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Reti Cas e Sprar: due diverse prospettive nel sistema di accoglienza

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SPRAR di Roccaraso

 di Carolina Galli

Da poco tempo in vigore il decreto n. 113/2018, che riporta “Disposizioni urgenti” in materia di protezione internazionale e immigrazione e sicurezza pubblica, è già oggetto di acute critiche. La dicitura con cui è chiamato il decreto “sicurezza e immigrazione” lascia percepire l’obiettivo del testo e l’ambito di intervento. Focalizziamo in questa sede l’attenzione su una delle disposizioni del testo, quella che interviene sul numero di posti Sprar (Sistema Richiedenti Asilo e Rifugiati) restringendo i requisiti per chi può beneficiarne e limitando, di fatto, il numero di persone per cui potrebbe essere rivolto questo tipo di accoglienza fino, praticamente, alla sua quasi eliminazione. Ci si propone di capire se questo provvedimento risponde all’esigenza di reale sicurezza confrontando i due sistemi di accoglienza Sprar e CAS (centri di accoglienza straordinari).

L’attuale sistema Sprar nasce nel 2001 come rielaborazione di un’esperienza di accoglienza realizzatasi a fine anni 90 nel nord-est d’Italia, dopo i consistenti arrivi di persone dal Kosovo. Negli anni, questa rete di accoglienza ha avuto modo di strutturarsi e modificarsi a seguito dei cambiamenti storico-politici, per rispondere alle esigenze sociali vissute dai territori, in relazione alle presenze e al crescere del numero di domande formalizzate di richiesta di asilo e per motivi umanitari. Tale sistema di accoglienza, nonostante abbia realizzato un ampliamento in termini di qualità e quantità, non è stata la risposta più adatta ed efficiente a fronteggiare la crescente necessità di dare accesso a persone prive di qualsiasi strumento di auto sussistenza.

Dai dati riportati dal Servizio Centrale, lo Sprar ha attualmente una capienza di circa 35.800 posti su tutto il territorio italiano. Un numero irrisorio se consideriamo che il sistema parallelo dei CAS (centri di accoglienza straordinaria), nato nel 2014 come soluzione temporanea ed emergenziale, conta un numero di posti pari a circa 130 mila unità (ANCI et al, 122). Alla luce di questi numeri, lo Sprar, nato come sistema ordinario, si è trovato negli anni ad essere extra-ordinario per pochi “fortunati” che casualmente si trovavano ad avere un posto al suo interno come richiedenti asilo o come titolari di una delle forme di protezione internazionale e per motivi umanitari. Il lento ampliamento della rete Sprar, rispetto a quella della rete CAS, non è dovuto alla sua inefficienza in termini qualitativi, quanto piuttosto a scelte politiche nazionali e locali effettuate negli anni. A livello nazionale la scelta si esplicita soprattutto sul piano finanziario ripercuotendosi anche sulle scelte degli attori locali.

Nel 2015, secondo i dati del “Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia” del Ministero dell’Interno, sono stati finanziati 242.5 milioni di euro per la rete Sprar rispetto ai 918.5 milioni di euro per l’altro sistema “temporaneo”. Sono considerate anche le scelte degli attori politici locali, perché entro i finanziamenti stanziati dal livello nazionale, i centri Sprar aprono a seguito dell’adesione dei singoli Comuni alla rete. Sulla totalità dei Comuni presenti in Italia, quelli che attualmente aderiscono al sistema Sprar non arrivano al 20%, contando all’incirca poco più di 1200 centri (Anci et al).

La qualità dei servizi offerti dallo Sprar risulta essere più alta rispetto a quella dei CAS e quindi con costi superiori. Nell’esperienza quasi ventennale del progetto, ad oggi sono stati redatti manuali per definire i ruoli delle strutture, i servizi che devono essere forniti al loro interno, le figure professionali che compongono l’équipe di lavoro, gli strumenti di monitoraggio e supporto di questa (come la supervisione) per garantire qualità nello svolgimento dell’operato. Inoltre, a livello nazionale, è stato fissato l’obiettivo macro del progetto, l’autonomia delle persone e l’inserimento nel tessuto locale, definendo come strumenti per il suo raggiungimento percorsi individualizzati attraverso i quali sono ridefiniti e co-concordati con la persona dei micro-obiettivi. Sono state definite, inoltre, le aree di intervento su cui puntare per il raggiungimento dell’autonomia dei soggetti come l’orientamento socio-sanitario, lavorativo, legale e abitativo. Per ogni ambito sono definite su manuali di rendicontazione le voci di spesa e i budget disponibili per ciascuna di queste e le modalità di impiego.

1Diversamente dallo Sprar, nei CAS al richiedente asilo, beneficiario dell’accoglienza, sono forniti dall’ente gestore, come previsto dallo schema di capitolato di appalto 2017 (Ministero dell’Interno), i servizi minimi di vitto e alloggio, assistenza-giuridica, iscrizione al servizio sanitario nazionale nonché i prodotti per l’igiene personale, ma la rendicontazione non è puntuale come nello Sprar. Inoltre, se nello Sprar il richiedente asilo o titolare di una forma di protezione lavora con contratto regolare gli sono tolti gradualmente alcuni contributi come il pocket money, mantenendo un contributo pasto di cinque euro giornalieri se risulta assente durante i momenti di pranzo o cena al centro, nei CAS la persona può lavorare rischiando di perdere il suo posto in accoglienza, se percepisce anche solo per una mensilità uno stipendio superiore al valore dell’assegno sociale.

In conclusione, nella realtà dei fatti i servizi nei CAS, oltre il vitto e l’alloggio, e la qualità con cui sono forniti, sono a discrezione dell’ente gestore, come dimostra la «pessima esperienza che complessivamente ci consegna l’analisi delle strutture straordinarie» (ASGI, 2018). Un esempio, ma non unico tra le varie inchieste emerse negli ultimi anni su tutto il suolo nazionale, è quello risalente all’agosto scorso sul territorio fiorentino, che ha visto coinvolti alcuni personaggi di consorzi e cooperative per frode nelle pubbliche forniture nei centri di accoglienza. Difformemente dal CAS, nell’operatività del sistema Sprar le spese devono essere dettagliatamente giustificate con moduli di consegna intitolati al beneficiario riportanti la sua firma e una fattura che le giustifichi. Nella pratica sono fatti firmare moduli alle persone che vivono nel centro Sprar per la consegna di beni di qualunque necessità, per il pocket money o qualunque altra forma di compenso (come il “sostegno alloggio” successivo all’uscita dal progetto), preferibilmente effettuati tramite transazioni bancarie, in modo da lasciare tracciabilità dei movimenti economici.

Se questo da una parte mina, nel lavoro quotidiano, la relazione con gli operatori che hanno visto burocratizzare sempre di più il tempo lavorativo e le relazioni con le persone che hanno a carico, dall’altra parte «esclude per gli enti gestori alcun margine di guadagno» (ASGI, 2018). Il percorso esperienziale della rete Sprar seppur non efficiente in termini numerici, rappresenta comunque un modus operandi dinamico, sul quale quanto meno è stato finora perseguito un discorso dialettico verso la sua efficienza in termini economici e di servizi forniti. Nonostante l’esperienza di questa rete, seppur non ultimata, ma in corso di ottimizzazione, il decreto appena approvato su sicurezza e immigrazione decide ancora una volta di favorire il sistema straordinario riducendo i posti del sistema Sprar, escludendo da tale circuito i richiedenti asilo e i titolari di protezione umanitaria [1].

Se leggessimo quanto detto sotto la lente dei diritti democratici e dei valori della nostra Costituzione, è certo che definiremmo queste scelte illogiche, ma il paradosso è che potremmo ugualmente definirle tali se utilizzassimo una sguardo che privilegia l’attenzione alla sicurezza. Alla luce dell’analisi finora effettuata, la scelta di governo di favorire la rete CAS non risponde alla logica di protezione e sicurezza dei servizi pubblici da infiltrazioni o mala gestione del sistema di accoglienza; potrebbe invece essere giustificata se pensassimo alla sicurezza intesa come sicurezza sociale, in linea con il discorso politico, che individua nei richiedenti asilo potenziali persone socialmente pericolose. Ma se scendiamo più dettagliatamente nell’analisi, anche per questa linea la scelta di favorire la rete CAS sembra contraddirsi con gli obiettivi di governo, senza ugualmente rispondere alla logica di sicurezza.

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Sprar, Corsi per stranieri

Consideriamo il sistema di accoglienza che si è affermato come prassi in Italia. Una persona che fa domanda di protezione, verificata la mancanza di strumenti per l’autosussistenza, è immessa nel circuito CAS, per poi passare, una volta ottenuto un permesso (attualmente solo di protezione sussidiaria e di asilo), nel circuito Sprar se ci sono posti disponibili. In altri casi invece il richiedente, senza una logica ben precisa, è (era, ormai) immesso direttamente in un circuito Sprar. Nel tempo di permanenza nei CAS la persona è chiamata a formalizzare la domanda di protezione internazionale in questura e ad attendere che l’organo competente (Commissioni Territoriali) la convochi per ascoltare la sua storia e che le notifichi la risposta alla sua domanda in termini di rigetto o accoglienza, riconoscendo in quest’ultima ipotesi il diritto di titolarità di uno degli status di protezione. In questo periodo, all’interno dei centri di accoglienza straordinari, alla persona non è chiesto che aspettare. Infatti, in media vediamo stanziare un richiedente asilo in un CAS per circa un anno (Anci et al.), pari al tempo che trascorre dal momento della formalizzazione all’esito, di più se la domanda è rigettata e se il suo percorso prosegue come ricorsista avverso la decisione della Commissione.

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Centro di accoglienza, Capo Rizzuto

Possiamo pensare il percorso migratorio suddivisibile in diverse fasi, che hanno ciascuna dei micro obiettivi, volte a raggiungere un obiettivo finale. Se tale obiettivo del progetto migratorio si realizza in Europa, la fase dell’accoglienza può essere considerata una delle ultime. Ogni persona, intesa come soggetto in trasformazione che vive il presente a partire dal proprio vissuto, esperisce la realtà e reagisce differentemente ai nuovi contesti ambientali e sociali in cui è inserito contribuendo alla loro costruzione e subendo una trasformazione sul proprio io. Allora è frequente che l’obiettivo di questa fase divenga l’acquisizione di un documento e l’affrontare il tempo strategicamente per il suo ottenimento. Consideriamo, inoltre che, se in tutte le fasi del progetto migratorio le risorse proprie del soggetto possono avere un impatto sulla durata e il tempo di ognuna (es. lavorare in un Paese per avere i soldi per pagare i passeur e oltrepassare il confine), nella fase di arrivo nel Paese di destinazione il soggetto e le sue capacità contano ancora meno, rispetto alle altre fasi, nel ridurre il tempo di attesa. Il riconoscimento di titolarità di protezione internazionale non si basa sulle risorse attivabili dal soggetto. È in questo tempo, spesso vuoto, liminare e sospeso “di attesa”, il cui esito non è certo e il cui margine temporale non è chiaro, che l’individuo può subire un disorientamento spazio-temporale così forte da avere grave impatto sulla percezione di sé e di conseguenza sulle modalità con cui vive ambienti, situazioni e persone che si trova attorno. In questa situazione di impasse la rivisitazione del proprio progetto può trasformarsi in un vero e proprio stallo del progetto stesso e della propria vita.

A questo proposito, risulta interessante lo studio condotto da Medici Senza Frontiere che tenta di rilevare le condizioni psicologiche di persone che vivono la realtà dei CAS e l’attesa del documento. L’indagine, condotta da luglio 2015 a febbraio 2016, ha preso come campione un gruppo di 387 richiedenti asilo, residenti nei CAS delle province di Milano, Roma e Trapani. Tra i soggetti analizzati in questo studio il 60,5% presentava problematiche di salute mentale, il 42% mostrava disturbi compatibili con post-traumatic stress disorder, il 27% manifestava ansia, mentre il 19% depressione . Tra i pazienti presi in carico, «l’87% (173/199) ha dichiarato di soffrire per le difficoltà legate alle condizioni di vita attuali» (Msf 2016, 2).

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Sprar, cantiere scuola-lavoro

È legittimo pensare che la persona, permanendo in uno stato di attesa, oltretutto forzatamente passiva, perda, con gradi di intensità diverse, la capacità di gestire alcuni aspetti della propria vita. Durante la mia attività in un centro Sprar ho avuto modo di assistere ad alcuni colloqui d’ingresso. Nel corso di questi appuntamenti il referente di struttura e quelli delle varie aree si incontrano con il soggetto accolto ed eventuale mediatore per presentarsi e firmare un patto-contratto che definisce impegni reciproci. Oltre alla spiegazione dei servizi offerti e del regolamento della struttura, viene spiegato il progetto Sprar in una dialettica di contrapposizione al CAS, realtà che la persona ha finora vissuto. Il fatto che maggiormente colpiva, perché paradossale, è che si dovesse ricordare al soggetto di essere parte attiva della sua vita, spiegandogli (ricordandogli) che «mentre nei CAS aspetti che qualcosa venga da fuori, qua sei te che agisci e devi essere attivo». Era chiaramente giustificato il concetto considerando che negli ultimi anni il soggetto era stato spettatore passivo della propria vita. In questa logica i CAS, con le eccezioni positive che esistono, aggiudicabili unicamente ai gestori e ai lavoratori, sono spazi di attesa entro i quali l’incubazione e l’alimentazione di sentimenti di frustrazione, stress e immobilità, potrebbero apportare alla persona, che li vive, deterioramento di alcune capacità e risorse esistenziali

Mettendo a confronto i due tipi di reti di accoglienza, quella dei CAS e quella degli Sprar, osservandone la nascita e l’esperienza, siamo venuti a comprendere come finora siano stati favoriti i sistemi straordinari o emergenziali a danno della sostanziale qualità dei servizi. Abbiamo visto che la qualità pretende costi più alti, una maggiore regolamentazione e una rendicontazione più dettagliata, lasciando meno possibilità, però, di infiltrazioni nella gestione complessiva  dell’accoglienza. Investire sul sistema straordinario significa avere un sistema meno regolamentato e controllabile in termini di gestione e minimi standard qualitativi, ma significa soprattutto alimentare quegli ambienti che potenzialmente possono portare le persone che li vivono a sopravviversi in stato di malessere, avendo conseguenze psicologiche, coltivando sentimenti di rabbia e di emarginazione. Alla luce di tutto questo, sotto un punto di vista che privilegia la sicurezza pubblica, sarebbe lungimirante continuare a sostenere l’esperienza Sprar. La modifica apportata dall’ultimo decreto, ovvero la riduzione dei posti Sprar e il restringimento dei requisiti per beneficiare di questo tipo di accoglienza, e al contrario il sostegno al circuito dei CAS, risultano essere una scelta illogica sia per la sicurezza contro la mala gestione, sia per la sicurezza pubblica. La scelta politica dell’ultimo decreto di indebolire ulteriormente la rete Sprar non risponde alla logica di sicurezza. Investire sulle persone che sono sul territorio da anni in una situazione di sospensione e di impotenza, perché escano dalla loro condizione di umiliante e improduttiva subordinazione,  significa essere lungimiranti e garanti della vera sicurezza pubblica.

Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
Note
[1] Nel 2017 le domande complessivamente analizzate risultano essere 41.379. Di queste hanno avuto esito un diniego il 51,7%, riconoscimento della protezione umanitaria il 24,5%, il riconoscimento della protezione sussidiaria il 9,8%, il riconoscimento dello status di rifugiato il 9,0%, mentre risultano irreperibili il 4,9% (ANCI et al, 2017).
Riferimenti bibliografici
Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes, Servizio Centrale Sprar, UNHCR., 2017, Rapporto sulla protezione internazionale in Italia, Roma: Gemmagraf.
Carli, A., 2017, “In 5 anni quintuplicati i richiedenti asilo accolti nelle strutture di accoglienza”, Il Sole 24 ore, 8 novembre.
Ministero dell’Interno, 2015, Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia. Aspetti, procedure, problemi.
MSF (Medici Senza Frontiere), 2016, Rapporto traumi ignorati. Richiedenti asilo in Italia: un’indagine sul disagio mentale e l’accesso ai servizi sanitari territoriali.
Sitografia
https://www.sprar.it/i-numeri-dello-sprar
ASGI 2018 – https://www.asgi.it/documenti-asgi/salvini-decreto-immigrazione/
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Carolina Galli, attualmente è operatrice sociale a Firenze. È laureata in “Lavoro, cittadinanza sociale e interculturalità” (laurea magistrale) a Venezia e in sviluppo economico, cooperazione internazionale (laurea triennale) a Firenze. Ha conseguito il Master in Immigrazione, fenomeni migratori e trasformazioni sociali, presso l’Università di Ca Foscari (Ve). Durante gli studi ha conseguito esperienze di volontariato e tirocinio presso il Centro Regionale interculturale “Anelli Mancanti Onlus” (Firenze), “Help refugees in Gaziantep” (Turchia), e presso un Centro di Accoglienza Straordinaria a Mazara del Vallo (TP). Ha svolto attività come operatrice in uno Sprar a Firenze (FI).
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