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Risalire alla lingua madre per risalire a Dio. L’impegno etico del poeta Battaglia
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2018 @ 00:27 In Cultura,Letture | No Comments
L’otto luglio del 1974, su «Paese sera», Pier Paolo Pasolini pubblica un articolo intitolato «Lettera aperta a Italo Calvino», confluito, poi, in Scritti Corsari con il titolo Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino. Rispondendo a Italo Calvino, l’intellettuale muove da acute considerazioni sulla lingua per accusare la moderna società dei consumi di avere spazzato via il mondo contadino, preborghese e transnazionale:
Pasolini sviluppa alcune considerazioni circa la nascita di una lingua nazionale italiana che, unificando i parlanti in nome di una ideologia implicita avente quali nuclei fondamentali la produzione e il consumo, cancella oppure omologa tutte le altre forme di espressività linguistica. In un simile contesto, l’autenticità e la particolarità di talune forme culturali sono irrimediabilmente destinate a scomparire, soppiantate dalle necessità della società di massa. Tale è lo scenario socio-politico e culturale al centro della riflessione poetica di Giuseppe Giovanni Battaglia, il quale, nella sua opera, evidenzia la necessità di risalire alla lingua della madre, e dunque a un’espressività linguistica primordiale, coincidente con i sentimenti più intimi del suo paese natale, Aliminusa. Nato il 24 giugno del 1951, egli vive a pieno gli sviluppi scaturiti dai grandi eventi sociali del dopoguerra quali la dissoluzione della civiltà contadina, le nuove migrazioni e l’espansione della società industriale. A soli diciotto anni, pubblica, insieme a Tano Gullo, la sua prima opera in versi dialettali intitolata La terra vascia. La raccolta suscita l’ammirazione di Leonardo Sciascia, il quale vi coglie un «dialetto integrale e lontano», capace di far rivivere l’integrità del mondo contadino siciliano così come era alle origini:
In seguito, la lettera dello scrittore sarà inserita in veste di prefazione al secondo libro di Pino Battaglia, La piccola valle di Alì (Flaccovio, 1972). In un’intervista che rilascia a Enzo Golino nel dicembre 1973, Pier Paolo Pasolini, alla domanda: «È possibile oggi una poesia dialettale? I giovani scrivono ancora versi in dialetto?», risponde: «Ignazio Buttitta per la Sicilia, Albino Piero per la Lucania, Tonino Guerra per la Romagna sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma non sono giovani e da tempo hanno descritto un mondo ora scomparso. Tra i giovani ricordo soltanto un ragazzo palermitano, di vent’anni, che ha pubblicato un esiguo libro in versi siciliani con la prefazione di Leonardo Sciascia». Il riferimento è chiaro: il poeta di cui Pasolini non ricorda il nome è Giuseppe Giovanni Battaglia.
Stabilitosi a Roma, Battaglia incontra Gaetano Giganti e Pio La Torre, reduci dalle occupazioni delle terre in Sicilia. Nel 1977, pubblica Campa padrone che l’erba cresce, con la prefazione di Tullio De Mauro. Poco più tardi, su invito di Aurelio Colletta, scrive per la rivista «Sindacato». Nel giugno del 1979, riferendosi ai fatti criminosi che hanno visto protagonista il banchiere Michele Sindona, firma un articolo intitolato Sindonia di anime morte, dove scrive:
Mentre in Pasolini è drammatica la coscienza della distruzione del passato, per Battaglia, al contrario, le «morte cose ritornano alla terra», e dunque ciò che è stato spazzato via può ritornare secondo altre declinazioni, poiché «la storia, dice un compagno contadino, è una pentola senza coperchio». Il punto di vista del poeta risente sempre del mondo rurale, dove tutto è destinato a un processo di progressiva purificazione e rinnovamento.
Agli inizi degli anni’80, Battaglia raccoglie la sua poesia in dialetto ne L’Ordine di Viaggio e, dopo qualche anno, destina al teatro Alchimia. Nel 1984, conclusa la sua esperienza presso la CGL di Roma, rientra in Sicilia, dove conosce Michele Perriera e, per la sua scuola di teatro Téates, scrive Girello e Astorio imperatore. Nel 1986, pubblica Genesi e Requiem, I luoghi degli elementi e Sonatine. Dopo avere conosciuto Carla Martinetto, a cui legherà la sua vita, torna a Roma e inizia a collaborare con l’Istituto Luce. Nel 1987 pubblica Rocciàs e Inventario degli strumenti del Padre e della Madre. Segue, nel 1988, la seconda edizione dell’Ordine di Viaggio. Ammalatosi, raduna il suo lavoro poetico fino al 1986 in Poesie (1991) e nel 1992 dà alle stampe Il libro delle variazioni lente e il Libro Mistico.
La sua attività poetica è caratterizzata dal sodalizio con alcuni pittori, come Vincenzo Ognibene, Daniele Oppi e Bruno Caruso. Muore il 2 novembre 1995 a Aliminusa, all’età di quarantaquattro anni.
Per ricordarlo, Salvatore Sciascia Editore ha raccolto in un unico volume gli atti del convegno svoltosi nella chiesa di San Giovanni Decollato di Palermo il 19 settembre 2016, dal titolo Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, con interventi di Pierpaolo Punturello, Cosimo Scordato, Francesco Virga e Nuccio Vara. L’evento è accompagnato dalla lettura di alcune poesie scelte a cura di Patrizia D’Antona ed è seguito dall’allestimento di una mostra da parte di Ognibene dal titolo Per Pino e con Pino. Scopo del convegno è stato quello di mettere a fuoco la compresenza di due componenti fondamentali nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia, ovverosia una religiosità imbevuta di nostalgia del tempo passato e un’assoluta autonomia rispetto a ogni condizionamento morale, religioso e ideologico.
Il volume, uscito nell’aprile di quest’anno, raffigura in copertina un’opera dell’artista Vincenzo Ognibene, Dello sguardo e del cuore (Pino), 1992, autore, peraltro, della nota introduttiva in cui si delineano il poeta e le diverse iniziative tenutesi negli anni per ricordarlo. Religiosità e laicità nella poesia di Giuseppe Giovanni Battaglia si apre con un intervento di Pierpaolo Pinhas Punturello, Battaglia lo scriba, dove si evidenzia il carattere arcaico e ancestrale della ricerca poetica di Pino Battaglia:
Cifra peculiare dell’opera di Battaglia è l’uso del racconto biblico per «indicarci l’idea di più strade per la propria storia, per ciò che non racconta, ma ci invita a guardarla quella storia, a comprenderla tra pietre, vene, estraneità da se stessi di cui Rut è il simbolo, di cui Tobit è custode, lì dove l’amore ed il timore di entrambi per Dio è rivolto ad un Dio più antico delle pietre stesse evocate da Battaglia come un coro, come compagne lì dove il silenzio del non racconto è costrizione, censura, imposizione arcaica della violenza della Storia. Eppure Dio in questa luce che ci offre il poeta non è più elemento teologico di relazione, bensì identitario». Secondo Punturello, la poesia di Battaglia persegue una ricerca tematica sull’idea di origine. Il Dio di Battaglia coincide con l’origine di ciò che noi siamo e che la Storia ha irrimediabilmente rimosso. Il poeta, quindi, attinge alla tradizione biblica poiché in quest’ultima riesce a scorgere le radici profonde della sua identità di siciliano. Egli, attraverso la poesia, ricostruisce la storia della sua terra, segnata da secoli di sopraffazione e miseria:
Ma Pino Battaglia va oltre l’arcaico. Mediante una personalissima rilettura del testo biblico, egli cerca di risalire alle radici del metafisico per prospettarci l’esistenza nella sua ultima verità:
Allo stesso tempo, la poesia di Battaglia tenta di ricostruire l’intreccio apparentemente incomprensibile delle cose riproponendo, in chiave originale, il tema dell’armonia dei contrari e della loro costante tensione a essere. Il canto è un travalicare, un andare oltre. Esso suggella un compimento e definisce un emergere cosmogonico, in cui l’io poetico non riconosce più limite valido a circoscrivere le percezioni del suo animo. Lo spazio si apre al possibile, come direbbe Hölderlin. In tal senso, il pensiero dell’io poetante si smarrisce in un intrico di visioni, tali da mettere a fuoco l’equivoco dell’essere e del non-essere e la coesistenza di finito e infinito. E tuttavia, l’inversione degli opposti è cagione di vaghezza e spaesamento: «M’abbandono, e mi dona altra vaghezza/ il perdurare nell’umido e nel secco» [7].
Consegnarsi al flusso delle cose, dunque, significa potere ricevere in dono «altra vaghezza», e quindi esperire una regressione al primordiale. Al contempo, abbandonarsi consente una fuoriuscita dai confini abituali dell’esistenza. La narrazione metafisica del reale si condensa in fulminee e nitide accensioni, spesso veicolate da uno scenario paesaggistico. Le sensazioni indefinite producono una naturale tensione verso il Dio delle cose, figura di un rapimento e poi di un inabissamento dentro il Sé. La poesia di Giovanni Battaglia è tutta «interiore», congiunta a una inquieta visione del cosmo dove la coincidenza dei contrari determina un ritorno all’indistinto, una mescolanza. E infatti, Francesco Virga scrive:
La coincidenza, quasi simbolica, degli opposti, serve a introdurre la separazione degli elementi: «Vaghino gli animali d’acqua nel molle ventre/della passiva luna e gli animali d’aria/negli antri del sole. A ciascuno il suo/ affinché da corrispondenze e dissimilazioni /consegua significato e svuotamento»[9].
Come emerge dai versi succitati, non si tratta di una separazione distruttiva, poiché prelude alla formazione delle cose quali sono nel nostro mondo. Il poeta intende spiegare la nascita e la morte, ricorrendo all’idea del combinarsi e del dividersi degli elementi che costituiscono il reale. L’esito è sempre l’uno, e cioè il distinto, che continua a essere animato da forze opposte: «Vengano gli animali dell’asciutto e dimora/abbiano e nocumento. Sia l’uomo e sia Uno,/ maschio e femmina affinché abbiano/dominio e mancamento d’altezze/s’inebrino per emendamento» [10].
Come ben descrive Virga nel suo intervento, Giuseppe Giovanni Battaglia: un poeta corsaro, agli occhi del poeta solo la morte può consentire una riconciliazione con l’indistinto:
Secondo Cosimo Scordato, il punto focale di questa visione dipende dallo sguardo del poeta sul mondo. Dinanzi al dispiegarsi degli spazi Battaglia intuisce che il proprio sentire si inserisce nella vita che scorre perennemente e suggella la sua presenza, un suo esserci fra le cose del mondo:
La parola poetica finisce così per avere una funzione rivelatrice. Scavalcando a ritroso il presente, il poeta vuole indicarci la strada della rivelazione di una verità segreta e assoluta, coincidente con l’origine mitica e incontaminata dei significati e dei linguaggi:
La consapevolezza di non potere approdare a un possesso totale della verità alimenta il senso del sacro. Al contempo, tuttavia, entrare in rapporto con il mistero profondo delle cose determina «un senso di quieta inquietudine; sì, perché avverte che la fede non è un atto della ragione o della riflessione, essa sgorga dal cuore e al cuore riporta». Anche Nuccio Vara, come Cosimo Scordato, segnala il sentimento di inquietudine che pervade il cuore del poeta dinnanzi al mistero:
Il desiderio di colmare la ferita della distanza da Dio è sempre vivo e dolente: «La parola poetica qui si intersecava con la riflessione teologica, la quale consentiva a Piddu, e questa volta in una chiave prettamente cristologica, di approssimarsi al volto di Dio»[15]. Il Dio a cui Battaglia anela è il Dio degli umili e degli sconfitti:
La poesia, dunque, risarcisce, entro orizzonti permeati dalla fede, tutti coloro che sono stati spazzati via dal nuovo corso delle cose. Tuttavia, il male resta un enigma e risponde a ragioni che la mente umana non può ricostruire. Certo è che, come Nuccio Vara ci sottolinea, ci troviamo di fronte a una delle figure più significative della poesia italiana del Secondo Novecento, capace di rappresentare, attraverso una poesia moralmente radicata nel presente, le brutali contraddizioni del nostro tempo.
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