Stampa Articolo

San Lorenzo tra incanto e sfasciume

San-Lorenzo-giugno-2016-ph.-Vito-Teti.

San Lorenzo, giugno 2016 (ph.VitoTeti)

di Vito Teti

Sono addossate alle cime dei monti e delle colline le nuvole bianche che danno luce ai piccoli borghi che, dall’alto, sembrano guardarsi e chiamarsi per sentirsi meno soli e meno vuoti. Sono appiccicate ai tetti di quei paese-presepi dell’estrema punta della Calabria, ai piedi dell’Aspromonte, e sembrano impegnate a tenere fermi quelli, che da decenni si stanno svuotando. L’acqua della vicina distesa marina, là dove Tirreno e Ionio si abbracciano e si confondono generando incontri, arrivi, leggende, miti, mostri, sirene, e le acque delle fiumare e dei torrenti, dove abitavano le Nereidi e le Naiade, che scendono ora furiose ora lente dalle montagne vicine, le correnti e i venti che si formano e giocano tra terra e cielo, creano quei cirri e quelle pecorelle ora stabili ora volanti che sembrano volere distrarti, farti perdere e smarrire, incantato, indeciso se guardare il mare, le vallate, le colline, i monti, le casupole e le campagne che solo di rado diventano orti e ancora si offrono con le piante di ulivi secolari, di uva, di fichi e più in basso di agrumi.  «Terra di bellezze e di rovine», di eccessi e di grandi contrasti geografici, climatici, sociali: scrivevano qualche viaggiatore del Grand Tour e anche qualche studioso locale, descrivendo, ammirati, questi luoghi di contrasti.

Mi sono affacciato, fin dagli anni Settanta, diecine di volte dalla lunga terrazza naturale, un contrafforte, un acrocoro a quota 787 metri, di San Lorenzo, uno dei paesi greci di Calabria, a 54 chilometri da Reggio e a 22 da Melito Porto Salvo. Mi sono, a volte, perso e smarrito da fermo, incerto sulla direzione da dare al mio sguardo. Ho avuto bisogno di amici e studiosi del luogo per dare un nome a questo  mappamondo con tutti i caratteri della natura  (montagne, colline e paesi, marine, dirupi, vallate). Ho faticato a mettere a fuoco: Perìpoli con le ultime alture dell’Aspromonte, il monte Agrippadi e Condofuri e la vallata dell’Amendolea e in cima Bova, l’antica capitale di quei luoghi, abitati dai nomi greci; lo Ionio e tutto il suo litorale, con i paesi sorti in epoca moderna e negli ultimi decenni, da Bova Marina a Melito; la grande roccia che abbraccia e nasconde Pentedattilo, il paese delle cinque dita, ormai praticamente abbandonato; la parte meridionale dello Stretto; la costa orientale della Sicilia con l’Etna, o Mongibello (in versione italo-araba) o Mungipeddhu in lingua locale, di cui scorgi le cime innevate o la lava quando esce; la dorsale appenninica occidentale che si collega a Perìpoli.

Il basso e l’alto, il sottoterra e il cielo. Le luci e le ombre. Le acque dei fiumi e dello Stretto, le cime dei monti e gli sprofondi della natura: tutti qui concentrati.

Immagino siano stati luoghi come questi ad aver suggerito l’immagine di «sfasciume pendulo» sul mare a Giustino Fortunato nel suo intento di demolire mitologie e leggende dei poeti antichi, sul Mezzogiorno come Eden e Paradiso. Lo studioso non voleva concedere alibi a chi esibiva visioni consolatorie e soluzioni sbrigative alla questione meridionale. Eppure quell’immagine dell’Appennino, delle zone  montuose e collinari della regione, naturalmente povere, aveva anche una sua tendenziosità: era parziale ed ha condizionato il formarsi dell’equazione Montagna, arcaicità, isolamento, territorio improduttivo.

Olindo Malagodi, all’indomani del terremoto del 1905, nelle sue cronache che diventeranno un dolente e civile resoconto di viaggio (Calabria desolata), confutava l’immagine di una terra naturalmente povera. La povertà era storica, sociale, frutto di una storia d’invasioni e dimenticanze, di catastrofi naturali e di oppressione dei dominatori stranieri e del luogo. La montagna a guardarla dall’interno, non dal basso, si presentava con bellezze e risorse impensabili ed era attraversata da vie dei canti: era il luogo di convergenza di paesi e di economie migranti. L’idea della povertà della montagna era errata e ideologica. Malagodi indicava un mutamento di prospettiva e un rovesciamento di sguardo che oggi, nel momento in cui le città e le metropoli non sono più il paradiso immaginato da chi fuggiva, ricompare.

. Verso Africo. Dopo Bova. Il salto della zita, maggio 2011 (ph. V. Teti)

Verso Africo. Dopo Bova. Il salto della zita, maggio 2011 (ph. V. Teti)

Pasquale Manti, in una bella monografia sul suo paese di origine (S. Lorenzo. Il paese dell’olmo, La Città del Sole) ricostruisce come il territorio di S. Lorenzo – oltre al centro storico, quasi disabitato, ne fanno parte Marina di San Lorenzo, Cappella Vecchia, Chorio, Contrada Croce, Gomeno, Lànzina o Lànzena, Mulino di Luciano, San Fantino, San Pantaleone, Santa Maria  – le vallate e le colline, le terrazze, le fiumare e gli orti, su cui si affaccia siano state segnate da una storia ininterrotta di cataclismi, a cominciare dal terremoto del 91 a. C., il primo storicamente accertato, da quelli del 18 a. C. e del 365 d. C., considerati tra i più catastrofici, e poi quelli non meno devastanti del 1509 e del 1783. Il «terribile flagello» generò nell’abitato lo strapiombo di Jannuzzo nel quale si inabissò un primo nucleo abitativo del paese e l’antico monastero basiliano di Santa Caterina. Questi luoghi descritti come sublimi, affascinanti, misteriosi, magici dalla letteratura di viaggio erano il risultato delle grandi catastrofi naturali.

Anche a San Lorenzo, come nelle altre città della Calabria colpite dal sisma, gli interventi di Ferdinando IV di Borbone (con un’élite di principi, ingegneri, tecnici) furono tempestivi, coraggiosi e innovativi. La Calabria diventa un laboratorio politico con l’incameramento dei beni ecclesiastici e il ridimensionamento dello strapotere dei baroni. Il programma di ricostruzione è innovativo, ambizioso, lungimirante. Purtroppo – nonostante i tanti apprezzamenti che oggi arrivano da una letteratura revisionistica – si realizzò ben poco del programma originario; baroni e latifondisti decisero siti e modalità della ricostruzione mentre le popolazioni rimasero per decenni in baracche di legno e lamiera. A metà Ottocento, molti viaggiatori trovano comunità precarie, divise, lacerate da lotte intestine, con popolazioni ancora melanconiche e afflitte dalla memoria di un evento che non passava mai.

02-fiumara-dellamendolea-amendolea-maggio-2011-ph-v-teti

Fiumara dell’Amendolea, maggio 2011 (ph. Vito Teti)

Cominciava da allora un declino –  non affrontato e non risolto né dai Borbone né dal nuovo Stato Unitario – da cui la regione non si sarebbe mai ripresa. Altri terremoti devastanti in quell’area della Calabria si verificano nel corso dell’Ottocento e poi nel 1905, 1907, 1908, che radono al suolo Reggio e Messina. Quasi per fare, dell’immagine dello sfasciume, una profezia e una maledizione che si avverano, bisogna ricordare quanto fu compiuto e non compiuto dai governi succedutisi nel tempo, dai baroni e dai signori famelici, dalla discesa lenta lungo le coste degli abitanti dell’interno, dall’inconsulto e immotivato disboscamento, dall’emigrazione, dalle rovinose alluvioni dei primi anni Cinquanta e dei primi anni Settanta che determinarono l’abbandono d’intere comunità di quell’area e di altre zone della Calabria. Una storia di distruzioni cicliche e di tenaci ricostruzioni, devastazioni e riparazioni, fughe e resistenza.

Ad attirare l’attenzione e a contrastare qualsiasi visione edulcorata e neoromantica del vuoto e dell’abbandono ci pensano lo sfasciume contemporaneo e le macerie del presente: quelle case incompiute incollate alle colline o gettate nel letto del fiume, che fanno da controcanto ai paesi vuoti che sembrano crollare sotto i colpi delle piogge, del vento, del sole, che proprio in un giorno d’estate si succedono a turno e rendono quasi surreale un paesaggio inquietante e affascinante che, dall’alto, fa venire le vertigini e ti fa pensare come la bellezza di questi luoghi sia, davvero, tutt’uno con la loro fragilità e provvisorietà.

San Lorenzo, centro storico (ph. Vito Teti)

San Lorenzo, centro storico, giugno 2016 (ph. Vito Teti)

Il vento

Uno dei tanti nomi era Ventiloro o Vintirolo, il paese del vento, con il nome composto da “vento”, e dal suffisso “-oli” che equivale a “ora”, vale a dire “paese”. Un vento che – per un gioco di correnti, di fughe, di dirupi –  si sente anche d’estate e che era una sorta di anima del luogo, quel soffio insistente che accompagnava i giochi dei bambini nascosti e accovacciati alla Torre, che faceva vibrare i fili del telefono, e creava effetti sonori da sequenze musicali della natura, ma che, nella fantasia popolare, come dice Manti, induceva a volare con la fantasia, generava leggende e creava visioni apocalittiche. Quanti di noi cresciuti negli anni Cinquanta nei paesi interni dell’Appennino non hanno conosciuto il fascino e la paura del vento? Quanti di noi, nascosti nei vicoli e nelle zone riparate,  non hanno conosciuto nelle giornate di vento, anche quando volavano via le tegole dei tetti e si aprivano le finestre precarie,  giochi, vicinanze, amicizie, amori, sogni e fantasia di fuggire e, insieme, di stare “raccolti”?

Moltissimi i paesi calabresi, appollaiati sulle colline, tra i quattrocento e i seicento metri, dominati da un vento familiare, con cui si conviveva, ma anche tempestoso come maledizione e annuncio minaccioso di fine del mondo.  D’inverno, a San Lorenzo e in altri paesi interni e in abbandono, il vento sembra voler tormentare le case aperte e sventrate, i pochi mobili e infissi rimasti, le immondizie e i rifiuti gettati nei vicoli e in quelle che un tempo erano abitazioni, quasi a voler ricordare un’apocalisse già avvenuta. 

San Lorenzo, La piazza dell'olmo, giugno 2016 (ph. V. Teti)

San Lorenzo, La piazza dell’olmo, giugno 2016 (ph. V. Teti)

L’olmo

San Lorenzo, per i pochi abitanti rimasti, è soprattutto il paese dell’olmo. Al centro di Piazza Regina Margherita si erge un antico olmo, totem identitario, un emblema del luogo, una risorsa di memorie, di leggende, di nostalgie. L’olmo è avvolto nel mistero e nella leggenda ed è diventato luogo di raduno e di giochi per i pochissimi bambini rimasti e per qualche anziano che ricorda il tempo passato, quando attorno ad esso si svolgeva la vita sociale del paese e dove le persone sedevano a gruppi e per ore e ore. Alcune leggende lo fanno risalire al periodo romano di Augusto (la zona era abitata in epoca protostorica e magnogreca). La tradizione orale più diffusa lo lega alla disfida di Barletta, quando Lodovico Abenavoli di San Lorenzo, capitano di ventura e combattente assieme ad Ettore Fieramosca, al ritorno nel suo paese avrebbe piantato l’albero nel 1503. C’è di mezzo una visione di buon auspicio. Una tradizione di segno contrario dice che Lodovico Abenavoli non sia mai venuto a San Lorenzo e segnala l’abitudine dei notabili locali a identificare la storia e la vita dei paesi con quella delle loro famiglie. L’olmo oggi rappresenta, comunque, un luogo di incontro, quasi un simbolo di resistenza per quanti non vogliono andare via.

Ai due lati della piazza dell’olmo, palazzi sventrati e cadenti rendono davvero miracolosa la resistenza delle due chiese del paese. Nella Protopapale o Chiesa Matrice, si trova la statua in marmo della Madonna della Neve attribuita ad Antonello Gagini e il quadro raffigurante il Martirio di San Lorenzo di scuola caravaggista del napoletano. La statua lignea del Santo Patrono del Comune e altre reliquie religiose attestano come anche i centri grandi dell’interno avessero un patrimonio artistico importante. Nella Dittereale è custodita l’icona della Madonna della Cappella. Restaurata di recente e riaperta al pubblico come Museo delle Icone Bizantine è stata l’ultima chiesa di tutta la vallata del Tuccio a lasciare il rito greco.

 Ruderi dell'antica Amendolea, maggio 2011 (ph. V. Teti).

Ruderi dell’antica Amendolea, maggio 2011 (ph. V. Teti)

Risorgimento

Per quanto poco noto, proprio S. Lorenzo, del resto, è il primo comune che vota l’appartenenza alla nuova Italia ancora prima dell’arrivo di Garibaldi. Una sorta di sotterranea rivendicazione che partiva da una terra che, per prima, si era chiamata Italia, e che alla cultura italiana e al Risorgimento aveva dato un apporto fondamentale. Lo sbarco di Garibaldi a Melito avviene il 19 agosto del 1860. Come scrive nei Mille Giuseppe Bandi, scrittore che partecipa all’impresa garibaldina, lo sbarco nella punta estrema dell’Italia «non fu meno audace, né meno fortunato dello sbarco di Marsala». Il passaggio dello Stretto, però, è preceduto da attese, indecisioni, contrasti e anche da iniziative che, spesso per contrasti tra i protagonisti, avevano rischiato di mettere a repentaglio il successo dell’impresa. Garibaldi, dopo aver completato la conquista della Sicilia, e dopo l’ultima battaglia vittoriosa a Milazzo, aveva stabilito, a fine luglio, il suo quartiere generale a Punta Faro di Messina. Voleva concedere un riposo alle truppe, ma attendeva di capire anche come prepararsi ai prossimi eventi, tenendo conto del fatto che quelle borboniche si stavano riorganizzando, e soprattutto considerando i freni che arrivavano dalla diplomazia europea, dall’Inghilterra e dalla Francia, e anche le cautele o gli ostacoli messi da Cavour che, da un lato, temeva, la reazione di altri Stati europei, chiamati in causa da Ferdinando II, e dall’altro non voleva che Garibaldi si spostasse, in maniera autonoma, e puntasse su Roma.

Il 26 luglio l’Inghilterra dichiarava di non voler interferire nelle vicende italiane, e il Generale decideva che era tempo di riprendere il viaggio. Non voleva, però, che andasse incontro a insuccessi come quelli dei fratelli Bandiera, nel vallone di Rovito, o di Pisacane a Sapri. In qualche modo, sentendo i consigli di Benedetto Musolino e dei fratelli Plutino, che però avevano dissidi su tempi e modalità dello sbarco, cerca di creare un clima favorevole tra le popolazioni calabresi, soprattutto tra quegli esponenti del Risorgimento reggino e calabrese, che erano stati attivi ancora prima del 1848. L’8 agosto partono da Messina, per preparare il terreno e avviare contatti, 450 volontari su 25 scialuppe. Li comanda il generale Musolino, ma della spedizione fanno parte il maggiore Giuseppe Missori, e altri ufficiali come Alberto Mario, che nel suo libro di memorie La Camicia Rossa (prima in edizione inglese nel 1865 e poi italiana nel 1870) racconterà i tanti contrasti ed errori di valutazione dei volontari che sbarcano tra Altafiumara e Cannitello, non a Scilla come avevano immaginato. La sorpresa non riesce, anzi ricevono un’inattesa resistenza delle truppe borboniche che costringe alcuni volontari a tornare indietro e altri a guadagnare in maniera avventurosa l’altopiano dell’Aspromonte. Si verificano discordanze tra Musolino e Agostino Plutino, capo dei volontari calabresi dei “Cacciatori di Aspromonte”. E un vagare di volontari e rivoltosi in una zona in cui, peraltro in inferiorità numerica, possono essere sorpresi e respinti dai soldati borbonici.

In questo quadro di difficoltà e di rischio fallimento, S. Lorenzo diventa un luogo-simbolo dell’impresa garibaldina e dell’Unità d’Italia. Mario Alberto racconta, anche se in maniera romanzata ed enfatica, che mentre garibaldini e volontari annaspano tra difficoltà, ostacoli, terreno non favorevole e paesi come Bova che non possono accogliere i Plutino, come chiarisce il sindaco Pasquale Nesci, si fa avanti Bruno Rossi, sindaco di S. Lorenzo, sbloccando la situazione di stallo, e invitando garibaldini e volontari già sbarcati ed operanti in Aspromonte a fare quartiere generale a S. Lorenzo, dove erano attesi con entusiasmo dalla popolazione. Secondo Manti senza la scelta coraggiosa di Rossi la spedizione sarebbe probabilmente finita come quelle carbonare e mazziniane. Mario Alberto racconta come dopo l’invito di Rossi la notte del 17 agosto i garibaldini si gettano «sull’alto versante tirrenico», saltando di «cresta in cresta», si dirigono verso la «montagna scoscesa per avventura inespugnabile», e su «un colle a pan di zucchero» arrivano al «paesello di San Lorenzo».

I garibaldini, al comando del colonnello Missori, arrivano a San Lorenzo nel pomeriggio del 18 agosto accolti dai 3 ai 6 mila abitanti con grande affetto. Dall’alto di San Lorenzo – dove il sindaco apre la casa allo Stato maggiore –  presidiano la zona dello sbarco. La posizione era eccellente: il paese sarebbe stato difeso, dice qualcuno, anche a sassate. Mario Alberto, presidente della Commissione di difesa e di approvvigionamento chiede al sindaco Rossi un ulteriore atto di coraggio, dal valore simbolico: il Comune avrebbe dovuto dichiarare la decadenza della dinastia borbonica e l’inaugurazione della dittatura di Garibaldi, in nome della libertà d’Italia. Raccoglie subito il consiglio comunale e dal balcone del Comune proclama il governo nazionale.

Rossi trovava un certo sostegno anche tra la gente, in quell’area si erano affermati sentimenti antiborbonici non soltanto tra la borghesia liberale e illuminata. Nel 1847 tutto il Reggino è attraversato da venti di rivolta. Edward Lear era stato un eccezionale testimone dell’atmosfera che si respira nei paesi del Reggino e presso tante famiglie di notabili di cui era ospite. Nel suo Diario di un viaggio a piedi aveva raccontato anche il suo passaggio in prossimità di San Lorenzo, che splendeva «tra i suoi alti solchi e abissi», manifestando preoccupazione ed inquietudine per i venti di rivolta che soffiavano dappertutto e decidendo di interrompere in anticipo il suo viaggio. Col suo compagno di avventura Proby, il 5 settembre, a Reggio, sale su un vapore mentre nella città si sentono gli spari. Sempre a Reggio, tra il sette e il quattordici settembre la Commissione militare condannava a morte quattro rivoltosi. A Gerace, il primo ottobre, destino analogo per i giovani capi della sommossa del distretto, Michele Bello, Rocco Verduci, Gaetano Ruffo, Domenico Salvadori, Pietro Mazzoni. Tutti formatisi a Napoli, dove studiavano giurisprudenza, saranno fucilati il giorno successivo nella piana di Gerace e i loro corpi, in segno di disprezzo, gettati nella «lupa», la fossa comune. Il sacrificio dei «martiri di Gerace» avrebbe alimentato le scelte radicali e democratiche di esponenti del Risorgimento con posizioni liberali e moderate.

Paesaggio visto da San Lorenzo (ph. Vito Teti).

Paesaggio visto da San Lorenzo, giugno 2016  (ph. Vito Teti)

A S. Lorenzo erano, probabilmente, giunti echi e immagini delle fiamme e delle ceneri delle case rase al suolo, di Messina, presa a cannonate il 7 settembre 1848 per reprimere i moti siciliani. Con questa repressione Ferdinando II diventava “Re Bomba” per i tanti patrioti liberali, democratici, murattiani del Sud, protagonisti dei moti e delle ribellioni del 1848, e in qualche modo alimentava nei siciliani un sentimento antinapoletano e antiborbonico che poi avrebbe portato anche a scelte unitarie e ad adesioni decisive per la riuscita della spedizione garibaldina. C’è del vero, certo, quando si parla della conquista e dell’annessione piemontese del Regno delle Due Sicilie, ma fu proprio la Sicilia, con le sue scelte, a favorire e a provocare la fine dei Borbone.

Sdegno e risentimento avevano generato le feroci repressioni, uccisioni, carcerazioni, condanne nei bagni del Regno, dopo le rivolte del 1848, di un’intera generazione di liberali e democratici che aveva sognato anche la Costituzione e un’unità d’Italia condotta dal Sud e che, alla fine, viste le chiusure borboniche, scelse a volte malvolentieri, a volte per trasformismo, di passare dalla parte dei Savoia o di Cavour, di Garibaldi e dei democratici rivoluzionari.  Un clima antiborbonico soffiava anche tra i ceti popolari, miseri e affamati, che mal tolleravano le prepotenze degli amministratori locali e di una “camorra” che, diversamente da quanto si afferma, non nasce con l’unificazione nazionale, ma è presente a fine Settecento e nella prima metà dell’Ottocento e controlla, tra l’altro, con la complicità delle autorità borboniche, la vita delle carceri già a partire dagli anni Trenta.

Nel 1853, in un clima d’insoddisfazione e di fermenti innovativi, anche a S. Lorenzo si ebbe un tentativo di rivolta contadina, che trovò il sostegno delle popolazioni di Grana, Chorio, S. Pantaleo, ma che fu subito represso con violenza. Da notare come anche l’altra “minoranza” etnico-linguistica, gli albanesi di Calabria, in provincia di Cosenza, divenne protagonista del Risorgimento meridionale con una forte tradizione democratica e antiborbonica e come fu proprio un calabro-albanese, Agesilao Milano, ad attentare alla vita di Ferdinando II, aggredendolo e ferendolo nel corso di una parata militare. Era l’8 settembre 1856 e da lì a poco Agesilao Milano fu decapitato. E nello stesso anno, a Reggio, un pretore condannava al pagamento di mille ducati un certo Pietro Merlino colpevole di possedere un libro proibito: i Canti di Giacomo Leopardi. Nel 1859, Ferdinando II, poco prima della seconda guerra d’indipendenza, cercava di liberarsi di 91 patrioti meridionali, condannati dopo il 1848 e rinchiusi nelle carceri e nei bagni (Montesarchio, Nisida), mandandoli nelle Americhe. Il tentativo fallì, per una rocambolesca impresa del figlio di Luigi Settembrini, ma i patrioti Poerio e Settembrini, Nisco, Pironti, Garcea e Castromediano, Palermo e altri, sbarcati  dalle navi in Irlanda e poi passati in Inghilterra, scampati all’esilio a vita, decisero definitivamente di appoggiare Cavour e molti si misero al seguito di Garibaldi. Si può dire che fu il regime illiberale e chiuso, repressivo, dei Borbone – che decimarono prima la generazione del 1799, poi quella del 1848 –  a provocare la propria fine.

A San Lorenzo, nonostante l’adesione del sindaco e dei ceti borghesi e illuminati e un certo sostegno di parte della popolazione all’impresa garibaldina, la situazione restava molto delicata. C’erano resistenze e non tutto sarebbe andato liscio. Il prete di San Lorenzo viene arrestato perché invita la popolazione a combattere i garibaldini e i volontari, che volevano conquistare lo Stato pontificio. Lo condannano alla fucilazione, ma poi riesce a salvarsi con una fuga fortunosa, durante uno scontro tra truppe borboniche e garibaldini. Lo sbarco avviene il 19 agosto. La rivolta di San Lorenzo è decisiva per fare rompere gli indugi a Garibaldi che decide di sbarcare a Melito. Qui, ad accoglierlo, c’è un nutrito numero di massoni calabresi. Tutta l’area tra Melito e San Lorenzo, tra zona pianura e fiumare, è occupata da migliaia di camicie rosse. Il 19 agosto gli abitanti e i garibaldini di San Lorenzo si sentono finalmente al sicuro. La “banda” di Missori scende a Melito. Con una scaramuccia, riesce a fuggire il parroco don Bruno Iacopino. Il paese dei tanti nomi diventa luogo simbolo.

Bruno Rossi e i volontari garibaldini di San Lorenzo avrebbero seguito Garibaldi a Reggio Calabria, combattendo per la liberazione di quella città. Gli abitanti di Melito non si erano mossi, timorosi che la temeraria impresa di Garibaldi sarebbe finita nel sangue, pagandone così il prezzo. Rossi, nato a S. Lorenzo da Domenico e Francesca Bova, si era laureato in giurisprudenza nel 1847  a ventidue anni e poi in Lettere e filosofia. Nominato sindaco nell’agosto del 1860, nel 1862 fa parte del consiglio provinciale della Calabria Ulteriore. Nel 1885 sposa Domenica Pangallo di Bagaladi e i due hanno cinque figli, di cui uno muore in età infantile. Rossi si spegne a Reggio Calabria a novantadue anni nel 1916. Nel 1910, il 18 agosto, a cinquanta anni dal proclama, Rossi chiede che sulla facciata del Comune venga apposta la seguente lapide commemorativa:

San-Lorenzo-lapide-sul-muro-del-Municipio-settembre-2012-ph.-Vito-Teti

San Lorenzo, lapide sul muro del Municipio, settembre 2012 (ph. Vito Teti)

«A perpetua memoria/ che il 17 agosto 1860/ i volontari Calabresi e 200 Garibaldini/ d’ogni parte d’Italia/ qua venendo d’Aspromonte/ al comando dei colonnelli/ Musolino Benedetto e Plutino Agostino/ questo paese occuparono / accolti festosamente dagli abitanti/ provocando lo sbarco di Garibaldi a Melito/ che nel seguente mattino 18 agosto / qui primo comune del Napolitano/ fu proclamata la decadenza del Borbone/ e la dittatura del Generale Giuseppe Garibaldi/ preludio ed augurio dei prossimi destini d’Italia/ che nelle sale di questo palazzo/ ebbero ristoro e alloggio 18 primi eroi/ tra i quali Nullo Alberto Mario e Missori/ e nelle migliori famiglie richiesti a gara/ gli altri Garibaldini/ e che nel successivo 19 agosto/ di qua mosse la forza armata/ per congiungersi al dittatore/ e convolare con lui al conquisto di Reggio/ il 21 agosto 1860/ Bruno Rossi pose nel cinquantesimo anniversario/ 17 agosto 1910».

San-Lorenzosettembre-2013-ph.-Vito-teti.

San Lorenzo, settembre 2013 (ph. Vito Teti)

Meridionalismo, leghismo, neobor-bonismo

La lapide è bene in vista, poggiata alla facciata dell’ex Municipio dipinta di giallo, in una salita ripida. In basso, una fontana manda l’acqua fredda e pulita della montagna. In uno dei miei viaggi, nell’estate del 2014, insieme ad amiche e amici originari dei paesi vicini, la lettura di quella memoria ha dato il via a commenti e considerazioni che offrono un panorama di sentimenti e considerazioni contrastanti e laceranti.

Serpeggia amarezza, affiorano delusione e disincanto, a volte umori antileghisti e anti Nord, spesso rovesciamento di pregiudizi e razzismi antimeridionali, che precedono l’Unità d’Italia, si rafforzano dopo l’unificazione e, infine, con l’affermarsi della Lega. Affiorano spie di mitologie e visioni neoborboniche per cui tutti i mali del Sud avrebbero avuto inizio con l’unificazione nazionale. Non c’era bisogno di una recente narrazione giornalistica e saggistica per sapere che l’unificazione nazionale non è stata la liberazione del Sud. Generazioni di meridionalisti e di meridionali dalla fine dell’Ottocento a oggi, da Padula a Ciccotti, da Colajanni a Salvemini, da Nitti a Gramsci (molti di quelli che avevano partecipato al Risorgimento e creduto nell’Unità d’Italia) hanno scritto migliaia di pagine sul Risorgimento tradito, sull’atteggiamento coloniale del nuovo Stato, sulla repressione violenta del brigantaggio (che aveva risvolti sociali e politici), sulla distruzione delle economie locali, sulla rivoluzione silenziosa dell’emigrazione. Viene rimosso che l’unificazione nazionale ha comportato abbandono delle campagne, delle colline e della montagna, esodo anche dalle aree più povere del Nord. Quello che viene occultato, con un revisionismo a buon mercato, è che le progressive e non magnifiche sorti del Mezzogiorno sono state compiute con la complicità e con la responsabilità dei ceti politici e dirigenti meridionali.

 San Lorenzo, giugno 2016 (ph. Vito Teti)

San Lorenzo, giugno 2016 (ph. Vito Teti)

Una lenta erosione

San Lorenzo era stato, pure in montagna e in quei luoghi aspri e fragili, il centro più popolato e dinamico del Reggino e della Locride. Per secoli su quei fazzoletti di terra appesi alle colline e ai dirupi hanno vissuto, certo con difficoltà e grande fatica, popolazioni dedite alla coltura degli orti, alla pastorizia, all’allevamento dei maiali, alla produzione di miele e frutti. Un’economia, spesso, di sola sussistenza, ma a volte migliore di quella di altre aree d’Italia e del Nord.

Il paese di San Lorenzo già nel 1763 aveva 1640 abitanti. Nonostante il terribile flagello del 1783 e le condizioni di miseria estrema della popolazione, nel 1861 sommavano a 3896, che nei decenni successivi aumenteranno progressivamente fino a raggiungere le 6137 unità nel 1931. Dopo il fascismo e la guerra, nel 1951, gli abitanti sono ancora quasi seimila.

Pasquale Manti ricorda la vitalità, la voglia di mutamento, il desiderio di conoscere degli abitanti di San Lorenzo nel dopoguerra. Ricorda la nascita di un teatro, la “Filodrammatica laurentina”, la costituzione di una “Schola cantorum” per iniziativa di giovani che cominciano a spostarsi a Reggio per studiare, frequentano le scuole e le biblioteche, vanno al cinema, seguono con trepidazione le vicende nazionali. Negli anni Cinquanta il paese si presenta con innumerevoli botteghe di generi alimentari e tante attività artigianali. Le strade illuminate, il collegamento con Melito sempre più facile e nel 1956, nel bar principale, arriva la TV in bianco e nero e il biliardo americano. Le grandi alluvioni del 1951 e 1953, anche per San Lorenzo, dove molte zone e case crollano, significano esilio e spostamenti di tantissime persone. La discesa lungo le pianure e le marine, la nascita dei paesi doppi, non è indolore, crea lacerazioni e divisione tra chi vuole partire e chi vuole restare. Le opere di ricostruzione faranno la fortuna dei gruppi dirigenti che, come scrive Alvaro, prosperano sulle catastrofi naturali. I gruppi politici e dirigenti nazionali e locali spingono all’emigrazione. Nei paesi alluvionati visitati da De Gasperi la gente racconta ancora l’invito a imparare le lingue e a partire. Anche le forze di sinistra vedevano nella montagna un luogo d’isolamento, solitudine, arretratezza, non adatto alla produzione e cercavano la centralità nelle fabbriche del Nord, dove una classe operaia politicizzata avrebbe dovuto finalmente realizzare una società più giusta.

Sulla rivolta di Reggio, sulla scelta industrialista, sull’elargizione di un centinaio di miliardi alla Liquichimica di Saline Joniche, sull’economia assistita, sulla rapina del territorio, sull’avvelenamento portato avanti dalle mafie, sulle incompiute del passato e su quelle della modernità (fabbriche, case, edifici, strade e poi depuratori, immobili, opere finanziate con il danaro pubblico) si sono fatte analisi e riflessioni più diverse, ma è sempre il caso di rinfrescare la memoria. Dietro le scelte di ricostruzioni si nascondono interessi economici ben precisi e si afferma anche una criminalità che nel giro di decenni segnerà quelle zone per poi espandersi, come una grande holding, in tutte le parti del mondo. Non vista, o non considerata nella sua vastità e nella sua capacità espansiva, nasceva in quel periodo una criminalità “produttiva” e nasceva un’economia criminale che nel silenzio e nella complicità, con la partecipazione, della politica, avrebbe devastato il tessuto sociale.

Un popolo che aveva tratto da vivere da un fazzoletto di terra, che faceva dalle pietre pane, che coltivava rasule portate sempre via dall’acqua, che compiva ore di cammino al giorno per raggiungere i pascoli o i terreni coltivabili, che affrontava viaggi a piedi e per mare prima in Sicilia e poi nelle Americhe, veniva trasformato in popolo ozioso, apatico, rassegnato, alimentando e quasi inverando la favola del dolce far niente. La modernizzazione fatta di devastazioni e incompiute creava malesseri al Nord e al Sud, frustrazioni speculari e opposte, rivendicazioni localistiche e particolaristiche, grazie anche al trasformarsi dei partiti in gruppi di potere, in fattori di conservazione e di gestione della cosa e della spesa pubblica.

Nel 2011 l’intero territorio comunale ha soltanto 2685 abitanti, ancora diminuiti negli ultimi anni, quasi tutti spostatitisi in pianura e nella Marina, mentre, come abbiamo visto, nel centro storico sono poco più di un centinaio. Adesso i rioni e le strade, come con amarezza scrive Manti, «sono immersi nel silenzio dell’abbandono, nella quiete dimessa dell’assenza, nella solitudine malinconica della dimenticanza, nel vuoto dell’indifferenza, nell’emarginazione, dell’incuria».

San-Lorenzo-giugno-2016-ph.-Vito-Teti

San Lorenzo, giugno 2016 (ph. Vito Teti)

Retrotopie

Di un enorme, criminale, processo di erosione e di dissoluzione degli ultimi decenni non sono responsabili né i Borbone né i Savoia. Quello che appare, pertanto, poco comprensibile è che la legittima rivendicazione di una appar- tenenza a un luogo, che si ama, il riconoscersi nelle sue vicende storiche, possa avvenire oggi sotto le insegne di una monarchia straniera (come i tanti invasori e dominatori del Regno di Napoli) la cui vicenda è finita nel 1860. Né si comprende perché si inventi come nemico dell’oggi la monarchia dei Savoia (con tutti i piemontesi e i nordici), che è stata cacciata, dopo la seconda guerra mondiale, grazie alla lotta partigiana, alla Resistenza, a un referendum, dove nel Sud i Savoia hanno avuto il sostegno tenace e unanime dei gruppi dominanti e dirigenti locali.

La giornata di memoria delle vittime del Sud all’indomani dell’Unificazione nazionale –  voluta oggi da gruppi neoborbonici e da tanti esponenti di partiti nazionali – rischia di far prevalere e di inventare, pericolosamente, una memoria divisiva e divisa. Quello che non è riuscito alla Lega a inizio anni Novanta adesso potrebbe riuscire a quanti al Nord e al Sud (in maniera complementare), per interessi elettorali e “ideologici” (politici ed economici) lavorano per un incomprensibile separatismo. La retrotopia (adopero un termine di Bauman) neoborbonica o l’idealismo utopistico del passato, con il richiamo a un buon tempo antico mai esistito, è la risposta sbagliata, carica di rischi incalcolabili (come vediamo in Spagna) e suona come un’autoassoluzione e anche come una legittimazione dei gruppi dirigenti locali.

Rovine-antica-Amendolea-maggio-2011-ph.-Vito-Teti

Rovine dell’antica Amendolea, maggio 2011 (ph. Vito Teti)

Ritorni

Questi luoghi, che pure sono vissuti in isolamento in epoca moderna e negli ultimi decenni, e che sono stati descritti e percepiti con la categoria della lontananza, non hanno né una vocazione all’isolamento né una storia di lontananza. Non erano stati lontani nell’ottavo secolo avanti Cristo quando arrivavano i coloni greci e fondavano le città magnogreche,  spingendosi nelle aree interne. Non erano stati lontani ai tempi in cui, quasi certamente, Paolo di Tarso sbarcava a Reggio e iniziava il suo cammino per Roma, o quando gli ebrei che lasciavano la Terra Promessa fondavano nel II secolo d. C. la seconda sinagoga d’Italia. Non erano lontani quando arrivavano i monaci greci e dall’Oriente nel periodo bizantino. Fino agli anni sessanta (e in alcuni luoghi ancora oggi), nella vallata dell’Amendolea, la lingua parlata era il greco preomerico, sempre aggiornato da continui arrivi, la lingua che dall’inizio dell’Ottocento ad oggi ha attirato e incantato studiosi e filologi stranieri, tedeschi, greci, italiani e del luogo.

Negli ultimi decenni il “ritorno” alla “grecità” è stato un elemento identitario e di rinascita notevole in quest’area, anche se non sono mancati sperperi e speculazioni per iniziative talora localistiche e folkloristiche, che nulla creano e nulla lasciano. Grazie a grandi conoscitori e studiosi della storia, della cultura, delle lingue (l’elenco sarebbe notevole) il riferimento non è stato a un’identità inventata, ideologica, calata dall’alto delle mode e delle ideologie revisioniste, ma si è costruito mediante un rapporto problematico con una tradizione culturale e religiosa greco-bizantina (i riti in lingua greca erano vivi ancora nel Seicento), sempre rivisitata e rinnovata, di cui attestano nomi di luoghi e di paesi, statue, icone, canti, musiche, cibi, forme di socialità e devozione popolare.

San Lorenzo, processione della Madonna della Cappella, 2017 (ph. América Liuzzo).

San Lorenzo, processione della Madonna della Cappella, 2017 (ph. América Liuzzo).

La festa del ritorno

Lungo la strada in salita, che la prima volta ti ubriaca con i suoi mille tornanti e le tante curve, che porta a San Lorenzo si trova il Santuario dell’Assunta o Madonna della Cappella, dove è custodita l’icona, di notevoli dimensioni, di una Madonna Nera con il Bambino, con in mano un’arancia. L’effige risale con molta probabilità al XII secolo, ma la tavola è stata ridipinta a inizio Cinquecento in stile neo bizantino. Sul retro, l’icona è dipinta con una scena di angeli che reggono una corona, quasi sicuramente realizzata tra Sei e Settecento.  Anche la località, un tempo molto popolata e oggi con poche case, si chiama contrada Cappella e Cappella è anche il nome della strada che collega il santuario al paese. Il termine Cappella fa riferimento ad una antica fiera, Kapelas, per l’appunto, che si svolgeva nelle vicinanze dei luoghi sacri e monasteri della vallata e di cui ancora nel 2002 ho potuto osservare permanenze e tracce con venditori di animali e mucche, impegnati nei gesti e nelle parole di un teatro antico grazie al quale si recitavano e si facevano trattative tra venditori e compratori provenienti dai paesi vicini.

L’icona della Madonna, l’ultima domenica di luglio, viene “salita” dal santuario nella chiesa Protopapale di San Lorenzo e sistemata di fronte alla statua della Madonna ad Nives. Inizia la “Quindicina” con antiche litanie in latino, preghiere, novene e preparativi per la Madonna della Neve, il 5 agosto e per il triduo dei giorni 8-10 agosto in onore del patrono. La mattina del 12 agosto l’icona viene “calata” al santuario con un corteo processionale, formato da portantini molto attenti e compresi, da ragazze e ragazzi, emigrati ritornati e devoti provenienti dai paesi della zona. Questo pellegrinaggio, al pari di tanti altri, che collega luoghi in abbandono o abbandonati, rivela il bisogno di riempire vuoti e di creare nuovi legami tra passato e presente, tra luoghi separati, tra rimasti, emigrati, e gente che torna e che arriva. Queste feste, che fanno riferimento al passato, assumono forti valenze identitarie, rivelano bisogno di aggregazione e socialità: sono i semi e i segni di una resistenza all’abbandono.

 San Lorenzo, Casa Museo, Il pettirosso, giugno 2016 (ph. Vito Teti

San Lorenzo, Casa Museo, Il pettirosso, giugno 2016 (ph. Vito Teti)

Resistenze

C’è chi, anche se a volte sente di fare una lotta disperata, vuole ripartire da piccole utopie quotidiane, da azioni concrete. Nino Zumbo mi è parso determinato e appassionato quando, nel lontano 2004, ha organizzato proprio in questo posto, dove è nato e cresciuto, degli incontri e dei dibattiti sullo spopolamento. Non una riflessione sterile, ma interrogativi e ipotesi per una possibile rinascita. La visita più recente fatta a San Lorenzo (non penso si possa capire e cogliere l’anima di un luogo con un semplice e frettoloso passaggio) risale all’11 giugno per un’iniziativa – letture di poesie, ma anche visita nel paese, pranzo a base di prodotti del luogo, musiche eseguite da suonatori provenienti da varie parti della Calabria –  è  stata promossa da América Liuzzo, dalle donne de “Il Pettirosso”, da Domenico Minuto, Salvino Nucera, Silvana Guarna e i tanti componenti dell’Accademia dei Vagabondi. C’è Nuccio Barillà, ambientalista di lunga data, anche lui protagonista, con Legambiente, della riscoperta e della valorizzazione dei piccoli paesi, e in prima linea nelle lotte a tutela del paesaggio.

Con loro rendo omaggio ad Alvaro, nel giorno in cui cade il sessantenario della sua morte. I genitori di América sono partiti da San Lorenzo, negli anni del grande esodo, per il Venezuela, e a Caracas forse non hanno trovato l’America, ma è nata América e poi sono nati una sorella e un fratello. Carmelo, il padre, dopo la morte della moglie nel 1982, decide di rientrare, ormai ammalato, in Italia. América, la sorella e il fratello lo seguono. Comincia per América un andirivieni tra l’Italia e il Venezuela, ma nel 1992 decide di stabilirsi a San Lorenzo nella casa della nonna materna. Non si era stancata dei viaggi, si era innamorata, come racconta, di queste montagne e di tutto l’«aspro» che la circondava. Dal 1993 fa parte di un gruppo di cittadini che si occupa di «salvare il salvabile», di scongiurare la chiusura della caserma, delle due  scuole, della casa di riposo, dell’ufficio postale, della guardia medica, di alcuni importanti uffici comunali trasferiti altrove. Visitiamo la sede “Circolo del cinema Il Pettirosso (affiliato FICC, Federazione Italiana dei Circoli del Cinema), fondato nel 1996 da lei e da un gruppo di donne. Difficile prevedere cosa sarà di questo luogo, intanto fa davvero una bella impressione vedere donne che custodiscono libri, scritti, documenti, fotografie, oggetti, organizzano incontri di musica, di cinema, si occupano di artigianato e prodotti locali. Operano, producono, faticano, sognano, sperano.

placanica-2010-quarta

Placanica 2010 (ph. Vito Teti)

EPILOGO

Guardando quella lapide e il paesaggio circostante di abbandono, simile a quello visto in altre parti d’Italia, penso che forse più che separare la memoria occorra costruire una memoria nazionale, trovare i fili di una comune storia da annodare. Questi luoghi avrebbero bisogno di una cultura del fare, di memoria, di piccoli gesti. Hanno bisogno di progetti comuni, condivisi, di resistenza. Dobbiamo dare un senso e uno sbocco positivo ai sentimenti contrastanti, quell’odio e amore per l’origine e per l’Italia, le tendenze antitaliane a seguito di delusioni recenti, il sentirsi abitanti di più luoghi, protagonisti di più storie: un’identità fatta non di sovrapposizioni e di sommatorie, ma di conflitti, ombre, luci, contrasti appartiene a quanti sono nati e cresciuti in questa parte di mondo. Forse più che separare l’Italia bisogna finalmente unirla. C’è necessità, se mai, di un nuovo Risorgimento, che realizzi i sogni disattesi e traditi. Chissà che proprio da questi vuoti non possano partire nuovi risorgimenti.

Faccio un giro nelle strade vuote, con le case aperte e spalancate, piene di erbe e immondizie. Molte porte e finestre hanno davanti piante di fiori, quasi attendessero il ritorno degli antichi abitanti o di qualcuno che le riapra. Mi affaccio da una balconata che guarda verso le colline, l’Amendolea, l’Etna: sotto, case che crollano, tetti aperti, rovi, spine. Passo come altre volte dal vecchio municipio dove la targa con la scritta ricorda gli entusiasmi, le illusioni, le delusioni del Risorgimento. Il vento comincia a farsi sentire, porta però frescura nel corpo in quel caldo pomeriggio di inizio estate. Immagino quando sibila d’inverno e morde le pareti dei muri cadenti, lacera i tetti e le tegole crollate, batte sui mattoni forati e senza intonaco delle case incompiute, batte le piantine davanti alle finestre chiuse. Il vento esisterà ancora quando nessuno potrà più ascoltarlo? Quando nessuno potrà dargli un nome, un senso, un sentimento? Il vento della speranza contrasterà il vento della fine e delle apocalissi in corso?

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
________________________________________________________________________________
Vito Teti, docente ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano: Emigrazione, alimentazione e culture popolari; Emigrazione e religiosità popolare nei due volumi di Storia dell’emigrazione italiana (2000; 2001); Storia dell’acqua (2003) Il senso dei luoghi (2004); Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee (2007); La melanconia del vampiro (2007); Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2011); Maledetto Sud (2013); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandono e ritorno (2017). È componente di numerosi organismi scientifici, italiani e stranieri, e membro di Comitati Scientifici di riviste italiane e straniere. È tra l’altro responsabile dell’Icaf, la sezione italiana dell’Associazione Europea di Antropologia dell’Alimentazione. Fa parte della Deputazione di Storia Patria per la Calabria ed è nel Comitato Scientifico della Rivista “Rogerius”.

_________________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>