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Ripensare il progresso senza rinunciare alla tecnologia

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di Orietta Sorgi                                 

Che il progresso si configuri come una linea retta in continuo accrescimento è una costante presente in tutta la cultura europea e americana a partire dall’Ottocento liberista e positivista. E che questa tendenza fosse nata già nel Rinascimento con l’esaltazione dell’uomo al centro dell’universo, in grado di trasformare la realtà circostante attraverso gli strumenti della ragione e dell’intelligenza, è anch’essa una premessa ineludibile. Con la differenza che se in passato tutta la tradizione umanistica affermava il successo delle arti e delle lettere, ma anche della filosofia e del diritto, a riprova della supremazia dell’uomo, nella modernità invece, con l’avvento della rivoluzione industriale, la stessa priorità viene assegnata al settore tecnologico, frutto di quell’accelerazione costante nel campo delle scoperte scientifiche che aveva finito col determinare una fiducia incontrastata nelle potenzialità del progresso.

Nel secolo XIX, le posizioni evoluzioniste di Spencer e Darwin e la filosofia di Hegel, avevano in fondo rafforzato la convinzione di una netta superiorità del presente rispetto al passato, a garanzia di nuove prospettive possibili e di alternative future. Da un diverso punto di vista, economico-materialista, lo stesso Marx, pur risentendo di un certo idealismo, ribadiva la speranza di un avvenire migliore e di una società diversa da quella capitalistica, in nome dell’uguaglianza fra gli uomini e dell’abolizione di ogni forma di sfruttamento di una classe sociale su un’altra.

Tuttavia, al di là di ogni possibile profetico ottimismo, la caduta dei regimi comunisti nel Novecento, ha fatto sì che il modello capitalista dilagasse, con effetti talvolta disastrosi, sulla gran parte del pianeta, imponendosi anche sui regimi coloniali. Questa invasione globale del capitalismo ha comportato anche come conseguenza il ritenere il progresso una condizione quasi naturale e inarrestabile, quasi che, come volevano i sostenitori del liberismo economico, l’avanzamento e l’accrescimento delle risorse quantitative, effetto della potenza tecnologica, equivalessero sempre e comunque ad un incessante miglioramento delle condizioni dell’umanità, almeno in una parte privilegiata dell’universo.

Si tratta in tutta evidenza di un’illusione che non tiene conto del fatto che qualsiasi forma economica è storicizzata e dunque transitoria, in quanto risultato di una selezione fra le tante possibili a secondo il punto di vista adottato e di un “centro” arbitrario da cui partire. Lo stesso concetto di tempo è, com’è noto, del tutto relativo, inteso nella modernità come un processo rettilineo, cumulativo e quantitativo, a differenza dell’antichità quando si credeva in un tempo sacro, circolare, qualitativo, quello dei miti e dell’Eterno ritorno.

Ma se le cose stanno effettivamente così, è ancora possibile, alla luce di quanto è avvenuto nello scorso secolo e, in tempi più recenti, nel Terzo Millennio, parlare di progresso? E in che termini?  Fino a che punto possiamo ancora identificarlo come una freccia, la cui traiettoria partita da un ipotetico punto zero prosegue ininterrottamente verso stadi di volta in volta superiori?

Su questi presupposti si sviluppa il ragionamento di un autorevole storico come Aldo Schiavone nel suo ultimo saggio edito dal Mulino dal titolo Progresso, per l’appunto. L’intento è quello di capire come sono andate veramente le cose e di individuare il senso di un termine che in apparenza sembrerebbe oggi del tutto contraddittorio. L’attuale crisi della nostra economia occidentale, i disastri climatici e ambientali, la fame e la povertà che affliggono una parte consistente del pianeta, indeboliscono la convinzione ottimistica del progresso in senso unilineare.

Per far fronte ad ogni dubbio Schiavone fa ricorso agli strumenti del mestiere, al lavoro dello storico e parte da lontano, prima ancora della comparsa della specie umana sull’universo, di cui questa costituisce pur sempre un piccolissimo frammento. Il tentativo è quello di ripercorrere quella stessa direzione che da un inizio assai rudimentale arriva a forme sempre più avanzate di tecnologia: dalla scoperta primordiale del fuoco alle armi nucleari ad esempio.

phpthumb_generated_thumbnailjpgFin dalla sua prima comparsa, l’homo sapiens si è distinto per il “sapere della mano” (Angioni, 1986), vale a dire per la capacità di fabbricare strumenti di lavoro e far uso delle tecniche, oltre che per la facoltà di emettere il linguaggio che gli ha consentito di comunicare (Leroi-Gourhan, 1977) ed entrare in relazione con altri, ponendo le basi del vivere sociale: da qui le istituzioni, le forme della politica e la governabilità, le credenze religiose e l’etica morale, tutto quello che sta a fondamento della convivenza civile. Fra i tratti peculiari dell’ominazione non vi è soltanto quell’operare incessante dell’uomo, il suo saper produrre per trasformare e manipolare la natura che lo circonda, ma anche la facoltà del pensiero e della progettualità, che dovrebbe svilupparsi e progredire contestualmente all’avanzamento e accrescimento delle condizioni materiali.

Per secoli – a riprova che non sempre vi è una crescita unidirezionale della tecnica e del pensiero che l’accompagna – le società antiche rimasero povere di produzioni materiali e la crescita economica restava sostanzialmente lenta: al contrario la Grecia classica seppe sviluppare con talento il primato delle lettere e delle arti, della politica e della filosofia, come Platone e Aristotele hanno dimostrato, le cui idee nel campo del diritto risultano ancora per molti versi attuali. C’è anche da dire – come evidenzia acutamente l’Autore – che tali successi furono dovuti in buona parte all’esistenza della schiavitù e dell’inferiorità delle donne– ritenute condizioni del tutto naturali – che di fatto potevano svincolare l’èlite da ogni problema legato alla riproduzione materiale dell’esistenza, rendendola libera di esprimersi nel suo estro creativo.  Di fatto, dalla società greco-romana fino al cristianesimo si assisteva così al perdurare della condizione schiavistica e della subalternità della donna in una rigida divisione di ruoli e caste che avevano permesso ad una cerchia ristretta di coltivare liberamente il pensiero nelle varie manifestazioni.

Più tardi, mentre il benessere si diffondeva a tappeto e l’economia capitalistica si poneva come risultato naturale delle scoperte scientifiche e tecnologiche, sarebbe venuta meno l’esigenza di mantenere la schiavitù e la subalternità femminile e gradualmente le differenze sociali si livellarono, almeno apparentemente, in virtù di una maggiore apertura ai consumi dettati da bisogni sempre crescenti che avrebbero portato, con un grande salto in avanti, alla caduta delle frontiere e alla globalizzazione.

Ma nulla c’è di naturale nel progresso e la storia si sa – ricorda Schiavone – procede per sbalzi e interruzioni: se così non fosse non si spiegherebbero altrimenti le tragedie e le catastrofi del Novecento come i conflitti mondiali, per non parlare del Male assoluto rappresentato dall’Olocausto. Non è un caso, a dimostrazione di tale considerazione, che proprio durante il Novecento si sviluppa una corrente di pensiero che mette in crisi profondamente quella fiducia nel progresso e nella ragione umana che aveva caratterizzato la stagione positivista. Poeti come Leopardi, il Leopardi della Ginestra soprattutto, filosofi come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche teorizzano un pessimismo profondo dovuto ad un approccio irrazionale e decadente.

E allora? Bisogna ritornare, per condividerlo, all’angelo di Klee da cui Schiavone era partito nel suo incipit, quando allude a quelle ali spiegate verso il passato mentre volge le spalle al futuro dove intravede solo tempesta e catastrofi, rovine su rovine? Schiavone non condivide di certo il pessimismo dell’angelo di Klee né quello di Benjamin che lo sostiene, anzi resta fermamente convinto, al termine del suo excursus storico, che il progresso esiste ed esiste in quanto freccia che conduce pur sempre ad un miglioramento dal passato al presente verso il futuro. Occorre saperlo governare.

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Angelus Novus di Klee

Il fatto realmente critico non sta tanto nel continuo avanzare della scienza e della tecnica, quanto in una mancata analisi delle forme economiche che la determinano, una mancata progettualità circa le decisioni politiche che orientano le scelte in una direzione anziché in un’altra. Ѐ successo, come abbiamo visto, che il rapporto fra la potenza tecnologica e il pensiero razionale a volte s’incrina e le due strade prendono direzioni diverse allontanandosi, o procedendo con tempi e modalità separate. Ad una sempre crescente potenza tecnologica e ad una sovrapproduzione delle risorse materiali fa riscontro una totale assenza di governabilità e di controllo nel senso di indirizzo politico del progresso nella giusta direzione. Col risultato di uno squilibrio, di un divario e di un vuoto, causa di tante emergenze critiche che affliggono la nostra contemporaneità.

Per una curiosa e forse fortunata coincidenza questo saggio veniva completato proprio alla vigilia della pandemia dovuta al Covid 19, quasi a voler sortire l’effetto di un’immediata verifica delle osservazioni contenute nel volume. Se dalle prime pestilenze descritte da Tucidide, a quelle manzoniane per arrivare al colera e alla spagnola, fino alla poliomelite, non siamo di certo di fronte a fenomeni nuovi nella storia, quella del Covid è stata certamente la prima pandemia che si è imposta nel mondo non soltanto per la forza della sua virulenza, ma per la potenza della comunicazione. In questa drammatica circostanza la scienza e la tecnica, nel bene e nel male, hanno assunto un ruolo di primordine, sia nell’informazione e nel tentativo di contrastare l’emergenza, ma anche nell’assumersi eventuali responsabilità nelle cause del dilagare del contagio.

Ѐ stato detto infatti, fra le altre cose, che la diffusione del virus fosse la diretta conseguenza di un incontrollato sfruttamento delle risorse naturali che avrebbe definitivamente compromesso ogni equilibrio dell’habitat e un sano rapporto fra l’ambiente e tutte le specie viventi. In realtà – come avverte acutamente Schiavone – lo sviluppo del virus non è imputabile ad un distorto rapporto con la natura né tantomeno ad una eccessiva accelerazione della tecnologia, effetti della globalizzazione: prova ne è che in una natura incontaminata come quella del passato la mortalità era molto più alta di quella attuale.

benjaminIl punto vero sta nel fatto, più volte rilevato, che è sfuggito il controllo della catastrofe che ha letteralmente stravolto sia il sistema sanitario, sia i governi politici non più in grado di fronteggiare l’emergenza e dettare norme e comportamenti ai cittadini. Tanto più si fa grande la potenza che siamo stati in grado di realizzare, quella stessa potenza che ha reso possibile con il continuo riavvicinarsi dei contatti l’immediatezza e l’espansione su scala planetaria dei contagi – tanto più grandi insomma diventano i pericoli di non riuscire a controllarla per il meglio, creando situazioni di pericoloso sbilanciamento. «Guai però – insiste l’Autore – a confondere la critica – anche la più intransigente – alle nostre inadeguatezze ed errori, con un rifiuto delle conquiste tecnologiche che l’hanno resa possibile, e che ci hanno portato tanto in alto».

La rivoluzione tecnologica ha unificato l’economia del pianeta, e ha ravvicinato, se non proprio uniformato, universi sociali in partenza molto diversi, integrando consumi, bisogni, aspettative e comportamenti. Il potere della tecnica ha reso l’epidemia fulminea e capillare, moltiplicando all’istante e su scala globale le occasioni di contagio. Ma in questa nuova “società da fusione”, fatta di scambi, contatti, contaminazioni reciproche, trapianti, sovrapposizioni, ibridazioni – sono parole dell’Autore – quella che è mancata è proprio una governance globale che adesso il mondo richiede con forza ed è pronto ad accogliere.

Nel vuoto generato dall’improvviso degenerare della catastrofe è successo tuttavia un fenomeno insolito e straordinario: una forma di governance partita dal basso con sforzi improvvisi di cooperazione sociale e di volontariato per far fronte alle emergenze sanitarie. Da più parti del mondo si sono imposte regole e norme comportamentali da osservare con disciplina per regolamentare e bloccare la malattia. In fondo quel divario fra potenza e controllo è stato colmato parzialmente anche senza un coordinamento preventivo.

Tutto questo ci induce ad un cauto ottimismo, con Schiavone, soprattutto quando vede, oltre all’angelo di Klee e di Benjamin, qualcosa che resiste oltre l’orrore e le rovine, per cui valga la pena di guardare. Quando il Male assoluto entra con prepotenza nella storia, c’è sempre un punto da cui poter ripartire, intravedendo una stagione di progresso. Il dramma che stiamo ancora vivendo con la pandemia potrebbe essere in fondo una buona occasione.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
 Riferimenti bibliografici
Angioni, Giulio, 1986 , Il sapere della mano. Saggi di antropologia del lavoro, Palermo, Sellerio
Leroi-Gourhan, Andrè, 1977, Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio. La memoria e i ritmi, 2 voll. Torino, Einaudi

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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).

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