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I “doni” ovvero le “importazioni” dell’inglese in italiano
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2021 @ 00:23 In Cultura,Società | No Comments
di Salvatore Claudio Sgroi [*]
Chiarisco subito con la citazione che segue, di Mario Alinei (2009), il senso del titolo di questo intervento e la ‘filosofia’ laica, non-puristica, con cui mi pongo da linguista dinanzi agli usi della lingua di una comunità di parlanti nativi:
Da un altro punto di vista, lo stesso Alinei con F. Benozzo, ha più recentemente proposto (2015) – in maniera condivisibile – di adottare il termine “voci importate”, anziché “prestiti”, ovvero con dotto neo-grecismo (anche se un po’ opaco) “epactonimi”.
Se questo è l’atteggiamento teorico nei riguardi dei contatti interlinguistici, la disponibilità teorica all’uso di parole/costrutti di altre lingue (forestierismi, stranierismi, esotismi, xenismi, ecc.), adattati in misura diversa fonologicamente e/o ortograficamente, morfologicamente e semanticamente alla lingua ricevente, è giustificata da un principio semiotico di carattere generale.
Usi linguistici imperfetti, ma pur sempre perfettibili
Il linguaggio verbale costituisce un tratto fondamentale degli umani, senza il quale è difficile poter parlare di individuo umano. L’essere umano diventa tale nel momento in cui comincia ontogeneticamente, e ha cominciato filogeneticamente migliaia di anni fa, a disporre delle parole. Il linguaggio verbale (lingua, dialetto, vernacolo, ecc.), quando è nativo, costituisce lo strumento più potente – per quanto non perfetto – perché ognuno di noi possa prendere consapevolezza di sé, degli altri e della realtà in generale.
Con Calvino (1985) va anche tenuto presente che
Accettando allora la limitatezza dell’individuo umano, qualunque uso linguistico sarà imperfetto, ma pur sempre perfettibile, e tanto più perfettibile quante più parole l’individuo avrà a disposizione. E quindi perché mai rifiutare aprioristicamente “le parole” delle altre lingue, delle altre comunità di parlanti, che magari si sono rilevati in determinati periodi storici più creativi al riguardo?
La libertà nell’uso del linguaggio da parte dell’individuo, se può essere massima negli usi espressivi, individuali, egocentrici, deve però trovare un limite allorché le parole sono rivolte agli altri per farsi capire. La funzione “comunicativa”, interattiva, di negoziazione verbale impone quindi al parlante dei “doveri” verso gli altri. E siccome la “comprensione” è anch’essa parziale e dipende sia dalla scelta delle parole con la loro organizzazione testuale, dal detto e non-detto, sia dalla condivisione dei livelli culturali degli interlocutori, la scelta delle parole – straniere o no – deve tener conto di tutto ciò. Ecco dunque che l’uso degli stranierismi non sarà aprioristicamente bandito in nome di una astratta ‘fedeltà alla lingua’ e alle sue origini, ma neanche sarà indiscriminatamente giustificato.
In considerazione di ciò, l’affanno dei grammatici-lessicografi-linguisti che neopuristicamente si propongono di trovare traducenti di voci straniere, spesso entrate nell’uso dei parlanti/scriventi, se non internazionalismi, sembra una fatica teoricamente ingiustificata, praticamente poco produttiva e scarsamente remunerativa.
Anche i puristi “morbidi” che adottano la teoria degli stranierismi “necessari” (e quindi ammessi) e quelli “di lusso”, risalente, com’è noto, all’inizio del ‘900 a Ernst Tappolet (1914) e recentemente e autorevolmente rilanciata dal presidente della Crusca (Marazzini 2015), si rivelano in fondo “logicistici”. Anche quando lo stranierismo e il traducente italiano condividono lo stesso significato denotativo-referenziale, si distinguono pur sempre sul piano connotativo (maggiore eleganza, più fascino, maggiore espressività, ecc.) del termine straniero, di una comunità che oggettivamente gode di maggior prestigio, culturale, scientifico, economico, ecc. Difficile non riconoscere tale prestigio all’inglese, anzi all’anglo-americano, lingua internazionale, globale, veicolare, ecc. Un indizio di non poco conto è anche la presenza dei cosiddetti “pseudo-anglicismi”, ovvero anglicismi creati dai non-nativi, in virtù del prestigio e della vitalità dell’angloamericano, un es. per tutti il trolley (cfr. Bombi 2015: 159), che qualcuno vorrebbe sostituire con “rullo-valigia”, “valigia a rotelle”. La propensione all’uso dei forestierismi non sembra allora dovuta alla «mancanza del senso di identità collettiva» supposta da Marazzini (2015: 24), o allo scarso «senso di appartenenza alla propria cultura nazionale» (ibid.).
Meno critici verso corvi e cimici
È peraltro anche paradossale che i neo-puristi (scherzosamente “neo-crusc”) siano di solito molto critici verso i “doni” esotici nella grafia e nella pronuncia, ovvero verso gli stranierismi tali nel significante grafo-fonico e nel significato (gli “anglicismi crudi”) ma non invece verso gli stranierismi tali solo sul piano del significato (tecnicamente “calchi” semantici e formali), indicati, quando vengono scovati dai linguisti di professione, non tanto nei dizionari correnti quanto in quelli storico-etimologici.
(Qualche esempio: cimice ’microspia’, corvo ’autore di lettere anonime’, evento ’avvenimento rilevante’, importante ’grave’, virale ’diffusissimo’, apicale (per es. “vertice apicale dell’USR”) o il più misterioso seclusione ’isolamento’ (Sgroi 2016/b).
Da segnalare quindi il Dizionario moderno delle parole straniere nella lingua italiana di T. De Mauro e M. Mancini (2001), ricco di 10.650 esotismi o «doni stranieri» (e, in appendice, circa altrettante voci adattate e calchi). Luca Serianni (2015), nel citato volume della Crusca, è da parte sua ostile ai “crudi anglicismi” (p. 122), ovvero non adattati graficamente, e piuttosto favorevole ai “neonimi” o “stranierismi tecnici” teorizzati da B. Quemada (2009), e ai calchi semantici e formali (es. Bella domanda!, il Grillo-pensiero), ma non nel caso di intrigante ’coinvolgente’, d’accordo con P. M. Bertinetto (2003-2012), in quanto alla base di un supposto impoverimento linguistico.
Apprezzabile è per conto mio il modello di ricerca per il «monitoraggio dei neologismi incipienti» proposto da M. Cortelazzo con la esemplificazione di selfie, spread, spending review, e-commerce, nel citato volume curato da Marazzini -Petralli (2015), ben consapevole che il linguista non è «agente del cambiamento» (p. 27). Non meno apprezzabile per la attenta ricerca descrittiva e storico-etimologica di circa 150 anglicismi colti è altresì il volume di C. Giovanardi-R. Gualdo-A. Coco (2003, 2008), Inglese-Italiano 1 a 1. Tradurre o non tradurre le parole inglesi? (cfr. Sgroi 2010, cap. 8). Meno condivisibili invece le loro proposte “logicistiche” di possibili sostituenti italiani. Posizione ribadita nel volume della Crusca da Giovanardi 2015. Lì cavallo di battaglia di Annamaria Testa (2015), che ha trovato un insormontabile ostacolo nel proporre un traducente di crowdsourcing. Gli sforzi di singoli utenti trovano insomma un limite – a mio giudizio – pressoché insuperabile dinanzi alla dinamica linguistica, per cui a decidere gli usi linguistici sono i “centri di potere” (e non già i singoli linguisti, pur brillanti).
No all’inglese “veicolare” a scuola e nell’università
Se lo studio dell’inglese non può non essere un obiettivo della scuola e dell’università italiana, data la rilevanza culturale di tale idioma, non ci si può naturalmente poi spingere – d’accordo con L. Serianni (p. 127) e con Giovanardi (pp. 41-42) – al punto di utilizzarlo veicolarmente nella scuola e nell’università, in sostituzione della lingua nazionale, che rischierebbe un “suicidio” culturale. Una lingua che non si adopera ai livelli alti inevitabilmente si depotenzia. E può andar incontro alla sua estinzione (cfr. Sgroi 2016/a, sez. VIII. L’inglese e l’italiano).
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