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Riscrivere il canone: tra letteratura postcoloniale e di genere

  copertina Martadi    Marta Gentilucci

Nel 1939 Jorge Luis Borges scrisse per la rivista argentina «Sur» un originale racconto intitolato Pierre Menard autore del Chisciotte, poi confluito nella raccolta Finzioni. Vi si racconta la folle impresa di Pierre Menard, strampalato scrittore che tenta di perseguire un obiettivo altrettanto strampalato: «essere Miguel de Cervantes». Riscrive allora il Don Chisciotte parola per parola, ma il risultato è un testo completamente diverso, o meglio un testo «in tutto uguale e in tutto diverso», «quasi infinitamente più ricco. (Più ambiguo, diranno i suoi detrattori; ma l’ambiguità è una ricchezza)»[1]. Se ne deduce che il testo narrativo, in questo caso il Don Chisciotte di Cervantes, ma in generale ogni testo – decontestualizzato rispetto alle coordinate storiche, culturali e sociali in cui è stato scritto – risulta «ogni volta diverso», come se venisse riscritto in ogni epoca in cui lo si legge e ogni volta che lo si legge. La natura polimorfica della letteratura può quindi consentire cortocircuiti tra epoche diverse, riedizioni dei leitmotiven narrativi, dare nuova “vita” ai personaggi letterari.

2Soprattutto a partire dal Novecento ci si è interrogati sul concetto di riscrittura. Genette, nei suoi Palinsesti, si è soffermato analiticamente sui rapporti che intercorrono tra i testi, introducendo concetti quali ipotesto, in riferimento al testo-base, e ipertesto (il nuovo testo, che da quello base prende ispirazione). Una delle strategie individuate da Genette nelle pratiche di riscrittura è la cosiddetta “transmotivazione”, ovvero la sostituzione delle motivazioni che sottintendono alla scrittura di un testo con altri intenti, differenti.

Potremmo utilizzare il concetto di “trans motivazione” genettiana per interpretare una tra le più interessanti pratiche di riscrittura della letteratura contemporanea: quella messe in atto dagli scrittori postcoloniali. A partire dalla fine del Novecento, autori quali Fanon, Coetzee, Bhabha si sono dedicati alla pratica del writing-back [2], ovvero alla riscrittura del canone occidentale con intenti revisionisti o decostruzionisti.

Si pensi, solo per fare un esempio, al Foe di John M. Coetzee –  scrittore sudafricano e Nobel per la Letteratura nel 2003 –  che riscrive il celebre romanzo Robinson Crusoe di Daniel Defoe, una delle pietre miliari della letteratura occidentale. Non più apologia del self-made-man che riesce a cavarsela in un’isola deserta, lontano dai comfort di una società sulla via della modernizzazione, il rewriting di Coetzee diviene piuttosto il tentativo di recuperare la “storia negata” dello schiavo Venerdì, paradigma del soggetto muto a cui è stata mozzata la lingua e cancellato il passato. Tramite il ricorso all’espediente del “ventiloquismo” – ovvero al cambiamento del punto di vista rispetto all’ipotesto – narratrice diviene una donna: l’avvenente Susan Barton, naufragata sulla stessa isola di Cruso. Un Cruso, non più Crusoe, che ritroviamo a distanza di quindici anni dal naufragio narrato da Defoe, perfettamente ambientato nelle sue vesti di pelle animale, anche se invecchiato, affetto da continue febbri deliranti e accudito dal fido ed enigmatico schiavo Venerdì.

Se Venerdì diviene emblema del soggetto subalterno, che obbedisce agli ordini del padrone senza neanche lontanamente immaginare la possibilità di una ribellione, Cruso è ritratto invero quale paradigma dell’oppressore, in un disinteresse totale e spietato verso la storia e il passato del suo servo fedele. Spetta allora a Susan Barton porsi alcune, inevitabili, domande: cosa è successo a Venerdì? Qual è il suo passato? Chi gli ha tagliato la lingua e perché? – quesiti che, a livello metaforico, equivalgono a interrogarsi sul disinteresse non solo del colonizzatore nei confronti dell’oppresso, ma soprattutto di quello della scrittura occidentale verso storie considerate “minori” [3].

1E la persistenza dell’indifferenza verso la questione coloniale, insieme a un deficit di memoria collettiva, sono state infatti le colpe imperdonabili dei Paesi colonizzatori, a lungo rei di un’atroce ignavia che si pone al limite col rischio di negazionismo storico. Solo a partire dai tardi anni Sessanta-Settanta – nel mondo anglosassone, mentre in Italia il ritardo è stato ancora più sensibile – si è cominciato a parlare di “questione coloniale” e dei crimini compiuti nelle colonie ai danni di soggetti che, come il Venerdì di Coetzee, sono stati non solo schiavizzati ma metaforicamente “silenziati”, privati della lingua, della voce, della possibilità di dire la loro su una storia condivisa. «La vera storia non si potrà ascoltare finché, grazie all’arte, non si troverà il modo di dare voce a Venerdì» […] «Sta a noi aprire la bocca di Venerdì e sentire cosa c’è dentro: silenzio, forse, o un mugghìo, come il mugghiare di una conchiglia portata all’orecchio […]. Dobbiamo far parlare il silenzio di Venerdì, nonché il silenzio che circonda Venerdì» [ 4].

Il ridar voce al subaltern, all’oppresso, al colonizzato, diviene allora preoccupazione fondamentale di chi si accinge a riscrivere quel passato, interpretando la letteratura occidentale come bacino di topic di cui appropriarsi in ottica decostruzionista, svelando e ribaltando intenti che confermerebbero una visione unilaterale delle vicende storiche.

3Un altro baluardo della letteratura occidentale divenuto oggetto di numerosissime riscritture da parte di autori postcoloniali è il dramma shakesperiano La Tempesta, dove si narra dell’esilio del mago Prospero, duca di Milano, in un’imprecisata isola del Mediterraneo abitata solo da un mostro deforme chiamato Calibano. La storia è stata interpretata da autori quali Fanon (in Peau noire masques blancs), Césaire (in Une tempête) o ancora Lamming (in The Pleasures of Exile) quale paradigma del rapporto tra colonizzatore bianco e colonizzato nero, e caricata di un intento “politico”, simile a quello di Coetzee: la riabilitazione del personaggio di Calibano, che negli ipertesti reagisce finalmente al potere di Prospero e si solleva dalla terribile mostruosità a cui lo condanna il testo di Shakespeare. Figlio di una strega e del demonio, il Calibano dell’ipotesto è infatti descritto come una «zolla di terra», un «abominevole mostro» la cui rieducazione risulta una missione impossibile: nonostante i tentativi di Prospero e Miranda di «civilizzarlo», egli rimane alla stregua di un animale, dominato da un’istintualità violenta, irredimibile. Le riscritture di Césaire e Lamming fanno invero di Calibano un rivoluzionario, che si riappropria della sua forza e usa il linguaggio come strumento di denuncia: la ridefinizione dell’identità coloniale diviene obiettivo primario del discorso narrativo.

4Recentemente, una scrittrice ormai nota a livello globale, la canadese Margaret Atwood, classe 1939, ha espresso in un’intervista uscita su «La Repubblica» lo scorso settembre, il proposito di scrivere una riedizione de La Tempesta di Shakespeare. La Atwood non è nuova alla pratica di riscrittura, in particolare a quella del mito classico in ottica decostruzionista, incentrata sul ribaltamento delle motivazioni degli ipotesti e la rivalutazione della posizione, spesso marginalizzata, assegnata ai personaggi femminili. Si tratta di due opere dal carattere indubbiamente innovativo: Il canto di Penelope, uscito in traduzione italiana nel 2005 per Rizzoli e L’usignolo, racconto breve contenuto nella raccolta Microfiction. 35 storie minime (Ponte alle Grazie: 2006) e dedicata alla vicenda di Procne e Filomela.

Margaret Atwood

Margaret Atwood

«Come potremmo noi vedere la luna con gli occhi di un greco?» – si domanda Jean-Pierre Vernant: il cortocircuito tra mito e attualità dà inevitabilmente vita ad una rielaborazione e risemantizzazione dei paradigmi mitici [5] in relazione alle nuove coordinate del pensiero letterario e socio-culturale.  Ciò avviene ad esempio per quanto riguarda la pratica della tessitura, la quale, decontestualizzata rispetto a un ipotesto che ne faceva attività emblematica della sottomissione della donna nella società patriarcale, diviene metafora della narrazione al femminile [6], in linea con le riflessioni teoriche proposte dai recenti gender studies: «Ora che tutti gli altri hanno parlato a perdifiato, è giunto il mio turno […]. Tesserò, dunque, la mia tela». Penelope diviene la cantora che, dall’oltretomba, decide di raccontare la sua storia da un punto di vista discordante da quello dell’ipotesto omerico, con una precisa finalità: riabilitare le dodici ancelle impiccate alla fine dell’Odissea da Ulisse e Telemaco, parlare anche a nome loro, della loro sofferenza, della loro morte ingiustificata.

Nella critica post-coloniale il personaggio di Filomena è stato interpretato quale paradigma del subaltern al quale l’oppressore impedisce di parlare, del soggetto privo di parola, al pari di Venerdì nel Foe di Coetzee e secondo l’interpretazione di Spivak in Can the Subaltern speak? (1988) uno degli articoli-pionieri delle teorie post-coloniali [7]. Violentata dal cognato Tereo e costretta al mutismo tramite la pratica brutale del troncamento della lingua, anche nel suo caso, tessere una tela diviene emblema della possibilità femminile di trovare vie alternative di comunicazione.

Attendendo l’uscita della nuova riscrittura shakesperiana di Margaret Atwood, non resta che sottolineare come la letteratura – in una società che sembra lasciarle sempre meno spazio – possa ancora rivestire un ruolo “politico” o quantomeno di impegno sociale, e come dal passato le voci del classici non smettano di dire la loro, attraverso continui rimandi e corticircuiti. E consigliare la lettura (o “rilettura”) di un intramontabile saggio di Calvino, uscito inizialmente come articolo sull’Espresso nell’’81, Perché leggere i classici: «È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona».

Dialoghi Mediterranei, n.10, novembre 2014
Note
1 Ivi, p. 44.
2 (dal titolo del saggio di Bill Ashcroft The Empire Writes Back: Theory and Practice in Post-Colonial Literature, del 1990
3 Con riferimento al saggio di G. Deleuze e F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. Quodlibet, Macerata 1996.
4 Cfr. J. M. Coetzee, Foe, trad. it. Einaudi, Torino 2005, p. 46 sgg.
5 Cfr. H. Blumemberg, Elaborazione del mito, trad. it. Il Mulino, Bologna 1991.
6 Si veda, ad esempio, il paragrafo Tessere fili, tessere miti o il morso del ragno contenuto in L. Curti, La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale, Meltemi, Roma 2006: pp. 33-36.
7 A. Preminger-T.V.F. Brogan, The New Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics, Princeton University Press, Princeton 1993, p. 201.
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Marta Gentilucci, giovane laureata in Italianistica presso l’Università degli Studi di Bologna, ha collaborato con la Cineteca di Bologna e si occupa di giornalismo ed editoria. Tra i suoi interessi di ricerca, lo studio della letteratura delle migrazioni. Ha insegnato nel laboratorio di video-giornalismo presso il Liceo classico F. Scaduto di Bagheria. Ha partecipato a stage e seminari su identità di genere, letteratura post-coloniale e scritture migranti.

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