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Rileggendo la “leggerezza” di Italo Calvino
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2023 @ 01:41 In Cultura,Letture | No Comments
di Laura D’Alessandro
Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio (Italo Calvino)
È sempre un viaggio – di quelli che rifaresti senza mai stancarti – quello di rievocare tutti i libri che hanno reso grande Italo Calvino [1]. A partire dai racconti de Le Cosmicomiche [2] che nel 2021 hanno ispirato una installazione dell’artista americano Alex Da Corte [3], sul tetto del Metropolitan Museum (MET) di New York. La scultura, che domina Central Park, rappresenta un grande uccello blu dotato di ben settemila piume d’alluminio. Il volatile è seduto su uno spicchio di luna con una corta scala a pioli in mano e, nonostante il peso dei materiali, si muove con il vento. As Long As The Sun Lasts (Fino a che dura il sole) è il titolo dell’installazione. Di fronte a quella scala a pioli non si può fare a meno di pensare al vecchio Qfwfq [4] – l’iconico narratore e protagonista de Le Cosmicomiche – che esclama «Lo so bene….voi non ve ne potete ricordare ma io sì. L’avevamo sempre addosso, la luna, smisurata: quand’era il plenilunio – notti chiare come di giorno, ma d’una luce color burro –, pareva che ci schiacciasse; quand’era lunanuova rotolava per il cielo come un nero ombrello portato dal vento; e a lunacrescente veniva avanti a corna così basse che pareva lì lì per infilzare la cresta d’un promontorio e restarci ancorata».
L’installazione che ha avuto un enorme successo è senza dubbio un’opera imponente, suggestiva, importante. Eppure leggera. Al punto di muoversi semplicemente perché accarezzata dal vento. Come non accostare metaforicamente questa leggerezza all’intera opera di Calvino. Cercò sempre di dare valore a ciò che si leva da terra, ai racconti tradizionali, o alle monumentali Fiabe italiane, che raccolse (e spesso riscrisse) per salvarle e consegnarle alla “modernità”. Se oggi non guardiamo più con sufficienza a quelle favole per bambini, lo dobbiamo soprattutto a lui. L’innata levità è una costante in tutte le sue opere. Basti pensare al Barone [5] che non vuole più toccare terra, neanche da morto.
In Perché leggere i classici [6], Calvino sostiene che un classico è un libro «che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» (e sicuramente lo pensiamo anche delle sue opere). Ed è proprio il ricorso ai classici che permea l’intera riflessione sulla sua opera postuma Le lezioni americane [7]. Era il 1985 quando l’Università di Harvard, in Massachusetts, si preparava a ospitare lo scrittore Italo Calvino all’interno del progetto Poetry Lectures, un ciclo di lezioni intitolate a Charles Eliot Norton [8] un noto storico dell’arte nonché studioso di Dante (dal 1891 al 1892 tradusse l’intera Divina Commedia).
Originariamente avevano il titolo di Sei proposte per il prossimo millennio (Six memos for the next millennium), e furono pubblicate nel 1988. Calvino si dedicò a quest’opera con molta cura e dedizione tanto da essere stata sin da subito considerata un Vademecum all’avanguardia e di grande raffinatezza per meglio comprendere, tra l’altro, anche i più moderni sistemi e meccanismi comunicativi. Purtroppo non si tennero mai di fronte alla platea dell’ateneo di Cambridge. Il grande autore si spense, per un ictus, il 19 settembre dello stesso anno, prima degli incontri previsti nel corso dell’autunno successivo. I contenuti della prima edizione furono recuperati dalla moglie Esther Judith Singer [9] e poi rielaborati [10].
E proprio con la lectio dedicata alla Leggerezza si aprono le sue magistrali Lezioni americane [11], con un incipit che chiarisce l’intento della sua riflessione:
L’analisi che applicò alle sue stesse opere lo indusse ad una riflessione sulla sua modalità di scrittura a partire dalla necessità di immedesimarsi nell’«energia spietata che muove la storia del nostro tempo», nelle vicende collettive quanto in quelle individuali. Il suo costante studio di un linguaggio appropriato a cogliere le varie sfumature della vita – e che lo spingevano a scrivere –, si muoveva attorno alla ricerca di «…cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso…»…
E qui Calvino si affida alla cara mitologia e alle immagini che riesce ad evocare richiamando la figura di Perseo, l’eroe che riesce, volando sui sandali alati, a tagliare la testa della perfida Gorgone. Perseo che, astutamente, non rivolge il suo sguardo verso Medusa ma solo sulla sua immagine che si riflette nello scudo di bronzo. Con il suo stratagemma, Perseo viene in soccorso di Calvino, proprio quando si sente catturato dalla «morsa della pietra», quella morsa che lo prende ogni qualvolta si accinge ad una rievocazione storico-culturale.
Ed ecco che la mitologia, quasi per incanto, diventa immagine con Perseo che per mozzare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, si sostiene sulla leggerezza dei venti, delle nuvole spingendo il suo sguardo solo su ciò che può svelarsi come una visione indiretta: l’immagine riflessa in uno specchio. Di qui la tentazione per Calvino di trovare nelle immagini del mito rievocato, un’alleanza del rapporto tra il poeta col mondo: una lezione del metodo che si dovrebbe seguire. Tuttavia, non è un metodo esente da rischi poiché «ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca». Occorre non avere fretta affinché la lezione del mito si depositi e si stratifichi nella memoria per permettere di meditare su ogni dettaglio, di ragionarci e ritornarci sopra, senza tuttavia dimenticarne e mortificarne il linguaggio delle immagini. È la letteralità la forza del mito e non la nostra interpretazione.
Il mito di Perseo è senza dubbio complesso. E anche in questo caso sono le immagini – e non ciò che potremmo aggiungervi – che restituiscono la lezione: Perseo dopo aver tagliato la testa a Medusa non l’abbandona ma la porta con sé servendosene per allontanare i nemici quando stanno per sopraffarlo. La sua è un’arma potente. È sufficiente mostrare la chioma di serpenti tirandola fuori dal sacco. È capace di padroneggiare quel volto spaventoso tenendolo nascosto. Anche in questo caso è nella non visione diretta che risiede la forza di Perseo. Ed è questo l’approccio che occorre avere nei confronti della realtà per descriverla attraverso il linguaggio: non rifiutare la realtà del mondo dei mostri, ma portarla con sé e servirsene.
Per meglio comprendere il rapporto tra Perseo e Medusa, Calvino richiama i versi de Le Metamorfosi di Ovidio [12], quando il nostro eroe, dopo aver vinto un’altra battaglia, sconfitto un mostro marino massacrandolo a colpi di spada e aver liberato Andromeda, si accinge a lavarsi le mani ma ha il problema di dove porre la testa di Medusa. I versi di Ovidio, per descrivere questa immagine sono un esempio magistrale di scrittura riuscendo a descrivere e spiegare tutta la delicatezza d’animo che occorre per essere un eroe come Perseo che ha sconfitto mostri terribili: Perché la ruvida sabbia non sciupi la testa anguicrinita, egli stende sopra dei ramoscelli nati sott’acqua e vi depone la testa di Medusa a faccia in giù [13]. La leggerezza di cui Perseo è eponimo e metafora trova nelle parole di Ovidio una splendida rappresentazione attraverso un gesto di confortante gentilezza. Sicuramente non semplice verso Medusa, un mostro terribile ma, al contempo, deteriorabile e anche fragile. E l’immagine che ne segue è altrettanto sorprendente: i ramoscelli marini a contatto con la testa della Gorgone si trasformano magicamente in coralli di cui si adornano le ninfe avvicinando ramoscelli e alghe alla terribile testa. Un’immagine che rovescia, e fa quasi scomparire, l’orrore alla vista di Medusa.
E non mancano esempi della stessa presenza di immagini anche in poeti moderni. Accade in alcuni versi di Piccolo Testamento di Montale, dove troviamo elementi sottilissimi, flash emblematici della sua poesia: «traccia madreperlacea di lumaca / o smeriglio di vetro calpestato», parole riferite con Lucifero, spaventoso mostro infernale dalle ali di bitume che cala sulle capitali dell’Occidente. In questa poesia, scritta nel 1953, dai toni e dalla visione apocalittici, Montale contrappone versi luminosi: «Conservare la cipria nello specchietto / quando spenta ogni lampada».
Calvino riconosce quanto sia difficile per un autore rappresentare la leggerezza. E lo sa bene Milan Kundera che con il suo romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere [14], giunge «all’amara constatazione dell’Ineluttabile Pesantezza del Vivere». Il romanzo «ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile».
Tutto ciò non porta ovviamente, per l’autore, a raggirare la realtà rifugiandosi nel luogo sicuro del sogno o dell’irrazionale. La lezione di Calvino è un invito ad un cambio di approccio e di prospettiva attraverso nuovi metodi e strumenti di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza di cui vuole appropriarsi non sono immagini che si lasciano dissolvere come sogni evanescenti dalla realtà del presente e del futuro. Calvino, per spiegare la sua impostazione, ricorre anche al De rerum natura di Lucrezio, che considera «la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero».
La leggerezza è in Ovidio quanto in Lucrezio un modo di porsi e vedere il mondo. Un mondo che fondato sulla filosofia e sulla scienza. In entrambi i casi la leggerezza è qualcosa di producibile «nella scrittura, con i mezzi linguistici che sono quelli del poeta, indipendentemente dalla dottrina del filosofo che il poeta dichiara di voler seguire».
Nell’opera di Dante tutto acquista consistenza e stabilità. Il peso delle parole ha una ponderazione stabilita con esattezza. Anche quando scrive di cose lievi, esprime il peso esatto della leggerezza: «come di neve in alpe senza vento». Quando poi, in altri versi, vuole esprimere la pesantezza di un corpo che affonda nell’acqua e scompare, utilizza un linguaggio in cui la pesantezza è come trattenuta e addirittura attutita: «come per acqua cupa cosa grave» [15].
D’altra parte, l’idea di un mondo costituito da atomi senza peso ci colpisce proprio perché abbiamo conoscenza ed esperienza del peso delle cose. Ammiriamo la leggerezza del linguaggio proprio perché ammiriamo anche il linguaggio dotato di peso.
Anche l’opera di Cavalcanti è oggetto di analisi per spiegare la rappresentazione della leggerezza. Da questa si deduce che l’autore dissolve la concretezza dell’esperienza tangibile in versi dal ritmo scandito, sillabato, quasi come se il pensiero in qualche modo si staccasse rapidamente dall’oscurità. E Cavalcanti, con la sua opera, chiarisce a Calvino il concetto di Leggerezza. Concetto che si associa con la partecipazione e la determinazione e niente affatto con la vaghezza e l’abbandono al caso. Non diversamente da Paul Valéry che diceva: Il faut être léger come l’oiseau, et non comme la plume [16].
Calvino chiude la prima delle sei lezioni richiamando un racconto di Franz Kafka, Il cavaliere del secchio. Si tratta di un breve racconto scritto nel duro periodo segnato dalla guerra nel 1917 in cui scarseggiava, tra le altre cose, il carbone. Il narratore deve affrontare il freddo e ha urgente necessità di carbone per cui esce nella fredda strada con in mano un secchio vuoto. Improvvisamente il secchio gli fa da cavallo sollevandolo da terra e trasportandolo sopra i piani alti mentre il carbonaio si trova nel sotterraneo. La sua richiesta di poter avere un po’ di carbone non viene accolta. Anzi viene malamente scacciato dalla moglie del carbonaio. Il secchio vuoto, con il suo cavaliere, riprende il volo fino a perdersi oltre le Montagne di Ghiaccio. Il secchio vuoto è simbolo di privazione, di desiderio e di ricerca.
Al percorso intellettuale tracciato da Calvino sulla Leggerezza si può forse connettere la descrizione del “ritorno”, attraverso il ritmo della Lentezza, teorizzato dal sociologo Franco Cassano [17] nel suo Pensiero meridiano [18].
Elogio della leggerezza e elogio della lentezza: due percorsi esistenziali per una relazione profonda con la vita e il mondo interiore e la bellezza dell’umano. E per la sua rappresentazione in scrittura e in letteratura: parole semplici, fluide come una melodia in filigrana, vocaboli che esprimono i concetti aderendo alle cose, che collegano come un ponte il segno visibile al significato invisibile perché «la leggerezza si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso». Non si potrebbe dire meglio e con più precisione. Questa è la perfetta sintesi della leggerezza pensosa. Solo allora l’eleganza della leggerezza tramuterà le catene in ali.
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