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Rifugiati no, lavoratori forse: dove vanno le politiche migratorie in Italia e in Europa

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2023 @ 02:37 In Migrazioni,Politica | No Comments

laika-piantedosidi Maurizio Ambrosini

In questo articolo intendo discutere dei tre principali elementi delle politiche migratorie saliti alla ribalta, in Italia e in Europa, tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023: nel nostro Paese, la guerra alle ONG impegnate nei salvataggi in mare scatenata dal governo Meloni a partire dal suo insediamento; nell’UE, i passi verso una maggiore chiusura nei confronti dei rifugiati prefigurati nel vertice di Bruxelles dei primi di febbraio; sul versante opposto, le caute aperture verso nuovi ingressi di lavoratori di Paesi terzi decise o prefigurate in alcuni Paesi-chiave, e anche nell’ultimo decreto-flussi italiano. 

da Nigrizia

da Nigrizia

La guerra alle ONG come manifesto identitario 

Tra i primi atti del governo Meloni, ha trovato grande rilievo la guerra contro le ONG che salvano le persone in mare. Non è una sorpresa, perché da anni ormai il contrasto verso le organizzazioni umanitarie è un marchio di fabbrica dei nazional-populismi europei, e non solo (Cusumano e Villa 2021). Soggetti indipendenti dal potere statale, spesso basati all’estero, in grado di finanziarsi grazie a donazioni e raccolte di fondi, sono diventati un bersaglio dichiarato per governi che fanno dei confini e della sovranità statuale un valore inscalfibile, superiore alla tutela dei diritti umani, alle convenzioni internazionali, alla Carta delle Nazioni Unite (Ambrosini e von Wartensee 2022).

Di solito sono Stati autoritari, come la Russia di Putin o l’Iran degli ayatollah a perseguitare le ONG, obbligandole a chiudere o a spostarsi all’estero, ma anche governi a guida sovranista come quello di Orbán in Ungheria hanno messo nel mirino le organizzazioni internazionali indipendenti: in quel caso un’università di eccellenza come la Central European University, sotto il pretesto del patrocinio di George Soros.

In Italia, dopo lo scontro con la Francia per il rifiuto di accogliere la nave Ocean Viking, quasi un manifesto inaugurale del nuovo governo, è arrivato all’inizio del 2023 il decreto che ha l’obiettivo di regolamentare le attività di salvataggio delle navi messe in mare dalle ONG. Un dato può servire a cogliere la natura essenzialmente ideologica dell’iniziativa: sui circa 100 mila sbarcati in Italia dalle sponde meridionali del Mediterraneo, appena l’11,2% è stato tratto in salvo dalle navi umanitarie. Tutti gli altri sono arrivati in altro modo: con i propri mezzi anzitutto, poi perché soccorsi da navi mercantili, per finire con i salvataggi operati – in silenzio forzato per ragioni politiche – da Marina militare e Guardia Costiera.

In sostanza il governo ha individuato un bersaglio politicamente visibile e ben identificabile, ma sostanzialmente marginale sul punto in questione. In difficoltà nel marcare l’annunciata discontinuità dal governo Draghi, basti pensare alla tassazione dei carburanti, ha sparato sulle ONG per lanciare un messaggio identitario ai propri elettori e a un pubblico sensibile alle campagne anti-accoglienza.

L’approccio che il governo ha voluto far passare è quello di un’attività di salvataggio intrinsecamente riprovevole e dannosa per il Paese: come se si trattasse di un sistema di trasporto dal profilo oscuro e sospetto, da sottoporre a una regolamentazione stringente. Già Minniti, va ricordato, all’epoca del governo Gentiloni e del picco degli sbarchi dalle coste africane, aveva varato un codice di regolamentazione che aveva allontanato le navi umanitarie dal canale di Sicilia.

Ora le norme introdotte dal governo Meloni hanno puntato a rendere più complesso e costoso il soccorso in mare. Serve a questo l’obbligo di raggiungere “senza ritardi” il porto assegnato dalle autorità italiane, innescando un dibattitto tuttora irrisolto: se dopo aver compiuto un primo salvataggio il capitano riceve un nuovo SOS per soccorrere altri naufraghi, deviando dalla rotta e procrastinando l’approdo, come dovrebbe comportarsi? Dovrebbe abbandonare le persone al loro destino per rispettare l’obbligo dell’immediato rientro in porto? Lo stesso dilemma si pone per l’insistenza sull’idoneità tecnico-nautica: se un salvataggio dovesse soccorrere più persone di quelle autorizzate a salire a bordo, quelle in eccesso dovrebbero essere lasciate affondare?

Un altro vincolo si riferisce all’assegnazione di porti lontani dalle coste meridionali per lo sbarco, sotto il pretesto di decongestionare i porti siciliani o meridionali solitamente utilizzati. In realtà i naufraghi, una volta sbarcati, presentando domanda di asilo vengono rapidamente distribuiti in altre regioni. Non c’è nessun particolare sovraccarico delle regioni interessate, tanto che le navi militari continuano a sbarcare le persone tratte in salvo nei porti dell’Italia meridionale più prossimi al loro campo operativo. Il vero obiettivo è dunque quello di accrescere i tempi e i costi delle operazioni di salvataggio a carico delle ONG.

La norma potenzialmente più insidiosa è però un’altra: il decreto prescrive l’obbligo di informare i naufraghi “della possibilità di richiedere la protezione internazionale”, raccogliendo “i dati rilevanti”. Traspare l’intento di scaricare la responsabilità dell’accoglienza sugli Stati di bandiera delle navi, come peraltro più volte annunciato dai ministri competenti e dai loro supporter mediatici.

Qui si rischia il paradosso: se una nave batte bandiera panamense, i richiedenti asilo dovranno essere inviati a Panama? Come minimo, si provocheranno tensioni con Paesi amici, che accolgono fra altro più rifugiati dell’Italia (25 ogni 1.000 abitanti in Svezia, 14 in Germania, 6 in Francia, meno di 4 in Italia). Sorgono poi problemi sul piano legale: le richieste di asilo vanno presentate alle autorità statali, che hanno il potere di verificare l’identità delle persone e l’autenticità delle loro dichiarazioni. È alquanto problematico che possano esserne incaricati dei soggetti privati, sprovvisti di una veste giuridica idonea e concentrati su complesse attività di salvataggio e di prima assistenza.

L’inosservanza delle norme comporta severe sanzioni pecuniarie. Può apparire un progresso rispetto alle conseguenze penali introdotte dal primo governo Conte, su iniziativa dell’allora ministro Salvini: basti ricordare l’arresto e il successivo processo contro Carola Rackete, sebbene concluso con la vittoria dell’accusata. In realtà però con le nuove norme le sanzioni sono irrogate dai Prefetti, quindi tramite loro direttamente dal governo, evitando il ricorso alla magistratura e procedendo con tempi molto più rapidi.

È un altro modo di criminalizzare la solidarietà, altra tendenza da tempo riscontrabile nel teatro del controllo dei confini (Queirolo Palmas e Rahola 2020). film-le-nuotatrici-netflixVi hanno fatto ricorso per esempio le autorità greche, arrestando attivisti e soccorritori sull’isola di Lesbo, in modo da conseguire l’obiettivo di allontanare le ONG impegnate nei soccorsi e nel monitoraggio dei comportamenti delle guardie di frontiera. Tra i 24 accusati, la nuotatrice siriana Sarah Mardini, divenuta celebre come protagonista di un film, “Le nuotatrici”, che ha passato tre mesi in carcere preventivo nel 2018. Per loro si è mossa anche l’ONU, chiedendo di ritirare le accuse a chi ha salvato la vita di molti profughi. Dopo l’annullamento di uno dei processi per vizi procedurali, all’inizio del 2023, restano in piedi contro di loro accuse tanto gravi quanto incredibili: traffico di persone, frode, concorso in un’organizzazione criminale e riciclaggio di denaro.

Neppure la Francia si è tirata indietro, mandando a processo l’agricoltore-attivista Cédric Herrou che accoglieva in val Roja sui suoi terreni i profughi in transito dal confine italiano: in quel caso però la Corte Costituzionale transalpina ha solennemente affermato che il principio di fraternità meritava lo stesso grado di tutela di quelli di libertà e uguaglianza, liberando le attività umanitarie dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione illegale.

In Italia gli episodi non sono mancati: oltre ai vari processi contro le ONG, si possono ricordare le azioni giudiziarie contro gli attivisti romani di Baobab che accoglievano i migranti in transito alla stazione Tiburtina e li aiutavano a proseguire il viaggio verso il Nord Europa, o gli anziani coniugi triestini Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, che accoglievano chi arrivava dalla rotta balcanica, e persino contro un religioso, il prete eritreo padre Mussie Zerai Yosief, che riceveva sul suo telefono gli appelli delle persone in mare e li smistava ai soccorritori. Finora i processi si sono sempre conclusi con l’assoluzione degli imputati, ma l’obiettivo delle autorità non appare quello di arrivare a delle condanne che esalterebbero dei martiri, quanto piuttosto quello della deterrenza, di scoraggiare e disperdere volontari, attivisti, organizzazioni solidali.

La persecuzione delle ONG e dell’attivismo solidale si salda infatti con la criminalizzazione degli stessi richiedenti asilo, definiti “arma ibrida” al confine tra Polonia e Bielorussia, o “animali” da Donald Trump. Meno violenta, ma ugualmente priva di umanità, la definizione di “carico residuale” adottata dal ministro Piantedosi. Le persone scompaiono, la loro appartenenza al genere umano diventa evanescente, l’obbligo di soccorrerle è ridefinito come secondario. Difatti, se il governo volesse salvare i naufraghi senza lasciare spazio alle ONG che tanto aborrisce, potrebbe organizzare un’altra operazione Mare Nostrum, mobilitando la Marina Militare. Ma un’ipotesi del genere non è stata neppure accennata.                                                        

europa-distruzioneIl sovranismo avanza anche a Bruxelles

Il vento sovranista soffia anche a Bruxelles. Il vertice europeo del 9 febbraio non ha assunto decisioni operative, ma ha indicato una direzione di marcia. Le parole chiave sono rimpatri, controllo delle frontiere, collaborazione con i Paesi di origine e di transito per contrastare gli ingressi. Il vertice era stato preceduto da una lettera di Ursula von der Leyen, che ha nuovamente tentato di prendere l’iniziativa sull’argomento dopo un paio di piani rimasti nel cassetto. A ogni nuova sortita, il suo approccio s’indurisce e, malgrado i toni tecnocratici e le scelte lessicali felpate, si avvicina sempre più alle istanze dei governi sovranisti.

C’è d’altronde un dato di fatto, che da anni grava sulle politiche europee dell’immigrazione, fornendo munizioni al partito della chiusura: lo scarso successo delle misure di espulsione. I governi dell’UE nel 2021 avevano emesso 342 mila decisioni di rimpatrio di cittadini di Paesi terzi, spesso richiedenti asilo che avevano ricevuto una risposta negativa alla loro istanza. Di questi, secondo Eurostat, soltanto 80 mila, quindi meno di un quarto, erano effettivamente rientrati nei Paesi di origine. Non è andata meglio nel 2022: nel terzo trimestre i rimpatri hanno coinvolto 32mila persone, su quasi 110 mila ordini di allontanamento (Euronews).

L’insuccesso dipende da vari fattori, come la difficoltà a identificare con certezza persone prive di documenti e senza nessun interesse a rivelare la propria vera provenienza. Non mancano i casi di migranti che si feriscono per evitare l’espulsione, oppure rimuovono dolorosamente le impronte digitali pur di rendersi inidentificabili (Ellermann 2010). Le autorità governative tuttavia insistono soprattutto sulla scarsa collaborazione dei Paesi di origine (Cassarino 2020), che a loro volta non hanno interesse a riammettere i propri cittadini, e men che meno se hanno commesso dei reati all’estero. Nessun paese democratico può vantare grandi successi in materia di espulsioni (Spencer e Triandafyllidou 2020), anche per i costi che i rimpatri comportano, soprattutto quando dovrebbero raggiungere destinazioni lontane. Gli USA ne realizzano più degli europei, ma si tratta di porte girevoli: una volta riportati in Messico, i migranti ritentano di passare la frontiera finché non ci riescono.

Un altro dato su cui la Commissione dell’UE ha insistito è l’aumento degli ingressi irregolari (non dei flussi migratori, come spesso si dice, confondendo fenomeni diversi): nel 2022 ne sono stati registrati 924 mila, con un aumento del 50% rispetto al 2021. È la cifra più alta dal 2016, quando la guerra in Siria provocò la maggiore ondata di profughi degli ultimi decenni, prima della guerra in Ucraina.

L’argomento sembra obiettivo e rispondente a una visione asettica e razionale del governo delle migrazioni, ma la Commissione evita di tenere conto di almeno tre fattori. Anzitutto, chi fugge in cerca di asilo non riesce quasi mai a viaggiare con documenti regolari, anche perché i governi dei Paesi sviluppati si guardano bene dal fornirglieli: non autorizziamo ingressi regolari e poi biasimiamo gli ingressi non autorizzati. In secondo luogo, il 2022 è stato il primo anno di spostamenti relativamente liberi, dopo due anni di impedimenti alla mobilità transfrontaliera a causa del Covid-19. In terzo luogo, diverse regioni del mondo sono teatro di aspri conflitti, oltre all’Ucraina: la Siria è ancora senza pace, e ora alle prese con le conseguenze di un terremoto devastante, l’Afghanistan riconquistato dai talebani conosce un incessante esodo di profughi, in Africa vecchie e nuove guerre insanguinano il continente, dall’Etiopia al Congo, dal Sud Sudan alla Nigeria, dove imperversa Boko Haram, dalla Repubblica Centrafricana al Sahel, dove avanza la minaccia jihadista.

Il punto più controverso del piano von der Leyen, e delle conclusioni del vertice di Bruxelles, riguarda il controllo delle frontiere esterne. Il comunicato finale invita la Commissione a «finanziare misure da parte degli Stati membri che contribuiscano direttamente al controllo delle frontiere esterne dell’Ue», nonché di  «progetti pilota di gestione delle frontiere». Non è stato chiarito se si tratti di finanziare con denaro comunitario la costruzione di muri e barriere, già del resto eretti da vari governi nazionali con propri fondi. Per molti commentatori, è un cambiamento di linea da parte di Bruxelles, finora ufficialmente contraria ai muri, ma ora quanto meno possibilista. Von der Leyen è stata elusiva, mentre la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, pur escludendo il finanziamento dei muri, ha ammesso che i fondi UE potranno servire ad allestire torrette, posti di guardia, strade di collegamento e altre infrastrutture di sorveglianza. Se anche Bruxelles non finanzierà materialmente dei muri, ha sostanzialmente aderito alle posizioni che li invocano.

confine-muro-1024x576Un altro punto richiamato dal comunicato conclusivo del summit si riferisce al «rafforzamento del controllo delle frontiere nei Paesi chiave sulle vie di transito verso l’Unione europea». L’Ue intende dunque sviluppare la dimensione esterna delle politiche migratorie, impiegando il suo potere economico e la sua influenza politica per spingere ancora di più i Paesi confinanti a pattugliare le frontiere per suo conto. È il modello degli accordi con Paesi come Turchia, Libia e Niger che si vorrebbe potenziare ed estendere, anche allargando il raggio di azione della discussa agenzia Frontex, che ha riscosso elogi pubblici nel corso del vertice. Ursula von der Leyen, nella lettera che ha preceduto l’incontro di Bruxelles, aveva già sottolineato la volontà di offrire supporto, sotto forma di attrezzature e formazione, ai governi della sponda Sud del Mediterraneo, al fine di «rafforzare la loro capacità di ricerca e soccorso». Il linguaggio è molto accorto, ma la sostanza consiste nel delegare i salvataggi a governi come quello libico, fornendoli di motovedette e altri mezzi, affinché riportino verso le coste africane chi cerca di raggiungere l’Europa via mare. Uno scenario già visto, che si vorrebbe estendere e rafforzare.

Grande enfasi viene poi dedicata alla questione dei rimpatri. La Commissione intende investire sulla partita il 10% dei fondi destinati ai Paesi terzi, negoziando accordi per lubrificare la macchina delle espulsioni, con una lista di Paesi in cui figurano quelli rivieraschi (Tunisia, Marocco, Egitto), i Paesi africani più esposti (Nigeria) e alcuni Paesi asiatici instabili da cui partono flussi di migranti (Pakistan, Bangladesh). Fondi che dovrebbero essere destinati a finanziare progetti di sviluppo verranno quindi dirottati verso governi dai dubbi standard democratici, per guadagnarne una maggiore disponibilità ad accettare il rientro dei loro cittadini cacciati dall’UE. Cerca di addolcire almeno in parte l’inasprimento della politica delle espulsioni un accenno al potenziamento dei rimpatri volontari assistiti, ossia la corresponsione di aiuti (modesti) ai migranti non autorizzati che accetteranno più o meno spontaneamente di essere rimandati indietro.

Alla questione dei rimpatri si collega un meccanismo di respingimento rapido che von der Leyen pudicamente ha chiamato “snellimento delle procedure di frontiera”: l’idea è quella di armonizzare il trattamento delle domande di asilo, sulla base di una lista uniformata di Paesi definiti “sicuri”, ossia assolti per principio dall’accusa di violazione dei diritti umani. I loro cittadini verranno di conseguenza esclusi fin da subito dalla possibilità di ottenere asilo. Al di là delle frontiere dell’UE la Commissione di Bruxelles vorrebbe invece istituire degli hotspots, obbligando i profughi a presentare le domande di asilo presso questi presidi, senza varcare la frontiera, un po’ come accade già oggi in Messico, su pressione del governo statunitense. Non è chiaro però che cosa accadrà a chi riceverà un diniego, chi se ne farà carico, quali diritti potrà rivendicare e presso chi, se per esempio si ammala.

La premier Meloni ha dichiarato grande soddisfazione per i risultati del vertice, e ne ha dal suo punto di vista delle buone ragioni. C’è però un punto dell’agenda che dovrebbe preoccuparla. Riguarda la prevenzione dei movimenti secondari, ossia i passaggi delle frontiere interne dell’UE da parte delle persone che hanno chiesto asilo in un primo Paese dell’Unione: tipicamente quindi i passaggi delle Alpi da parte dei profughi sbarcati in Italia. La Francia per esempio ne conta circa 30 mila. Il regolamento di Dublino impone come è noto al primo Paese di farsene carico e autorizza gli altri a rispedire lì quanti tentano di accedere al loro territorio. Ora l’UE vorrebbe restringere ancora di più anche questi spostamenti, danneggiando gli interessi italiani.

Il vertice non ha neppure più menzionato, nel suo comunicato finale, la solidarietà volontaria tra i Paesi membri per la redistribuzione dei rifugiati, né una loro suddivisione in quote, come l’Italia reclama da anni. Del resto, gli alleati politici sovranisti del governo italiano sono i più fieri avversari di questa ipotesi. Incapace di redistribuire i rifugiati, l’UE ha deciso di non farli arrivare affatto.

coronavirus-mancano-braccianti-stranieri-in-vignaSi cercano braccia: la cauta apertura nei confronti dei lavoratori 

L’ambito in cui si scorgono spiragli di novità potenzialmente positive nelle politiche dell’immigrazione dei grandi Paesi dell’UE è quello degli ingressi autorizzati per lavoro. Per circa cinquant’anni, dal primo choc petrolifero degli anni ’70 del secolo scorso, la nuova immigrazione per lavoro era stata ufficialmente bandita. Rimanevano aperte le porte agli immigrati qualificati, per esempio in ambito sanitario, a un certo numero d’immigrati stagionali, e poco altro. Nel nuovo secolo, l’immigrazione dai nuovi Paesi entrati nell’UE, come Polonia, Romania, Bulgaria, ammessa nel giro di qualche anno alla piena libertà di movimento,  per un certo periodo ha soddisfatto le richieste dei mercati del lavoro dei Paesi della vecchia UE bisognosi di manodopera, tra cui l’Italia. Altri canali, come i ricongiungimenti familiari (Francia) e l’accoglienza di rifugiati (Germania, Svezia), assumevano in modo indiretto anche il compito di rifornire di manodopera il sistema economico.

Ora però, nel contesto post-pandemico, le vecchie ricette stanno mostrando la corda. I datori di lavoro un po’ ovunque lamentano di non trovare i lavoratori di cui hanno bisogno, e dall’Est a quanto pare non arrivano più candidati in numero sufficiente. Così Germania, Francia e Spagna stanno correndo ai ripari.

La Germania, con la sua robusta economia, è stata la prima a imboccare, sebbene con prudenza, la strada di una nuova politica degli ingressi. Una nuova legge, uscita nel 2022, punta ad attrare lavoratori in possesso di competenze utili al sistema economico tedesco. Persone dotate di diplomi che attestino la loro qualificazione, conoscano sufficientemente la lingua tedesca, dispongano di un alloggio, siano in grado di mantenersi durante il periodo di ricerca di un’occupazione. La legge viene ritenuta ancora timida da molti esperti, irta di complicazioni burocratiche.  D’altronde la previsione governativa di ammettere 25 mila lavoratori all’anno rimane lontana dalle stime dei fabbisogni, che superano il milione di posti vacanti. È importante però il segnale, in una materia in cui messaggi e narrazioni hanno più che mai il potere di plasmare le visioni e quindi le decisioni politiche. La Germania peraltro, in modo più discreto, si è già dotata di un meccanismo per integrare nel sistema occupazionale i richiedenti asilo diniegati, mediante corsi di formazione e accordi con le imprese, aggiungendosi ai 400 mila siriani che in breve tempo hanno trovato un lavoro in Germania, seppure di solito scarsamente qualificato. I nuovi rifugiati, come in passato, si stanno rivelando una risorsa per rispondere alla richiesta di manodopera nelle fasce basse del mercato del lavoro tedesco.

Il governo francese ha recentemente assunto un’iniziativa che va nella medesima direzione. A fronte di un sistema d’ingressi legali per lavoro restrittivo e inefficiente, i ministri degli interni e del lavoro hanno anticipato una proposta, che verrà discussa nella primavera del 2023: l’introduzione di un permesso di soggiorno per i “mestieri sotto tensione”, destinato agli immigrati irregolari già presenti, che troverebbero impiego, o l’hanno già trovato informalmente, laddove manca manodopera. Si rafforzerebbe così la corsia già in vigore delle regolarizzazioni caso per caso. Forse un nuovo strumento normativo neppure servirebbe, ma la proposta ha un significato culturale: mostrare che la Francia è di nuovo pronta ad accettare l’immigrazione per lavoro.

La Spagna conferma a sua volta un’apertura a soluzioni pragmatiche e liberali in materia di politiche migratorie (Schweitzer 2022). Nell’agosto 2022 ha introdotto nuove norme per agevolare l’ingresso di lavoratori da Paesi terzi richiesti dal sistema produttivo. Le complesse procedure fin qui previste sono state parecchio alleggerite, soprattutto per il settore edile. Anche per chi è entrato nel Paese per motivi di studio o per un tirocinio formativo è ora più facile lavorare legalmente. La Spagna dispone già, inoltre, di procedure piuttosto generose per regolarizzare caso per caso chi non dispone di un permesso di soggiorno idoneo, e per evitare che gli immigrati rimasti senza lavoro cadano nell’irregolarità.

I maggiori Paesi dell’UE si stanno quindi riaprendo all’immigrazione per lavoro. Il governo italiano a sua volta con il decreto-flussi 2023 ha alzato la quota degli ingressi per lavoro autorizzati, portandola sopra quota 80 mila, sebbene destinati in prevalenza al lavoro stagionale. Per non smentire del tutto le proprie premesse ideologiche ha però introdotto alcuni paletti, che insieme alle complicazioni burocratiche persistenti rischiano di compromettere la potenziale apertura: anzitutto la verifica della disponibilità di disoccupati percettori di reddito di cittadinanza, addirittura allargata a tutto il territorio nazionale, per i posti di lavoro vacanti segnalati dai datori di lavoro ai fini della concessione dell’autorizzazione all’ingresso; in secondo luogo, lo scambio tra quote d’ingresso e accettazione dei rimpatri degli immigrati espulsi. Sono due mosse sbagliate, che strizzano l’occhio alla xenofobia e non rispondono alle esigenze delle imprese. Soprattutto, rivelano la mancanza di una visione lungimirante e inclusiva, in grado di manifestare l’interesse del nostro Paese ad accogliere e valorizzare nuove energie. 

211911061-1d709740-604d-4fd3-a293-2ceebcfc64dfConclusioni. Un’economia più accogliente della politica 

La direzione di marcia delle politiche migratorie in questa fase appare piuttosto chiara a livello europeo e più confusa e ideologicamente sovraccarica, ma a grandi linee consonante, a livello nazionale. L’UE appare sostanzialmente bloccata sul terreno dell’accoglienza e dei diritti umani, ufficialmente a causa del veto dei governi sovranisti del gruppo di Visegrad, ma con sostanziale consenso anche da parte di governi dell’Europa occidentale dal linguaggio più moderato, come quello austriaco, il più esposto, quello danese, quello olandese, ultimamente quello svedese e ora anche quello italiano. Anche in Germania il pendolo sta oscillando verso una maggiore chiusura, con la svolta a destra dei cristiano-democratici, mentre in Francia Macron sente il peso della concorrenza del Front National.

Incapace di accordarsi su una riforma della convenzione di Dublino e su una maggiore condivisione dell’accoglienza dei rifugiati, l’UE sembra trovare un accordo soltanto sul terreno di una maggiore chiusura dei confini, finendo per prefigurare soluzioni, come quella dei muri, fino al recente passato ufficialmente aborrite. Fa riflettere l’enfasi posta dalla Commissione UE sugli obiettivi del rafforzamento dei confini, dei rimpatri, dell’esternalizzazione delle frontiere con il coinvolgimento dei Paesi confinanti, della cooperazione con i Paesi di origine, finalizzata non allo sviluppo ma all’accoglienza delle persone espulse. Un’agenda all’insegna del contenimento dell’impegno umanitario, in stridente contrasto tra l’altro con la generosa accoglienza dei profughi ucraini. Di suo il governo italiano aggiunge la guerra contro le ONG, che non ha ragioni di merito, ma serve a riaffermare una bandiera ideologica apparentemente gradita agli elettori, e ribadisce una volontà di criminalizzare azioni di solidarietà contro i confini (Ambrosini 2022).

I fabbisogni delle economie europee si contrappongono però a questa deriva antiumanitaria. Gli idraulici polacchi che avevano spaventato gli elettori francesi e britannici sono stati in realtà per un paio di decenni un salvagente per mercati del lavoro in affanno per carenza di offerta, perlomeno in alcuni segmenti che più di altri hanno manifestato una divaricazione tra i lavori proposti dai datori e quelli desiderati dai cercatori di occupazione. Ora questa valvola di sfogo sta esaurendosi, proprio quando la ripresa post-Covid ha generato una richiesta di braccia, e non solo: la stessa Polonia è diventata un Paese d’immigrazione, e anche Romania e Bulgaria stanno marciando nelle stessa direzione. Di qui l’apparente schizofrenia di un’Europa che chiude le frontiere ai rifugiati, mentre diversi governi nazionali vorrebbero aprirle ai lavoratori. L’Italia segue, ma condizionata dal sovraccarico ideologico che grava sulle politiche dell’immigrazione.

Concludendo, una proposta. Poiché i decreti flussi servono sostanzialmente a far emergere lavoratori già in realtà entrati sul territorio nazionale, gli esempi spagnolo e francese potrebbero fornire una soluzione pragmatica che semplificherebbe la procedura lunga, complessa e costosa oggi necessaria: regolarizzare caso per caso, a certe condizioni (anzianità di residenza, datore di lavoro disponibile, soluzione alloggiativa predisposta), i lavoratori sommersi in attesa di poter finalmente accedere a un pacchetto di diritti che da molti anni consideriamo inderogabili.

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023 
Riferimenti bibliografici 
Ambrosini M. (2022), Humanitarian Help and Refugees: De-Bordering Solidarity as a Contentious Issue. Journal of Immigrant & Refugee Studies, DOI: 10.1080/15562948.2022.2059823
Ambrosini M. e   Schnyder von Wartensee I. (2022),  Actions speak louder than claims: humanitarian corridors, civil society and asylum policies,Journal of Ethnic and Migration Studies. DOI: 10.1080/1369183X.2022.2050192
Cassarino J.P. (2020), Are Current “Return Policies” Return Policies? A Reflection and Critique, in R. Skeldon and T. Bastia (a cura di), Routledge Handbook of Migration and Development. New York: Routledge: 343-352.
Cusumano, E., & Villa, M. (2021), From “angels” to “vice smugglers”: The criminalisation of sea rescue NGOs in Italy, European Journal on Criminal Policy and Research, 27(1): 23-40.
Ellermann A. (2010),Undocumented Migrants and Resistance in the Liberal State. Politics & Society, 38(3): 408–429.
Queirolo Palmas L. e  Rahola F. (2020), Underground Europe. Lungo le rotte migranti, Milano: Meltemi.
Schweitzer R. (2022), Micro-Management of Irregular Migration, Springer.
Spencer S. e Triandafyllidou A. (a cura di) (2020), Migrants with Irregular Status in Europe. Evolving Conceptual and Policy Challenges, Springer.

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Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni presso l’Università di Milano, insegna da diversi anni anche nell’università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova e dirige la rivista “Mondi migranti” e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. Fa parte del CNEL, dove è responsabile dell’organismo di coordinamento delle politiche per l’integrazione dei cittadini stranieri. Autore di diversi studi, ha pubblicato recentemente L’invasione immaginaria (Laterza 2020) e Altri cittadini. Gli immigrati nei percorsi della cittadinanza (Vita e Pensiero, 2020).

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