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Risalire alla lingua madre per risalire a Dio. L’impegno etico del poeta Battaglia

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2018 @ 00:27 In Cultura,Letture | No Comments

copertinadi Pietro Romano

L’otto luglio del 1974, su «Paese sera», Pier Paolo Pasolini pubblica un articolo intitolato «Lettera aperta a Italo Calvino», confluito, poi, in Scritti Corsari con il titolo Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino. Rispondendo a Italo Calvino, l’intellettuale muove da acute considerazioni sulla lingua per accusare la moderna società dei consumi di avere spazzato via il mondo contadino, preborghese e transnazionale:

«È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (…) Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed questo, forse che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (…) Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva» [1].

Pasolini sviluppa alcune considerazioni circa la nascita di una lingua nazionale italiana che, unificando i parlanti in nome di una ideologia implicita avente quali nuclei fondamentali la produzione e il consumo, cancella oppure omologa tutte le altre forme di espressività linguistica. In un simile contesto, l’autenticità e la particolarità di talune forme culturali sono irrimediabilmente destinate a scomparire, soppiantate dalle necessità della società di massa. Tale è lo scenario socio-politico e culturale al centro della riflessione poetica di Giuseppe Giovanni Battaglia, il quale, nella sua opera, evidenzia la necessità di risalire alla lingua della madre, e dunque a un’espressività linguistica primordiale, coincidente con i sentimenti più intimi del suo paese natale, Aliminusa. Nato il 24 giugno del 1951, egli vive a pieno gli sviluppi scaturiti dai grandi eventi sociali del dopoguerra quali la dissoluzione della civiltà contadina, le nuove migrazioni e l’espansione della società industriale. A soli diciotto anni, pubblica, insieme a Tano Gullo, la sua prima opera in versi dialettali intitolata La terra vascia. La raccolta suscita l’ammirazione di Leonardo Sciascia, il quale vi coglie un «dialetto integrale e lontano», capace di far rivivere l’integrità del mondo contadino siciliano così come era alle origini:

«Caro Battaglia, quello che a prima lettura, immediatamente, mi ha interessato alle sue poesie, è il dialetto. Un dialetto integrale e lontano, come una restituzione alla memoria, all’infanzia, alla vita dei nostri paesi, all’interno dell’Isola come erano tra le due guerre; e da far pensare anche alla parlata dei nostri emigrati che tornano dopo mezzo secolo, alle parole che hanno conservato come in vitro, nel vitreo immobile ricordo della povera vita di allora – diversamente povera oggi. E poi ho visto che alle parole corrispondevano le cose, la realtà, la situazione in cui l’assume, la condizione cui si ribella – e insomma il sentimento, la poesia. Ritengo che questo sia, ancora, il dialetto che si parla ad Aliminusa – questo piccolo paese nato come escrescenza dal feudo e ancora legato alla terra, sicché non per facile retorica i suoi versi dicono l’odio del contadino al padrone, come più di cent’anni fa nei paesi rurali che si sollevavano per la libertà» [2].

In seguito, la lettera dello scrittore sarà inserita in veste di prefazione al secondo libro di Pino Battaglia, La piccola valle di Alì (Flaccovio, 1972). In un’intervista che rilascia a Enzo Golino nel dicembre 1973, Pier Paolo Pasolini, alla domanda: «È possibile oggi una poesia dialettale? I giovani scrivono ancora versi in dialetto?», risponde: «Ignazio Buttitta per la Sicilia, Albino Piero per la Lucania, Tonino Guerra per la Romagna sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma non sono giovani e da tempo hanno descritto un mondo ora scomparso. Tra i giovani ricordo soltanto un ragazzo palermitano, di vent’anni, che ha pubblicato un esiguo libro in versi siciliani con la prefazione di Leonardo Sciascia». Il riferimento è chiaro: il poeta di cui Pasolini non ricorda il nome è Giuseppe Giovanni Battaglia.

ph.-Giuseppe-Leone.

ph. Giuseppe Leone

Stabilitosi a Roma, Battaglia incontra Gaetano Giganti e Pio La Torre, reduci dalle occupazioni delle terre in Sicilia. Nel 1977, pubblica Campa padrone che l’erba cresce, con la prefazione di Tullio De Mauro. Poco più tardi, su invito di Aurelio Colletta, scrive per la rivista «Sindacato». Nel giugno del 1979, riferendosi ai fatti criminosi che hanno visto protagonista il banchiere Michele Sindona, firma un articolo intitolato Sindonia di anime morte, dove scrive:

«O mostri dell’intelligenza, menti mostruosamente fantastiche, genia sublimemente illuminata. O sterminatori di lucciole e di rami, amici degli uomini e della poesia, puri di cuore che, anche, il cielo asseconda. Noi, adesso, ammirando la vostra Opera, non possiamo fare a meno di dire: oh! Ci inchiniamo meravigliati ai vostri piedi (…) E, se la distruzione delle lucciole pasoliniane, che, dice Renard, figlie di una goccia di rugiada e di un raggio di luna, sembra sempre più definitiva, a noi certo poco interessa; noi ci inchiniamo alle grandiose città, ai centri storici, alle fabbriche, alle scuole. Ci inchiniamo alle immense opere di Lor Signori. E siamo felici, lo confessiamo. Il mondo, ormai, è davvero mondo. Muoiono le lucciole ed anche i fiordalisi, finalmente. Le morte cose ritornano alla terra. Ma la storia, dice un compagno contadino, è una pentola senza coperchio» [ 3].

Mentre in Pasolini è drammatica la coscienza della distruzione del passato, per Battaglia, al contrario, le «morte cose ritornano alla terra», e dunque ciò che è stato spazzato via può ritornare secondo altre declinazioni, poiché «la storia, dice un compagno contadino, è una pentola senza coperchio». Il punto di vista del poeta risente sempre del mondo rurale, dove tutto è destinato a un processo di progressiva purificazione e rinnovamento.

Agli inizi degli anni’80, Battaglia raccoglie la sua poesia in dialetto ne L’Ordine di Viaggio e, dopo qualche anno, destina al teatro Alchimia. Nel 1984, conclusa la sua esperienza presso la CGL di Roma, rientra in Sicilia, dove conosce Michele Perriera e, per la sua scuola di teatro Téates, scrive Girello e Astorio imperatore. Nel 1986, pubblica Genesi e Requiem, I luoghi degli elementi e Sonatine. Dopo avere conosciuto Carla Martinetto, a cui legherà la sua vita, torna a Roma e inizia a collaborare con l’Istituto Luce. Nel 1987 pubblica Rocciàs e Inventario degli strumenti del Padre e della Madre. Segue, nel 1988, la seconda edizione dell’Ordine di Viaggio. Ammalatosi, raduna il suo lavoro poetico fino al 1986 in Poesie (1991) e nel 1992 dà alle stampe Il libro delle variazioni lente e il Libro Mistico.

La sua attività poetica è caratterizzata dal sodalizio con alcuni pittori, come Vincenzo Ognibene, Daniele Oppi e Bruno Caruso. Muore il 2 novembre 1995 a Aliminusa, all’età di quarantaquattro anni.

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ph. Giuseppe Leone

Per ricordarlo, Salvatore Sciascia Editore ha raccolto in un unico volume gli atti del convegno svoltosi nella chiesa di San Giovanni Decollato di Palermo il 19 settembre 2016, dal titolo Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, con interventi di Pierpaolo Punturello, Cosimo Scordato, Francesco Virga e Nuccio Vara. L’evento è accompagnato dalla lettura di alcune poesie scelte a cura di Patrizia D’Antona ed è seguito dall’allestimento di una mostra da parte di Ognibene dal titolo Per Pino e con Pino. Scopo del convegno è stato quello di mettere a fuoco la compresenza di due componenti fondamentali nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, ovverosia una religiosità imbevuta di nostalgia del tempo passato e un’assoluta autonomia rispetto a ogni condizionamento morale, religioso e ideologico.

Il volume, uscito nell’aprile di quest’anno, raffigura in copertina un’opera dell’artista Vincenzo Ognibene, Dello sguardo e del cuore (Pino), 1992, autore, peraltro, della nota introduttiva in cui si delineano il poeta e le diverse iniziative tenutesi negli anni per ricordarlo. Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia si apre con un intervento di Pierpaolo Pinhas Punturello, Battaglia lo scriba, dove si evidenzia il carattere arcaico e ancestrale della ricerca poetica di Pino Battaglia:

«Facendosi accompagnare dai versi di Giuseppe Giovanni Battaglia dovremmo porci una domanda ancestrale, perché arcaico e ancestrale è il vento delle parole ed il rivolgersi delle opere di Pino Battaglia» [4].

Cifra peculiare dell’opera di Battaglia è l’uso del racconto biblico per «indicarci l’idea di più strade per la propria storia, per ciò che non racconta, ma ci invita a guardarla quella storia, a comprenderla tra pietre, vene, estraneità da se stessi di cui Rut è il simbolo, di cui Tobit è custode, lì dove l’amore ed il timore di entrambi per Dio è rivolto ad un Dio più antico delle pietre stesse evocate da Battaglia come un coro, come compagne lì dove il silenzio del non racconto è costrizione, censura, imposizione arcaica della violenza della Storia. Eppure Dio in questa luce che ci offre il poeta non è più elemento teologico di relazione, bensì identitario». Secondo Punturello, la poesia di Battaglia persegue una ricerca tematica sull’idea di origine. Il Dio di Battaglia coincide con l’origine di ciò che noi siamo e che la Storia ha irrimediabilmente rimosso. Il poeta, quindi, attinge alla tradizione biblica poiché in quest’ultima riesce a scorgere le radici profonde della sua identità di siciliano. Egli, attraverso la poesia, ricostruisce la storia della sua terra, segnata da secoli di sopraffazione e miseria:

«Lo sguardo dello scriba che attinge alla tradizione biblica, intingendo in essa la penna della propria scrittura, non può quindi essere casuale, né puramente spirituale e teologico. È uno sguardo arcaicamente identitario, è una ricerca attraverso sentieri antichi, silenzi criptici, intuizioni metafisiche che sono custodi di una fede ed una storia raccontata e trasmessa con accenni, con gesti silenziosi, con sistemi tradizionali che si rivolgono all’Uno ed Unico silenziosamente e, altrettanto silenziosamente, sopravvivono alla persecuzione e all’oblio. La chiave autobiografica del racconto che diventa percorso narrativo dello scriba Battaglia (…) è antica fonte del proprio essere siciliano, contadino, devoto, esule e poeta» [5].

Ma Pino Battaglia va oltre l’arcaico. Mediante una personalissima rilettura del testo biblico, egli cerca di risalire alle radici del metafisico per prospettarci l’esistenza nella sua ultima verità:

«L’arido regni dov’è terra e l’oscuro dov’è cielo/luce dia dunque risalto alla mia luce/affinché io possa definire il mio contrario/il giorno sia del puro e sia dominio,/la notte del perso nel proprio equivoco» [6].
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ph. Giuseppe Leone

Allo stesso tempo, la poesia di Battaglia tenta di ricostruire l’intreccio apparentemente incomprensibile delle cose riproponendo, in chiave originale, il tema dell’armonia dei contrari e della loro costante tensione a essere. Il canto è un travalicare, un andare oltre. Esso suggella un compimento e definisce un emergere cosmogonico, in cui l’io poetico non riconosce più limite valido a circoscrivere le percezioni del suo animo. Lo spazio si apre al possibile, come direbbe Hölderlin. In tal senso, il pensiero dell’io poetante si smarrisce in un intrico di visioni, tali da mettere a fuoco l’equivoco dell’essere e del non-essere e la coesistenza di finito e infinito. E tuttavia, l’inversione degli opposti è cagione di vaghezza e spaesamento: «M’abbandono, e mi dona altra vaghezza/ il perdurare nell’umido e nel secco» [7].

Consegnarsi al flusso delle cose, dunque, significa potere ricevere in dono «altra vaghezza», e quindi esperire una regressione al primordiale. Al contempo, abbandonarsi consente una fuoriuscita dai confini abituali dell’esistenza. La narrazione metafisica del reale si condensa in fulminee e nitide accensioni, spesso veicolate da uno scenario paesaggistico. Le sensazioni indefinite producono una naturale tensione verso il Dio delle cose, figura di un rapimento e poi di un inabissamento dentro il Sé. La poesia di Giovanni Battaglia è tutta «interiore», congiunta a una inquieta visione del cosmo dove la coincidenza dei contrari determina un ritorno all’indistinto, una mescolanza. E infatti, Francesco Virga scrive:

«Gli elementi contraddittori (i contrari) presenti in apertura della sua Genesi tornano in tutti i sei giorni successivi. In forme diverse le coppie dei contrari s’inseguono tra loro (maschio e femmina, sapienza e mancamento, perdita e allontanamento, limpido e torbido, generazione e corruzione, umido e secco) e sembra che trovino pace solo nel settimo giorno, quando il poeta sembra avere raggiunto, seppure in forma vaga, la consapevolezza dialettica che tutto l’universo è pervaso da contrari» [8].

La coincidenza, quasi simbolica, degli opposti, serve a introdurre la separazione degli elementi: «Vaghino gli animali d’acqua nel molle ventre/della passiva luna e gli animali d’aria/negli antri del sole. A ciascuno il suo/ affinché da corrispondenze e dissimilazioni /consegua significato e svuotamento»[9].

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ph. Giuseppe Leone

Come emerge dai versi succitati, non si tratta di una separazione distruttiva, poiché prelude alla formazione delle cose quali sono nel nostro mondo. Il poeta intende spiegare la nascita e la morte, ricorrendo all’idea del combinarsi e del dividersi degli elementi che costituiscono il reale. L’esito è sempre l’uno, e cioè il distinto, che continua a essere animato da forze opposte: «Vengano gli animali dell’asciutto e dimora/abbiano e nocumento. Sia l’uomo e sia Uno,/ maschio e femmina affinché abbiano/dominio e mancamento d’altezze/s’inebrino per emendamento» [10].

Come ben descrive Virga nel suo intervento, Giuseppe Giovanni Battaglia: un poeta corsaro, agli occhi del poeta solo la morte può consentire una riconciliazione con l’indistinto:

«Pino Battaglia sa che il suo viaggio sta per volgere al termine, egli ha ormai preso distanza da tutte le cose amate nel corso della sua breve ma intensa vita. Non gli costa nulla, ora, riconoscere d’essere stanco e si rivolge così al suo unico Signore: Mia roccia, mio Signore, donami il sigillo della dimora/perché, ormai, è sera e io sono il viandante/(…) Ora io sono stanco. Le vene dolci della viva pietra/io voglio per dimora e nella legna che brucia consumare/l’arte. Vengano ai tuoi piedi tutte le strade/che ho percorso. Ti chiedo grazia»[11].

Secondo Cosimo Scordato, il punto focale di questa visione dipende dallo sguardo del poeta sul mondo. Dinanzi al dispiegarsi degli spazi Battaglia intuisce che il proprio sentire si inserisce nella vita che scorre perennemente e suggella la sua presenza, un suo esserci fra le cose del mondo:

«Se si ha la pazienza di lasciarsi interpellare dai versi di Battaglia allora si va scoprendo che, dentro il suo procedere essenziale e scultoreo, va emergendo quella sensibilità particolare che ci obbliga a guardare alla realtà includendo sempre il punto di vista dell’osservatore (…); i luoghi, per intenderci, come li chiama lui, nei quali la presenza dell’uomo è determinante perché in essi l’uomo interagisce con ciò che accade dando la propria impronta ed esprimendo la sua presenza; è un esserci quello di Battaglia nel quale soggetto e oggetto stanno insieme e in qualche modo si fondono» [12].

La parola poetica finisce così per avere una funzione rivelatrice. Scavalcando a ritroso il presente, il poeta vuole indicarci la strada della rivelazione di una verità segreta e assoluta, coincidente con l’origine mitica e incontaminata dei significati e dei linguaggi:

«Ma il senso del mistero di Battaglia non scivola verso qualcosa di panteistico quasi che vada sacralizzata la natura; esso va maturando in direzione di una Presenza che custodisce dentro di sé tutta la realtà (della creazione e dell’uomo); compito dell’artista è di portarla alla luce, di lasciarla trasparire come qualcosa che a sua volta ci contiene in sé (…) Prevale una percezione apofatica della parola, della conoscenza estensibile, alla fine, a tutto il senso della vita; l’incomprensibilità non è rinunzia a capire, piuttosto è consapevolezza che non si comprende mai abbastanza e questo è scatenante di nuova ricerca e di cammino mai esaurito» [13].
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La consapevolezza di non potere approdare a un possesso totale della verità alimenta il senso del sacro. Al contempo, tuttavia, entrare in rapporto con il mistero profondo delle cose determina «un senso di quieta inquietudine; sì, perché avverte che la fede non è un atto della ragione o della riflessione, essa sgorga dal cuore e al cuore riporta». Anche Nuccio Vara, come Cosimo Scordato, segnala il sentimento di inquietudine che pervade il cuore del poeta dinnanzi al mistero:

«Le scintille del nuovo senso e l’anelito verso la Verità non placavano però del tutto i conflitti che si andavano consumando nell’intimità di Battaglia. Anch’egli, infatti, alla stregua di Giacobbe (Genesi, 32, 24, 32), non voleva sottrarsi allo scontro a viso aperto con Dio, preludio di ogni conversione che aspiri ad essere realmente tale: Il mistero è più forte dell’accadimento e non v’è/sostanza che regga all’oro che tu poni sulle mie mani/ e alla solitudine che mi esplode nel petto. Non posso/ perdere, ma soprattutto, non posso perderti»[14].

Il desiderio di colmare la ferita della distanza da Dio è sempre vivo e dolente: «La parola poetica qui si intersecava con la riflessione teologica, la quale consentiva a Piddu, e questa volta in una chiave prettamente cristologica, di approssimarsi al volto di Dio»[15]. Il Dio a cui Battaglia anela è il Dio degli umili e degli sconfitti:

«Quel che il poeta di Aliminusa, ormai prematuramente prossimo, anzitutto cercava non era tanto (o soltanto) il Dio che poteva tappare i buchi della sua vita sfortunata e dolente, quanto il Signore dei matti e dei poveri, il liberatore della schiavitù e dei potenti»[16].

La poesia, dunque, risarcisce, entro orizzonti permeati dalla fede, tutti coloro che sono stati spazzati via dal nuovo corso delle cose. Tuttavia, il male resta un enigma e risponde a ragioni che la mente umana non può ricostruire. Certo è che, come Nuccio Vara ci sottolinea, ci troviamo di fronte a una delle figure più significative della poesia italiana del Secondo Novecento, capace di rappresentare, attraverso una poesia moralmente radicata nel presente, le brutali contraddizioni del nostro tempo.

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
Note
[1] P.P.Pasolini, Lettera aperta a Italo Calvino: P.: quello che rimpiango, «Paese sera», in Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2016: 53-54
[2] L. Sciascia, in G. G. Battaglia, L’ordine di viaggio:155, disponibile in P. P. Punturello, C. Scordato, N. Vara, F. Virga, Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, Caltanissetta, Salvatore Sciascia, 2018: 55
[3] G. G. Battaglia, «Sindacato», periodico della Camera del Lavoro di Palermo, n.5, giugno 1979: 21
[4] P. Punturello- C. Scordato-N. Vara- F. Virga, Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, cit.: 21
[5] Ivi: 21
[6] Giuseppe Giovanni Battaglia, Genesi e Requiem, in P. Punturello- C. Scordato-N. Vara- F. Virga, Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, cit: 81
[7] Ivi: 82
[8] P. P.Punturello- C. Scordato-N. Vara- F. Virga, Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, cit.:70
[9] Giuseppe Giovanni Battaglia, Genesi e Requiem, in P. Punturello- C. Scordato-N. Vara- F. Virga, Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, cit.: 82
[10] Ibidem
[11] P.P.Punturello- C. Scordato-N. Vara- F. Virga, Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, cit. : 70
[12] Ivi:.29
[13] Ivi:.35
[14] Ivi: 50
[15] Ibidem
[16] Ivi:51
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Pietro Romano,  laureato presso l’Università degli Studi di Palermo in Lettere Moderne con una tesi dal titolo Le due anime di Giuliana Saladino. Tra giornalismo e letteratura, è autore di una raccolta di poesie, dal titolo Il sentimento dell’esserci (Rupe Mutevole, 2015), nonché di diverse prefazioni e recensioni per libri pubblicati da Rupe Mutevole. Suoi testi compaiono in diverse antologie e riviste.
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