antropologa Magli, infatti, la massimizzazione del potere maschile si evince da una definizione del mondo e dei rapporti a misura d’uomo ovvero basata sull’«utensile etnocentrico del genere maschile»: il pene [10]. Infatti con l’avvento della scrittura il Dio-Padre e la cultura patriarcale sostituiscono progressivamente il culto della Dea Madre, fino a scalzarlo del tutto. Con i testi sacri la religione del Padre fissa le sue fondamenta e diventa riproducibile e tramandabile. Da quel momento la famiglia si riconosce nel padre, i popoli si formano a partire da un uomo, Abramo, e le generazioni si riproducono di uomo in uomo [11]. «Sarai madre di colui che ha Dio Padre, il Figlio dello splendore del Padre sarà la corona della tua carità. La sapienza del cuore del Padre, sarà il frutto del tuo grembo verginale» [12]. Nonostante ciò, nel dicembre 2015, l’edizione U.S.A. di National Geoghrafic titola in copertina: «Mary the most powerful woman in the world» ovvero «Maria, la donna più potente del mondo» e le dedica un lungo articolo. La donna che ha messo al mondo il Salvatore, ha un enorme popolarità e, grazie al ruolo di intermediazione [13] tra umano e divino che la Chiesa le ha assegnato, ha sviluppato un rapporto privilegiato con i fedeli, tutt’oggi vitale.

In passato il fervore devozionale poteva manifestarsi attraverso forme estreme, espresse nella fisicità. Alcune cronache medioevali riportano che donne dotate di capacità visionarie credevano di poter assistere a ciò che accadeva all’interno del corpo della Madonna durante la gravidanza, «come se il suo ventre fosse una calotta di cristallo». Inoltre raccontano che le

«donne pie del XIII e del XIV secolo, volevano imitare Maria, cercavano di vivere anche fisicamente la gravidanza. In sogni o in visioni si sentivano esse stesse madri del figlio divino. E in effetti molte di queste donne riuscivano ad imitare e a sentire tutte le fasi della maternità di Maria, come lei lo portò nel suo corpo, come lo allattò e come lo cullò. Le loro esperienze di fusione amorosa vengono descritte con un linguaggio dalle forti connotazioni erotiche. Le espressioni traboccanti di metafore d’amore rivelano un sentimento della vita che ancora riusciva a consiliare eros e religione, corpo e anima. E in conclusione: per mettere in forma di parole il desiderio spirituale d’amore, la vicinanza spirituale, l’empatia nell’esperienza e nel dolore, non esiste altra lingua che quella degli amanti. Senza il soffio dell’eros ogni descrizione resta sterile e scialba»[14].

Per Simone de Beauvoir è da tempo condivisa l’idea che nelle donne mistiche vi sia una componente di sensualità ed eros che accompagna la devozione. Queste donne infatti si sentono valorizzate e assorbite dall’amore di un essere superiore in toto, nello spirito e nel corpo; l’erotomania mistica ha dunque un carattere platonico e sensuale. [15] Caso celebre è la visione di S. Teresa d’Avila, da lei stessa descritta:

«Mentre ero in questo stato, piacque a Dio di favorirmi a più riprese con la seguente visione. Vedevo vicino a me, al lato sinistro, un angelo in forma corporea. Non era grande, ma piccolo e molto bello, all’ardore del volto pareva uno di quegli spiriti sublimi che sembra si consumino tutti in amore, e credo si chiamino Cherubini. [...] Quel Cherubino teneva in mano un lungo dardo d’oro, sulla cui punta di ferro sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, cacciandomelo dentro fino alle viscere, che poi mi sembrava strappar fuori quando ritirava il dardo, lasciandomi avvolta in una fornace di amore. Lo spasimo della ferita era così vivo che mi faceva uscire nei gemiti di cui ho parlato più sopra, ma insieme pure tanto dolce da impedirmi di desiderarne la fine e di cercare altro diversivo fuori che in Dio.  Benché non sia un dolore fisico ma spirituale, vi partecipa un poco anche il corpo, anzi molto. Allora tra l’anima e Dio passa come un soavissimo idillio. E io prego la divina bontà di farne parte a coloro che non mi credessero. Quando ero in questo stato andavo come fuori di me. Non volevo vedere, né parlare con alcuno, ma starmene sola con il mio tormento che mi pareva la gioia più grande di quante ve ne fossero nel creato. Sia benedetto per sempre quel Dio che ricambia con tante grazie l’ingratitudine di chi corrisponde così male ai suoi immensi benefici!» [16].

Per rispetto del sacro, la consuetudine vuole che sia la povertà di linguaggio a spingere la mistica ad usare termini erotizzati; ma le mistiche, in quanto donne, offrono a Dio tutto ciò che hanno, corpo compreso, e come molte donne innamorate si annullano nel sentimento. L’estasi rappresenta fisicamente l’abolizione dell’io, la rinnegazione del proprio corpo per essere pervase da questa presenza incontrollabile e totalizzante. La mistica francese Madame Guyon scrive:

«Voglio l’amore che mi trafigga l’anima con fremiti ineffabili, l’amore che mi faccia cadere in deliquio. Oh mio Dio! Se voi faceste sentire alle donne più sensuali ciò che io sento, esse abbandonerebbero subito i loro falsi piaceri per godere di un bene sì vero».

La maggior parte delle donne mistiche cercano di annientarsi attivamente, attraverso la distruzione fisica. Sebbene l’ascetismo sia stato praticato anche dai monaci,

«l’accanimento sulla propria carne del misticismo femminile ha un carattere particolare: la donna attraverso l’umiliazione e la sofferenza raggiunge la gloria, portando all’abnegazione la propria carne, ne fa strumento di salvezza. È questo il motivo degli eccessi  che alcune sante raggiungono» [17].

Ci sono altri casi in cui la connotazione sensuale e di genere, che segue l’umiliazione delle carni, è ad opera di un carnefice e non della volontà di unione totalizzante con il divino. La leggenda di Sant’Agata, patrona di Catania, di fatto, descrive una religiosità femminile estatica passiva, il cui fattore il scatenante è un uomo. Vissuta al tempo delle persecuzioni cristiane, Agata proviene da una nobile famiglia che la guida ad insegnamenti cristiani. Ancora bambina fa voto di castità. La bellezza e la ricchezza di cui era dotata, attirano l’attenzione del pretore romano Quinzano che, vistosi respinto senza revoca, rapisce Agata e la sottopone a numerose torture, (fino a denunciarla per tradimento al paganesimo e destinarla al rogo). Tra le torture a cui Quinzano sottopone Agata vi è l’amputazione delle mammelle: «tagliarono una parte della carne di S. Agata del petto perché in altro modo non le potevano avere, tanto erano piccioline» [18]. Il pretore romano priva Agata di ciò che desidera possedere, conferendo al martirio una connotazione sessuale; la santa ricorda al carnefice «di aver fatto tagliare dal suo petto ciò che, in passato, aveva succhiato per nutrirsi» alludendo alla maternità, attribuibile ancora al genere femminile.

Avendo subito l’amputazione delle mammelle, Sant’Agata è invocata dalle donne, in caso di malattia al seno e a protezione dell’allattamento, quest’ultima caratteristica condivisa con Maria. Secondo il folklore locale, per la festa in onore della santa patrona di Catania, si preparano le “minnuzzi ri Sant’Àjita” (seni di S. Agata), dette anche “minne ri Virgini” (seni di vergini), piccole cassate la cui forma ricorda quella del seno appunto. Il dolce ha funzione di amuleto, la cui preparazione serve a compiacere la “Santuzza” la quale, grazie alle sue “minne protettrici”, ricambia con il dono della salute.

«La nonna, femminista a modo suo, volle lasciare a me il bene di famiglia più prezioso, la ricetta delle minne di sant’Agata. […] Agatì, beddruzza mia, comincia a mischiare la farina con la sugna e sèntimi bene, che ti devo raccontare una cosa importante. Devi sapere che Sant’Agata, prima di fare miracoli, era una picciuttedda graziosa tipo te [… ] Un giorno passò di là il console romano, un certo Quinziano. […] A Quinzano quella signorinella dolce, morbida, di buona famiglia e timorata di Dio ci tolse la pace del giorno e il sonno della notte. […] L’atteggiamento di verginedda timida eccitò i sensi del console. […] Prima o poi te ne accorgerai anche che qui in Sicilia, isola di cruzzuni, i desideri delle donne non contano niente, mentre quello che vogliono gli uomini diventa destino. […] A Quinzano il rifiuto ci parse una tagliata di faccia e se lo presero i santi diavoloni. […]Perché devi sapere che gli uomini, se non ci provi piacere quando ti toccano, si sentono mezzi masculi, ma guai a te se ci provi piacere, perché allora ti collocano tra le buttane »[19].

Anche nelle tradizioni popolari la religiosità esprime la sua efficacia attraverso l’analogia e il contatto con il corpo: il proverbio «Sand’Achete benedàtte, famme arevenà lu latte pé stu cétele!» [20] ricorda come la Santa fosse invocata non solo in Sicilia, ma in tutto il Centro-Sud Italia, per avere latte in abbondanza. All’invocazione spesso si abbinavano riti, come quello di applicare un cavalluccio marino vivo sui capezzoli; far bere alla puerpera un decotto ricavato dall’ebollizione di cavallucci marini o, in mancanza d’altro, spargere sul seno polvere di ippocampo seccato (che aiutava anche a guarire dalle ragadi); bagnare il seno con la rugiada alla mattina e avere l’accortezza di non portare mai fiori in petto.

Il seno è la fonte preziosa del nutrimento che garantisce la continuità al genere umano e dunque le donne hanno sempre sentito la necessità di proteggerlo. Anche Ernesto De Martino, durante le sue ricerche in Lucania, rileva pratiche magico-religiose usate in caso di mancanza di latte, contro fatture e sguardo invidioso che “asciugano” o “rubano” il latte dal seno. De Martino riporta che durante la recitazione di uno scongiuro, veniva afferrato il capezzolo con uno straccio e si effettuavano movimenti a croce. L’antropologo demologo inoltre registrata tra i vari scongiuri il seguente: «In nome di Gesù e Maria ‘u latte se n’è gghiute via; in nome di Gesù e di Giuseppe ‘u latte lassa venisse ‘npiette!» [21].

A differenza della religione ortodossa, la tradizione popolare, avendo una propria autonomia di sviluppo, pone anche la Madonna come operatrice di forza negativa, in corrispondenza del potere femminile che riesce a privare del latte; Giuseppe invece diviene forza positiva di contrasto, mentre il Bambino è il fulcro tra gli influssi soprannaturali [22].

Dialoghi Mediterranei, n.22, novembre 2016
Note
[1]   “Di donna onesta una sola ce n’è stata e diventò la Madonna”, proverbio campano.
[2]   Sergio Bertelli, Il re, la vergine, la sposa. Eros, maternità e potere nella cultura figurativa europea, Donzelli Editore, Roma, 2002.
[3]  Maria Bergamo, Da Maria puerpera a Maria adorante. Evoluzione della postura della Madre di Dio nelle immagini della Natività in La rivista di Engramma (online), n. 29 del 2003, ISBN 1826-901X.
[4]   Simone De Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 2008 (1949).
[5]   San Bernardo da Chiaravalle, Lodi della Vergine Maria I,8, Le vie della Cristianità Editore, Roma, 2011
[6]  Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 22 nov. 1981
[7]   «L’uomo immagine di Dio Amore, 11 […] La Rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione della persona umana, nella sua interezza, all’amore: il Matrimonio e la Verginità.  […] Questa totalità, richiesta dall’amore coniugale, corrisponde anche alle esigenze di una fecondità responsabile, la quale, volta come è a generare un essere umano, supera per sua natura l’ordine puramente biologico, ed investe un insieme di valori personali, per la cui armoniosa crescita è necessario il perdurante e concorde contributo di entrambi i genitori», ivi.
[8]  Ida Magli , Il mulino di Ofelia,  Rizzoli, Milano, 2016.
[9]  Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia, Roma, 2014.
[10] Magli, op. cit.
[11] Marija Gimbutas, op. cit.
[12] San Bernardo da Chiaravalle, op cit., I,8
[13] Per esempio nella preghiera “Salve Regina” Maria è chiamata «avvocata nostra».
[14] Klaus Schreiner, Vergine, madre, regina: i volti di Maria nell’universo cristiano, Donzelli, Roma, 1995.
[15]  Simone De Beauvoir, op.cit.
[16] Teresa d’Avila (Santa), Vita, cap. 29
[17] Simone De Beavoir , op. cit.
[18] Corona G., Leggendario delle santissime vergini, le quali volsero morire per il nostro Signor Gesù Cristo, per mantenere la sua santa fede, per Giuseppe Corona, Venezia, 1731.
[19] Giuseppina Torregrossa, Il conto delle minne, Mondadori, Milano 2009
[20]  «Sant’Agata benedetta, fammi arrivare il latte per questo bambino!», proverbio della zona di Vasto
[21]  «In nome di Gesù e Maria il latte se n’è andato via, in nome di Gesù e Giuseppe il latte lascia che ritorni al seno!»
[22] Ernesto De Martino (1956), Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 2006 

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Veronica Polese,  sociologa, si interessa di studi di genere, politiche sociali, cultura e folklore. Ha esperienze in museografia e antropologia visuale, ricerca sociale, progetti per le scuole, laboratori didattici, strutture per minori. Collabora con uno sportello antiviolenza ed è volontaria per Chayn Italia. Ha scritto testi per il progetto artists.sociologists – Dialoghi tra artisti e sociologi. Ha collaborato con la rivista elettronica Magm@; ha pubblicato, a quattro mani, Musei e beni immateriali. Il contributo della multimedialità e ha condotto ricerche sul differenziale salariale di genere e i tempi di conciliazione delle donne immigrate.

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