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Recondite sinfonie. A proposito di guerra, ortodossi e fondamentalismo etno-religioso
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2022 @ 01:55 In Cultura,Religioni | No Comments
di Enzo Pace
Il 13 marzo di quest’anno, nel pieno della prima offensiva bellica dell’esercito russo, un gruppo di sessantacinque teologi ortodossi affiliati al Centro Studi Ortodossi dell’Università di Fordham (siamo nel Bronx, New York) ha stilato un documento che fa molto riflettere. Si tratta di un testo che critica l’ideologia del mondo russo o della civiltà russa (Russkij Mir) di cui hanno parlato con la stessa enfasi il presidente Vladimir Putin e il patriarca della Chiesa di Mosca e di tutta la Rus’, Kirill (al secolo Vladimir Michajlovic Gundjaev) a più riprese, prima e durante l’attuale guerra in Ucraina. L’argomentazione principale da entrambi usata può essere riassunta così:
a) il cristianesimo costituisce storicamente l’anima profonda del mondo russo;
b) il suo centro spirituale è Kiev (l’antica Rus’, il luogo del battesimo del primo re cristiano) mentre a Mosca è la sede principale della Chiesa che rappresenta l’unità politico-religiosa, la Terza Roma [1];
c) la civiltà russa riunisce popoli diversi, costituendo una sorta di unità transnazionale che comprende la Russia, la Bielorussia e l’Ucraina (qualche volta nella retorica di leader politici e religiosi ci si è allargati sono a ricomprendere in tale unità anche la Moldavia [2]: si sa l’appetito vien mangiando!);
d) questi popoli condividono la stessa lingua e una medesima fede religiosa.
Gli estensori del documento di Fordham giustamente vedono in tale modo di ragionare una forma di fondamentalismo etno-religioso, una compiuta ideologia che mitizza l’esistenza di un’unica terra, un’unica lingua, una sola religione, rappresentato il tutto da un potere spirituale transnazionale, la Chiesa ortodossa di Mosca.
Per aver studiato a lungo i fondamentalismi nazional-religiosi, devo confessare che mi mancava un movimento di tale tipo in ambiente Ortodosso (lo scrive in maiuscolo per evocare sinteticamente un mondo di Chiese cristiane che hanno alle loro spalle una storia secolare, segnata da differenziazione e conflitti interni). Avvisaglie non sono mancate in un recente passato, in particolare in quel moderno laboratorio di conflitti violenti che si è aperto a pochi chilometri dal confine orientale italiano, nella ex-Jugoslavia.
Nei Balcani, infatti, la diversità delle diversità religiose è stata cinicamente trasformata in un’arma impropria da parte dei leader politico-militari, sostenuti da zelanti ideologi dei nascenti regimi nazionalisti, per giustificare la necessità di separare persone in nome delle loro differenti appartenenze religiose (spesso solo nominali, dichiarate tali manipolando ad arte la demografia). Ben altre sono state le ragioni del collasso della federazione jugoslava. Le differenze religiose non sono state il focolaio che ha lentamente alimentato il conflitto. Allora, infatti, durante il ciclo delle guerre 1990-95, abbiamo capito come le religioni sono state utilizzate per separare persone, famiglie, villaggi, popoli interi in nome dell’ideologia di una sola terra (sacra), una sola religione, cui si attribuisce la funzione di essere matrice (sacra) di una sola lingua, una sola nazione (pura e incontaminata nei suoi confini patrii).
Si dà il caso che tutto questo armamentario ideologico che ricombina (giacché non è nuovo tale fenomeno) politica e religione, in una relazione di reciproca sacralizzazione, costituisce oggi la valuta pregiata spacciata in diversi angoli del pianeta da ceti politici di varia estrazione culturale. Sto pensando sia al partito neo-hindu al potere in India sia ai movimenti guidati da monaci buddisti rispettivamente in Sri Lanka o in Myanmar che predicano le virtù del Dharma come fonte di legittimazione ultima dell’identità nazionale [3] .
Tuttavia, parlare di fondamentalismo etno-religioso Ortodosso pone alcuni problemi di non poco conto. Il primo problema riguarda il rapporto fra la vocazione imperiale della Federazione russa sotto la guida di Putin e il nazionalismo ucraino, a trent’anni circa dal collasso del modello statuale sovietico. In entrambi i casi, parliamo di società storicamente cristiane, legate a una forma prevalente di organizzazione religiosa: una Chiesa, quella ortodossa, composta da una varietà di Chiese nazionali più o meno indipendenti (autocefale), in comunione – a geometria variabile – con un Patriarcato piuttosto che con un altro, prevalentemente con quello che ha sede a Mosca o con quello ecumenico che ha sede a Istanbul. Chiese cristiane d’Oriente nate da uno scisma con la Chiesa di Roma nell’XI secolo.
L’attuale guerra in Ucraina è stata preceduta da un ciclo di lotte politiche interne la cui posta in gioco, ridotta all’essenziale, era la liberazione dal rapporto di sudditanza da Mosca. Se questo era l’obiettivo, si comprende perché nella partita è finita anche la tormentata storia delle relazioni fra la Chiesa ortodossa ucraina e quella del Patriarcato moscovita. Infatti, si può dire che sono tutti (o quasi) [4] ortodossi in Russia e in Ucraina, ma divisi. Cristiani che si sono separati spesso per ragioni politiche sovrastanti le identiche convinzioni religiose; sono stati coinvolti in conflitti di potere che, ridotti all’essenziale, sono riconducibili all’affermazione della pretesa del primato spirituale e morale del Patriarcato di Mosca su tutte le altre Chiese ortodosse del mondo russo. L’annessione della Chiesa ucraina da parte del Patriarcato iniziò nel 1448, tra resistenze e rese, riprese nel 1685 e si compì nel 1723 per volontà dello zar Pietro il Grande. Da allora sino al 2018, la Chiesa ortodossa ucraina è stata sotto la giurisdizione ecclesiastica moscovita, pur godendo, dagli inizi degli anni Novanta di una certa autonomia.
Nel dicembre del 2018, con una solenne cerimonia celebrata nella cattedrale di Santa Sofia di Kiev (alla presenza dell’allora presidente Poroshenko [5]) viene proclamata l’indipendenza della Chiesa ortodossa ucraina dal Patriarcato di Mosca e si chiede al Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli (che ha sede a Istanbul) il decreto che ne riconosca l’autocefalia [6]. Tale atto formale, che arriverà nel gennaio del 2019, segna la riunificazione delle diverse anime dell’Ortodossia ucraina, che sino ad allora risultavano divise fra la Chiesa legata al patriarcato di Mosca (maggioritaria) e quella (minoritaria) che si era già staccata dalla prima sin dal 2014. L’aver reciso il legame con Mosca favorisce una ricomposizione unitaria del popolo fedele attorno ad un’unica Chiesa nazionale. La Chiesa ortodossa, un tempo sotto giurisdizione del Patriarcato di Mosca, diventa così una minoranza e tende a rappresentare, perciò, gli interessi della minoranza russa (che si sente orgogliosamente tale per lingua [7], cultura e senso di appartenenza politica [8]).
I nazionalismi liberati dal dominio russo-sovietico hanno alimentato nelle popolazioni il bisogno di rafforzare il sentimento di estraneità nei confronti di Mosca, mobilitando due tradizionali risorse di senso collettivo: la lingua e la religione. Le linee di distinzione religiosa si sono in tal modo accentuate anche laddove le differenze (di credenze e di pratiche rituali) erano veramente minime, come nel caso delle Chiese ortodosse. Le religioni lasciano immaginare unito ciò che nella realtà sociale è diviso, ma, quando diventano marcatori di identità etno-nazionali, possono far immaginare una differenza che non esiste nella realtà. In tal senso i nazionalismi dei popoli, liberati dall’egemonia russa, possono diventare macchine da guerra pensanti, pronte a essere messe in moto, se il potente vicino di casa pensa ancora che quei popoli debbano essere suoi docili e fedeli alleati, con governi che ne riconoscano la supremazia. La vicenda dell’Ucraina va letta, perciò, in parallelo con quella della Bielorussia: qui davanti a una crescente opposizione politica Lukashenko ha invocato l’aiuto militare di Mosca per reprimere le proteste e liquidare il gruppo dirigente a lui alternativo.
Dopo la proclamazione dell’autocefalia della Chiesa ucraina, la minoranza ortodossa fedele al Patriarcato moscovita aveva pensato di cambiare nome e di chiamarsi Chiesa ortodossa russa in Ucraina, un’ipotesi questa scartata proprio dal Patriarca di Mosca, che nell’aprile del 2021 in una lettera inviata al metropolita di Kiev ricordava che l’auspicata Chiesa russa in Ucraina era in realtà una Chiesa ucraina.
Accadrà così che allo scoppio della guerra, il capo spirituale degli ortodossi filo-russi, che si riconoscono nel Patriarcato di Mosca, dichiarerà cha la guerra non può essere giustificata fra persone della stessa fede. Non sarà il solo a prendere le distanze dal patriarca Kirill [9], quando quest’ultimo darà apertamente il suo appoggio alla guerra in Ucraina, giustificandola come uno scontro di civiltà, una resa finale escatologica fra le ragioni del Bene (la Russia custode dei valori cristiani più autentici) e quelle del Male (l’Occidente decadente): retorica non nuova, giacché ci ricorda quella usata da George W. Bush all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle per annunciare la guerra in Afghanistan.
Duecentocinquanta pope e teologi russi hanno criticato il Patriarca Kirill non solo per aver parlato di una guerra santa, ma anche per l’appiattimento della Chiesa russa sulle scelte politiche di Putin, andando ben oltre la teologia della sinfonia [10] fra sacerdotium et imperium, ritenuta ormai superata storicamente. La Chiesa ortodossa russa sotto la guida di Kirill, invece, ha rivisitato, aggiornandola, proprio tale dottrina dell’armonia fra il potere temporale e quello spirituale: il legame stretto fra questi due poteri rispecchia il disegno divino, giacché la complementarietà dell’uno con l’altro è funzionale al benessere materiale e spirituale del popolo. Per cui, così come la Chiesa riconosce allo Stato il compito di garantire l’ordine sociale, proteggendo la società da tutti i pericoli che possano distruggere e indebolire l’unità della nazione, lo Stato, a sua volta, riconosce il primato spirituale della Chiesa, come interprete della coscienza e della memoria collettiva della nazione. Da qui, come più volte ribadito da Kirill già prima di diventare patriarca della Chiesa ortodossa di tutte le Russie, la nazione precede lo Stato. L’unità della nazione è l’equivalente politico dell’unità del popolo di Dio, con una lingua comune, generata da una comune fede, preservata di generazione in generazione dal rapporto speciale fra un popolo e la sua terra [11].
Che non si tratti solo di un esercizio astratto di esegesi teologica, ma di un progetto politico che vediamo oggi rappresentato sulla scena politica interna e internazionale nel fuoco del conflitto russo-ucraino, lo dimostrano alcuni episodi eloquenti avvenuti negli ultimi cinque anni in Russia. Il primo si riferisce al dicembre del 2017, quando il patriarca Kirill ha celebrato nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca i cento anni di restaurazione della Chiesa ortodossa e, dopo la liturgia, ha incontrato il Presidente Putin. I due con brevi discorsi hanno politicamente sancito l’alleanza fra trono e altare per l’unità della nazione e per l’affermazione dei valori cristiani in tutta Europa. Il secondo episodio risale a due anni fa, quando Putin presenzia l’inaugurazione e la consacrazione della nuova cattedrale delle Forze Armate dedicata alla Resurrezione di Cristo, a 60 chilometri a ovest di Mosca, dove si trova il Patriot Park, un parco a tema militare. Ciò che è interessante ricordare è l’immagine che mostra Putin a fianco di Kirill sotto un grande arco abbellito da un mosaico che raffigura angeli che scendono, come grandi fiammelle della Pentecoste, sul capo dei soldati russi caduti nelle recenti guerre rispettivamente in Georgia, Siria e Crimea. In tale occasione, il Patriarcato ha enfatizzato la comunione esistente fra la Chiesa e le forze armate il cui compito è difendere la rinascita spirituale e morale della nuova Russia contro i nemici interni ed esterni, volto terreno del Male [12]. La retorica (di sempre) del martirio (dei soldati) che combina sacro e profano, Dio e patria.
L’attuale guerra in Ucraina, dunque, non è certo una guerra di religione, ma è interpretata come uno scontro di civiltà fra le forze del Bene, in base alla rinnovata alleanza fra sacerdotium et imperium, e quelle del Male, che, come una matriosca, sono rappresentate in scala crescente, in piccolo da una nazione ribelle come l’Ucraina, un po’ più grande dall’Europa secolarizzata e scristianizzata e ancora più grande dall’America, che tramite la Nato, ha il volto del nemico in armi. Huntington [13] individuava fra le nuove linee di faglia di un possibile terzo conflitto mondiale anche quella che intercettava Paesi e popoli storicamente e culturalmente plasmati dall’Ortodossia. Ma quello che accade oggi in Ucraina sembra smentire tale previsione, giacché il conflitto divide e non certo unifica il mondo ortodosso nel cuore stesso della Santa Russia.
In conclusione, siamo davanti a una pagina di storia non nuova. Un nazionalismo etno-religioso a vocazione imperiale come quello espresso dalla Russia di Putin, da un lato, che cerca di schiacciare con la sua potenza militare un nazionalismo di più recente formazione, dall’altro, che a differenza del primo non è aggressivo verso l’esterno e soprattutto non si carica di alcuna missione civilizzatrice o spirituale. Il ritorno dei nazionalismi, sia nella versione ad alta intensità messianica ed escatologica sia in quella più pragmatica e strumentale, costituisce il fattore R (rischio) più elevato di disordine mondiale.
Le guerre cominciano nella nostra testa prima ancora che nei campi di battaglia. Il nazionalismo contemporaneo riprende temi e posture ideologiche ben note, laddove diventa aggressivo ha bisogno d’impiantare protesi mentali collettive che facilitino l’accettazione dell’inevitabilità della guerra. In tal caso, quando ciò succede, siamo tornati all’idea della guerra come igiene del mondo invocata da Marinetti nel suo manifesto futurista.
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