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Può dirsi “sacra” l’arte cristiana?

 

Grunewald, Crocifissione, Doppia tavola di-Tauberbischofsheim, 1512

Grunewald, Crocifissione, Doppia tavola di-Tauberbischofsheim, 1512

di Leo Di Simone 

Religione, rito e arte sono nati insieme e un elemento religioso o metafisico è tuttora presente in ogni forma artistica, sottile filo rosso di affastellante simbolicità. L’arte, minimalista per quanto si voglia, non è mai, semplicisticamente, mero progetto o gratuita composizione; è sempre rito che rimette ordine nella realtà, strategia apollinea che tenta di dominare lo ctonio della natura physis, l’imponderabilità del metafisico così come erano avvertiti, per esempio, dalla religione greca preolimpica e poi sintetizzati nel termine, ormai banalizzato, dionisiaco: la realtà da cui Apollo rifugge, l’oscuro e lento lavorìo delle forze della natura avvertite come caos congiuntamente a ciò che misteriosamente le origina. È sempre il rito che rimette ordine nella realtà, poiché tale è la sua natura significata dalla pregnanza del suo stesso etimo sanscrito ṛtá: ordine, misura, scansione, numero…; per cui ritmo, aritmetica, logaritmo, musica, danza, rito come amalgama simbolico di suono, parola, immagine.

La dedizione all’arte, tanto in epoche di composto comunitarismo quanto in quelle di scomposto individualismo, è ispirata dall’ansia, psicologica Musa che spinge l’uomo per le vie della ricomposizione simbolica dei frammenti del reale e delle indistinte consapevolezze gnoseologiche, richiamandolo, ad un tempo, all’alta dignità della sua natura demiurgica. Ogni oggetto di cui è artefice, manipolatore, ogni opera d’arte che individua e celebra subisce sempre la minaccia del suo opposto: l’informe, l’inafferrabile senso del caos. Così come il rito trasforma il caos in cosmos, l’arte è un ritualistico imbrigliamento del moto perpetuo e inconoscibile della natura. È da questo punto di vista che si può affermare come, forse, il primo artista sia stato lo sciamano tribale, facitore di riti, che fissava l’energia ctonia della natura con i suoi incantesimi e i suoi oggetti rituali, in un momento di quiete percettiva. Da allora nulla è cambiato nella dinamica interna di questa realtà antropologica cui diamo, per convenzione, il nome di arte: capacità di produrre oggetti padroneggiando i segreti della manipolazione.

Dal sanscrito are (ordinare) al greco tέχνη al latino ars, l’arte ha rappresentato il linguaggio simbolico come strumento primario della capacità comunicativa dell’uomo; l’artista moderno che traccia in spontaneità qualche riga di colore su un foglio, in forme di modulare reiterazione, compie a livello fenomenologico la stessa azione di Leonardo che con le sue opere tentava semplicemente di comprendere la realtà, di darle un senso, di scendere nei meandri dello ctonio per risalirne con qualche certezza.

L’arte è questa sorta di scala prodigiosa che consente di salire dall’informe alla forma, dall’indistinto al distinto, dal rumore al suono, dagli inferi alle sfere celesti. È una scala che attraversa il rituale nella sua interezza e che anzi trova nel rituale il suo più naturale approdo, in quanto il rito, nella comprensione meramente antropologica, altro non è che simbolica sublimazione del desiderio di cielo inscritto nella struttura antropica. La vita umana ha avuto inizio nel timore e nella fuga e insieme ad esse continua la sua corsa; il rito e l’arte costituiscono necessarie “stazioni di sosta”, di significante nostalgia, per cui il cogente desiderio del ritorno a casa lenisce il dolore per la fatica di un cammino senza posa e mai completamente concluso.

Tali stazioni si caratterizzano per il desiderio del riconoscimento, del fatto cioè che procedendo nel labirinto della natura si rinvengono e si riconoscono punti di riferimento; visione ed identificazione, rapporti di tipo percettivo che nelle grandi culture hanno reso possibili le più alte realizzazioni, sia in campo artistico che in quello religioso, fino a quel limite di compenetrazione delle due sfere che rende un oggetto, sia esso una piramide egizia o un turibolo cristiano, espressione religiosa e artistica insieme. Se l’arte è scala di individuazione lo è perché le sue immaginifiche potenzialità confluiscono nell’atto di individuazione rituale che, oltre al senso del reale, pretende di rinvenire anche quello del divino, del metafisico. Nella tradizione giudaico-cristiana tale processo è narrato nell’episodio genesiaco in cui Giacobbe dopo aver sognato la scala che congiunge la terra al cielo, compie l’azione rituale dell’unzione della pietra con olio; azione significativa della contiguità di due sfere, la terrestre e la celeste, espressa immediatamente, istintivamente, nell’azione simbolica del rito e nell’embrionale e collaterale azione artistica dell’erezione della pietra a monumentum commemorativo (Gn 28, 12-22). Il monumentum connota uno spazio al cui interno si può godere della benefica e vitale armonia che regola il prodursi della vita ciclicamente e l’equilibrio perfetto degli astri nel cielo; per cui Giacobbe può esclamare: «”Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo”. Ebbe timore e disse: “Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”» (Gn 28, 16-17). Ciò che non si può esprimere con i concetti della ragione si rivela in immagini e simboli archetipici, ed è perciò di essi che la religione di tutti i tempi e di tutti i luoghi si serve mettendo al posto del concetto la commozione operata dal simbolo che assume la forma del manufatto e la dinamica del rituale.

Venere di Willendorf, 25 mila anni, a,C..

Venere di Willendorf, 25 mila anni, a,C.

Il rito, dal suo canto, coagula in sublimazione apollinea le ansie della dedizione al culto celeste superando, in un più pacato distacco, le indistinte immaginazioni proiettate nel magma del sogno, regno del mistero e simbolo della naturale potenza ctonia della notte percepita con timore e tremore: quello spavento primigenio citato da Rudolf Otto che descrive bene il timore di Giacobbe [1]. L’arte come il rito è perciò un temenos, (da τέμνω, “tagliare”), un luogo sacro: terreno determinato, tagliato, ben spazzato, tolto dall’indeterminato, il circolo di terra battuta che costituì anche il primo spazio teatrale. Tutto ciò che è immerso in questo spazio si trasfigura. Dalle gazzelle delle pitture rupestri ai divi del cinema, gli esseri rappresentati entrano in una vita cultuale altra, da cui non riemergeranno più. Divengono eterni, avvolti come da un incantesimo, all’interno del recinto sacro che li sottrae alla tirannia di Cronos. Tutto ciò però esige il prezzo e la fatica della reiterazione, incessante, continua, il prezzo da pagare per il mantenimento di una situazione di contemplazione mai dato definitivamente e sempre da rinnovare. Ecco perché l’arte fa cose. Infatti non ci sono oggetti in natura, ma solo l’incessante erompere delle forze naturali che sfaldano, frantumano, inceneriscono, riducendo tutta la materia ad un fluido denso tendente al caos primordiale da cui sprizzano fuori nuove forme anelanti alla vita. Dioniso veniva identificato con i liquidi: il sangue, la linfa, il latte, il vino. Mentre Apollo conferisce forma e figura, distingue gli esseri l’uno dall’altro. Ogni manufatto è apollineo; la mescolanza informe è dionisiaca. Sapere e individuare è l’opera di Apollo e ogni opera d’arte è un tentativo di salvezza, di uscita dal caos. Così il “fare cose” apollineo è stato la strada maestra della civiltà occidentale, dall’antico Egitto fino ai nostri giorni. Tutti i tentativi di reprimere questa tendenza, questa dimensione della nostra cultura, hanno fallito miseramente. Non è un caso che la tragedia, come noi la conosciamo, risalga al secolo tutto apollineo della grandezza di Atene e la sua opera emblematica sia l’Orestea di Eschilo, celebrazione della sconfitta delle potenze ctonie. Il dramma, genere dell’azione dionisiaca, frutto delle reminiscenze cultuali dei massacri di uomini e animali degli arcaici rituali orgiastici, assume il nome di τράγος - ᾄδω, “canto del capro” e si volge contro Dioniso stesso attuando il passaggio dal rito alla mimesis, dall’azione alla rappresentazione [2]: tragedia.

Si potrebbero continuare queste “divagationes in psalmos” ma non è mio intento, qui, evidenziare le radici culturali dell’arte occidentale; soltanto mettere in luce la relazione profonda, verosimilmente ancestrale, tra arte e culto, oltre che le evidenti connotazioni antropologiche emergenti da una lettura studiatamente fenomenologica. Lo scavo archeologico dei fenomeni è fondamentale al fine di una esaustiva lettura degli stessi; bisogna andare fino in fondo per evitare che il fermarsi ad un qualsiasi livello intermedio distorca fortemente la cognizione che se ne ha. Voglio dire che un qualsiasi manufatto artistico – non parlo di arti maggiori o minori perché si tratta di semplici ed arbitrari giudizi di valore – cristallizza in sé implicazioni antropologiche tali che in esso si riflettono le direttrici più importanti della poietica antropica. Aggiungo poi che, innegabilmente, la valenza antropologica esuma connotazioni di sacralità tante che la loro ablazione sminuirebbe di non poco il valore dei manufatti riducendoli a nude datità. Oggi non si può più mettere in discussione la naturale sacralità dell’arte senza distruggere importanti studi di antropologia culturale, fenomenologia della religione, filosofia, psicologia ed altro.

Saqqara, Piramide di Zoser, 2630-2611 a.C.

Saqqara, Piramide di Zoser, 2630-2611 a.C.

Desidero adesso, focalizzando arte cristiana, mettere in guardia da riduzioni e generalizzazioni. Ridurre per esempio i manufatti dell’arte cristiana a prodotti della poiesi religiosa e intenderli come fenomeno tutto sommato indito alle dinamiche dell’homo cultualis è non rendere giustizia a ciò che invece il cristianesimo ha aggiunto, senza nulla togliere, all’umana inclinazione all’arte. Non che non sia vero che ci sia un livello comune di interpretazione dei fenomeni artistici, compreso il cristiano, che indichi l’universale gravitazione di questi, globalmente presi, nell’orbita della sacralità; ma la sacralità è un momento transitorio dell’essenza religiosa dell’uomo, non il suo teleologico approdo. Anche le opere d’arte cristiane ne sono inesorabilmente segnate, altrimenti sarebbero opere angeliche. È forse più semplice per la cultura contemporanea e non, scristianizzata o/e poco adusa alle ermeneutiche cristiane che non siano rilettura culturalmente datata o tarata del fenomeno cristiano stesso, fermarsi alle considerazioni sacrali generiche, indistinte e vacue. Paradossalmente e, forse per una sorta di nemesi, inconsciamente, una cultura come la nostra, segnata dalla pretesa di individuazione apollinea, almeno in campo scientifico, si lascia poi scivolare verso le tentazioni e le persuasioni dionisiache, ossia inclina ciecamente verso il giudizio informe, indistinto e generico. Dobbiamo ricordarci che l’ermeneutica è una scienza con un suo rigore interno anche quando elabora i dati neutri dell’antropologia.

Da più parti, ed anche in maniera abbastanza scaltrita, il cristianesimo è focalizzato come fenomeno di nebulosa portata sacrale, così come l’arte da esso prodotta trova nel termine “sacra” la sua più banalizzante aggettivazione. Un’attenzione analitica, anche di matrice fenomenologica, non può ignorare la peculiare fisionomia della proposta cultica cristiana che, proprio nel superamento della dialettica Apollineo-Dionisiaco, naturale-sovrannaturale, consente all’antropo non solo più serena consapevolezza del suo essere nella natura, ma di esserci nella fattualità di una metamorfosi avviata verso una pienezza che trova nel fondatore del culto cristiano la simbolica pacificazione delle antinomie apollinee e dionisiache. In Cristo c’è più di Dioniso e più di Apollo in virtù di epifanicità storica [3]. Non scompare evidentemente una percezione tragica dell’esistere, che emerge comunque come un dato esistenziale ed estetico, ma non opposta antiteticamente o titanicamente alla quiete e all’atarassia apollinee; se azione e contemplazione sono state, nella cultura cristiana, categorie polari e alternative di propositività esistenziale ciò è accaduto non per difetto di fondazione ontologica del cristianesimo, ma a causa di peccati culturali che hanno insistito, lungo l’asse diacronico delle inculturazioni, ora sull’uno ora sull’altro aspetto, facendo a buon diritto pensare ad una sopravvivenza pagana nella cultura cristiana.

Tali posizioni destabilizzanti l’originalità cristiana, attribuibili agli influssi acculturanti del dualismo filosofico greco, sono state evidentemente riprodotte, in dimensione simbolica, nelle opere d’arte, grandi o piccole che siano state, che i cristiani hanno prodotto. Iconolatria e iconoclastia, trionfalismo controriformistico e aniconismo protestante, o se si vuole, arte cluniacense ed arte cistercense, simbolismo medioevale ed allegorismo barocco sono testimonianze storiche di arroccamenti su posizioni esclusiviste di miopia confessionale cristiana. Osservando e valutando un qualsiasi prodotto d’arte del cristianesimo, sono da tenere in debita considerazione i peccati nei confronti dell’inculturazione della fede che, pur sembrando veniali sono tuttavia sempre mortiferi e mortificanti l’originalità cristiana; pur mantenendo, quasi sempre, intatte le caratteristiche del bello in dimensione di contemplatività apollinea e di mera estetica formale.

La questione si gioca tutta, come si può comprendere, sui canoni della nuova estetica che il cristianesimo ha instaurato e che esige una purificazione dei sensi al fine di una loro divinizzazione. Il Crocifisso non è “bello” secondo i canoni di estetica apollinea; anzi, secondo tale visione è orribile e ripugnante né più né meno che la scarnificazione dionisiaca ad opera dei Titani. Il Cristo in croce non ha “né apparenza né bellezza” e la sua estetica non è né idealità né disincarnazione apollinea; il suo stile, al contrario è l’incarnazione, e la sua bellezza scaturisce dalla feconda relazione con verità e bontà. L’estetica cristiana non è costruzione del superuomo insediato su basi di imperturbabilità apollinea; è il travaglio della trasfigurazione, processo progressivo e doloroso che nulla toglie all’umano di ciò che ontologicamente lo segna come creatura; ma soltanto, e non è poco, rimette in luce gli splendori sovrannaturali che lo inabitano in quanto figlio di Dio. Di tale processo è simbolo la farfalla che spunta dal travaglio del bruco nel suo bozzolo: ciò che prima strisciava poi vola!

Dioniso su vaso a figure rosse della metà del V secolo

Dioniso su vaso a figure rosse della metà del V secolo

A partire da questa rimodulazione estetica il cristianesimo conferisce all’arte, prodotto dell’uomo trasfigurato, nuova valenza e nuova significazione. Essa costituisce strumento di significazione metafisica nella direzione dell’incarnazione, e non fine di pacificazione esistenziale. Come strumento espressivo della complessità antropica essa ingloberà anche la percezione salvifica nelle connotazioni della fede in un Dio – orrore per la cultura pagana e filosofica – che si fa uomo. È il mistero dell’incarnazione che distingue il cristianesimo dalle altre religioni, ed è per questo mistero che l’arte prodotta dai cristiani perde ogni pretesa mimetica e rappresentativa. Insieme a Dioniso è superato anche Apollo, e la visione del mondo, chiuso nel circolo deterministico dei ritorni e delle fughe, è spezzato dalla luce della risurrezione che si traduce, oltre la fede cristiana in sé e per sé, in messaggio di pacificazione universale per gli uomini di buona volontà. Incarnazione e risurrezione, non a caso, sono segnate, simbolicamente e iconograficamente, dai raggi di una stella per dire la luce penetrata negli Sheol dionisiaci non meno che negli Olimpi apollinei. Di tale sintesi si è appropriato l’Oriente cristiano che non ha utilizzato, paradossalmente in virtù di localizzazione geografica e culturale, la filosofia greca per la sua elaborazione teologica, preferendo la “via negativa” e l’esicasmo, più atti alla traduzione simbolica dell’ineffabile. Il discorso sull’arte orientale esige un discorso a sé che esula dai limiti imposti a questo saggio.

L’arte cristiana in genere, nel suo sviluppo diacronico attraverso le epoche culturali, si è manifestata come catalizzatore simbolico del culto rituale che è sempre memoria attualizzante della salvezza e non assolutizzazione idolica della divinità. Così come il rito cristiano ha assunto le vesti della cultura e ha mutato le sue forme – e quando non lo ha fatto i risultati sono stati disastrosi – così l’arte dei cristiani si è realizzata in dimensione festiva e gioiosa uscendo come dal buio; uno zampillare incontro alla luce assoluta, la più sensibile manifestazione del divino, il cui simbolo più toccante è il mistero della Trasfigurazione. Per la luce si opera il congiungimento fra la terra e il cielo, come fra l’estetica e l’etica, perché l’abito del cristiano è luce, e «chi opera la verità viene alla luce» (Gv 3, 21). Dio è luce perché è verità ed è verità che irradia bellezza. Per il cristiano il bello si riallaccia al buono e al vero dell’ontologia divina, parafrasi dell’osmosi trinitaria. Da qui il fascino che per l’arte cristiana hanno esercitato nel medioevo l’oro e le gemme, l’immenso successo dei Lapidaria, di quei trattati non tanto di gioielleria quanto di morale, rivelatori di sottili equivalenze tra le diverse virtù e ogni specie di pietra preziosa. Così si celebrava la festa cristiana della Pasqua, come rimozione della notte, con le sue luci, i suoi falò, lo scintillìo degli oggetti di culto che si congiungeva al centro dei santuari riverberandosi sulle tessere musive che componevano la mistagogia celebrativa, le immagini della liturgia e gli echi eucologici e litanici. Icona della luce che brilla nelle tenebre espressa dalla globalità linguistica del rito liturgico. Rito liturgico come sintesi poietica del mistero rivelato.

L’arte cristiana se non diaconizza alla festa celebrativa della salvezza e non si fa apposizione della liturgia secondo lo spirito dettato da Cristo perde con ciò stesso la sua statutarietà. Il Salvatore, infatti, «nell’apprestarsi a celebrare con i suoi discepoli il banchetto pasquale, nel quale istituì il sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue, ordinò di preparare una sala grande e addobbata» (cf. Lc 22,12). Quest’ordine la Chiesa l’ha sempre considerato rivolto a sé stessa quando dettava le norme per preparare gli animi, disporre i luoghi, fissare i riti e scegliere i testi per la celebrazione dell’Eucaristia» [4]. L’Eucaristia celebrata, culmine e fonte del culto e della ritualità cristiana, si è caratterizzata sin dal suo nascere come festa, ossia come rottura del tempo usuale. Le opere d’arte, in essa, hanno sempre approntato uno scenario che la collocasse fuori da schemi feriali, costituendo un “ornamento” necessario ed emblematico, appositivo e non decorativo. Ciò che i riti hanno per un momento simbolizzato con gesti, ciò che il racconto del suo mito ha espresso con parole, ciò che i moduli sonori hanno impresso negli animi, le arti visive e plastiche hanno continuato ad insegnare in un intreccio armonico e mistagogico di segni. L’arte, nel rito, si propone come docile strumento di “eccesso”, come sbocco sempre aperto per superare ciò che è costrizione e meschinità nel corso della vita. Nel rito cristiano essa assume anche funzione iniziatica, emblematica, ponendosi in correlazione con una visione del mondo, e la sua storia raggiunge quella di un sistema di valori difficilmente esprimibili razionalmente, perché non si può raziocinare sul mistero, de Deo revelato.

Ecco perché l’arte cristiana, quella nata e cresciuta nel giardino liturgico, nel momento fontale della novità cultica “in spirito e verità”, ha privilegiato il linguaggio simbolico, nella convinzione che il simbolo, questo frutto dai sapori multipli, è il velo che attendendo di essere sollevato attizza le concupiscenze dell’anima e, favorendone i balzi, le proietta intuitivamente, con un solo slancio, più avanti, verso l’inconoscibile resosi evidente. L’arte cristiana ha sempre ritenuto che la figura può dire più e meglio che la parola, con impeto più grande, con immediatezza illuminante ed anche in modo meno fugace. La figura diventa così exornatio della Parola, di una parola in sé già simbolica e polisemica in cui si compenetrano le frange significative di singoli vocaboli, in cui gli echi dei significanti si ripercuotono e si confondono in un rinvenimento semantico inaspettato e meravigliante.

Tissot, Il sogno di Giacobbe

Tissot, Il sogno di Giacobbe, 1896

L’arte cristiana è simbolica e non contraddittoriamente metaforica: porta fuori, porta altrove per riportare qui, adesso, ciò che mai potrebbe essere presente; rende presente l’assente nella sala espositiva più bella che l’uomo possa approntare: le sue profondità psichiche dalle quali sempre invoca col salmista: «De profundis clamavi ad te Domine… exàudi vocem meam» (Sl 130,1). Così nel clima dell’anamnesis salvifica l’arte si fa anche memoria, proiezione controllata nel concreto di una scoperta folgorante, indicibile. Essa favorisce la creazione di un clima esistenziale in cui il cosmos ricreato confluisce con tutta la purezza delle sue archetipali simboliche che traggono dalle profondità antropiche quelle immagini di bellezza originaria offuscate dalla crudeltà del cronos che tutto ammanta e nasconde col suo plumbeo velo. La vera bellezza non si dà senza ἀλήθεια, senza la rimozione della coltre del tempo per il ritrovamento dell’origine intatta. Il cristianesimo pretende attuazione di questo ritorno, in senso non meramente cronologico ma esistenziale, cogliendo l’occasione del kairós; il percorso è interiore e la verità coincide con la bellezza dell’immagine, quella di Dio impressa in ogni uomo. Ognuno la possiede, anche senza saperlo, anche se sepolta “nel profondo”: «De profundis clamavi…».

Rito, arte, simboli, segni, sono strumenti di scavo e di ricerca, metaforiche ali, strumenti antropologici che il fondatore del cristianesimo non ha disprezzato ma utilizzato, non per idolizzarli e assolutizzarli ma per convincere ogni uomo che Dio è Spirito e lo si deve adorare “in spirito e verità” (Gv 4, 24). I prodotti dell’arte cristiana sono per la gloria di Dio perché attestano la nobiltà dell’uomo vivente come artefice e demiurgo, dominatore e ordinatore del creato secondo quelle facoltà altissime concessegli e dunque non autonome e assolute. L’arte in sé, oltre che ostentazione di grandezza è anche dichiarazione di povertà; le sue rappresentazioni sono sublimi ma effimere, non reggono alla tirannia del tempo né sono in grado di descrivere l’infinità dello spazio. La forza e la grandezza del cristianesimo risiedono nella obiettiva considerazione di queste realtà e nel sapiente e pacato utilizzo di questi mezzi espressivi di una situazione esistenziale che quanto più è vera tanto più è bella.

Sto parlando qui del cristianesimo riferendomi alla normatività nel suo statuto fondativo che lo fece apparire, al suo sorgere, nei sincronici consessi culturali, empio in quanto alla religione, ripugnante in quanto all’estetica, perverso in quanto all’etica. Questo perché tutto l’impegno del suo fondatore s’era indirizzato alla demolizione impietosa di qualsiasi forma di idolatria che consiste nell’assolutizzare uno strumento invece sempre relativo al raggiungimento di un fine. La religione, l’arte, la legge, sono strumenti, non divinità cui votare la propria vita. In tale nuova visione risiedette la forza e lo scandalo del cristianesimo, nella dettatura di nuovi temi culturali dipendenti però da una fede vissuta e non da una tradizione sociale; per cui la cristianità deve rinnovarsi ad ogni generazione. La cultura cristiana non può essere legittimata dalla fedeltà alle sue istituzioni ma dalla coerenza con i temi che l’hanno strutturata; ogni generazione si trova dunque, sempre, di fronte al compito di dover prendere decisioni ciascuna delle quali può essere un atto di fede o un atto di apostasia. Tali decisioni si traducono sempre inevitabilmente in azioni simboliche, e le opere d’arte rientrano tra queste azioni. La tradizione artistica cristiana, in questo senso, può risultare ambigua, in quanto certe opere possono in apparenza rappresentare continuità di trasmissione tematica, mentre di fatto esprimono una certa interpretazione culturale del cristianesimo di marca squisitamente istituzionale.

Beato Angelico, Trasfigurazione,

Beato Angelico, Trasfigurazione, 1438

In certi periodi culturali si è assistito anche ad una manipolazione sottile dei temi artistici dell’iconografia della liturgia, per giustificare assetti politico-istituzionali di dubbia matrice cristiana. I re normanni, giusto per restare in casa nostra, hanno iconizzato la loro regalità di “origine divina” in contesti espressivi, come alla Martorana e a Monreale, che difficilmente possono essere rigettati sia dall’inconscio simbolico collettivo, sia dalla considerazione teologico-liturgica. Nella coerenza simbolico-iconografica della Martorana e di Monreale, Ruggero II e Guglielmo II possono sembrare due note di poco conto nella scrittura sinfonica di quei sistemi, mentre ne costituiscono in realtà la chiave di volta. I rispettivi pantocratori, immagini verso cui convergono i progetti iconografici relativi, sono i garanti simbolici della loro monarchia assoluta di diritto divino [5]. E non sappiamo, poi, se Michelangelo sapesse, quando fu invitato ad affrescare la Sistina con quelle splendide figure e con quel programma iconografico rigoroso dal punto di vista teologico, in consonanza con la concezione liturgica del suo tempo, che le misure di quella cappella erano identiche a quelle del non meno famoso Tempio di Gerusalemme, distrutto dai Romani e riedificato nel cuore della cristianità, in Vaticano. Il gioco simbolico-metonimico era sottile e di non poca incidenza per l’ottica templare sconfessata da Cristo e riaffermata lentamente, nel corso dei secoli, dalla Chiesa istituzionale. In ogni caso è proprio nel Rinascimento che si delinea in maniera più netta il passaggio da un’arte cristiana espressione del culto liturgico ad un’arte cristiana omologabile alla “sacra”. La distinzione può apparire pedante e ancor oggi può sembrare un bizantinismo cavilloso; per i più non c’è nessuna differenza tra l’una e l’altra, ma la diversità è sostanziale. Non dipingevano i grandi pittori, con gli stessi stilemi, personaggi biblici sulle pareti e volte delle chiese e divinità olimpiche sulle volte delle ville di nobili e cardinali? Così si affermava il generico della “sacralità” dell’arte, con lo sganciarsi delle immagini dalle dinamiche della liturgia.    

Il sacro sta alla fede cristiana come il generico sta allo specifico. Ora, il Cristianesimo non ha una percezione vaga e una concezione sacrale di Dio; il suo specifico è l’incarnazione, la vicinanza di Dio in Cristo e non la sua lontananza cosmica. Il Cristianesimo ha sempre espresso artisticamente la percezione-presenza del suo Dio così com’è recepibile nell’azione rituale comunitaria che è la sinassi ecclesiale dicibile per la globalità linguistica della liturgia. I cristiani non hanno sin dalle origini prodotto arte per mero diletto, o per ornare i bordi di un’azione di tipo teatrale rievocativa di un fatto storico lontano nel tempo; la loro anamnesis è sempre una invocazione di fede e un simbolo d’amore che dice l’incontro nuziale con il loro Dio. Anche qui descrivo la normatività ontologica della liturgia cristiana, non la sua fattualità storico-culturale [6], perché ci sono stati tempi in cui questa visione è stata offuscata dal “peccato”, cioè dalle mille altre idolatrie prodotte da un culto fattosi “religioso” e “sacrale” per la perdita di contatto con lo spirito della sua origine, col suo mito. La fede comunitaria e la sua espressione liturgica si sono ridotte alla devozione individuale e ad un culto ieratico e riservato alle caste sacerdotali sotto l’egida di una normativa giuridica pedante ed arbitraria. L’arte ha tradotto anche queste deformazioni in opere di pregio artistico anche altissimo, di eccezionale “fattura”; mirabili secondo i canoni di un’estetica formale, ma ambigue, sibilline, impenetrabili secondo i parametri teologicamente fondati dell’iconologia liturgica: la liturgia cristiana è infatti il luogo dove εἰκών e λόγος simbolizzano in quanto il Lόγος archetipale è anche Eἰκών del Dio invisibile (Cf Gv 1,1; Col 1,15; 1Cor 6,8; 2Cor 4,4; Fil 2,6-11).

Piero della Francesca, Flagellazione,1460

Piero della Francesca, Flagellazione,1455

Un’opera che mi affascina e dalla quale resto incantato per la sua misteriosa sibillinità è la famosa “Flagellazione” di Piero della Francesca (1455, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche); un’opera la cui lettura ha impegnato i più importanti critici d’arte [7] per scoprire l’identità dei tre personaggi in primo piano. Io concordo con Federico Zeri, che ad un certo punto taglia corto, dicendo che a prescindere dall’identità dei personaggi essi ci introducono sotto il portico per renderci spettatori reali della flagellazione [8]; ma devo aggiungere che temi come questo della flagellazione, sono nati dalla distanza rinascimentale dalla spiritualità liturgica che introduce invece nella globalità del mistero pasquale di “morte-risurrezione”, stagnando nella devozione privata, nel devozionismo popolare, e hanno condotto ad uno spiritualismo di “compatimento” del Cristo sofferente, una visione lacrimevole e riduttiva del mistero cristiano. Da qui alla iconizzazione di crocifissi truculenti, alla Grunewald, e di “Ecce Homo” alla Mantegna o all’Antonello da Messina, il passo è stato breve. Ciò ha prodotto anche le “pietà”, le sontuose processioni del Venerdì Santo e la devozione per l’Addolorata che in Sicilia è stata rafforzata dagli influssi ispanico andalusi. Inoltre, col Rinascimento, si diffonde la passione per la “prospettiva” e gli stessi temi iconografici cristiani, appaiono ai pittori magnifici pretesti per costruire su tavola, o poi su tela, edifici perfettamente strutturati entro l’intreccio delle linee di fuga. I fatti della salvezza e gli episodi biblici vengono rappresentati all’interno dello sfarzo apollineo di sontuosi edifici. È il trionfo della “pala d’altare”, delle Madonne in trono in “sacre conversazioni” con Santi e nobili committenti, nelle cui cappelle i dipinti facevano bella mostra di sé, a testimonianza dell’opulenza mecenatica e della religiosità devota dei potenti blasonati.

In sintesi, è questo che intendevo per “mettere in guardia dalle riduzioni”. Purtroppo gli “esperti”, nei loro pronunciamenti critici, non sempre si confrontano con siffatte analisi, limitandosi allo studio della forma, dello stile, delle scuole artistiche, dei materiali, dei committenti, della rispondenza ad uno “spirito del tempo”. Queste cose, e lo dico con tutto rispetto, costituiscono solo un aspetto della dignità epistemologica di ciò che si chiama storia dell’arte. Ma indagare su quale concezione teologica si cela dietro il vetro di un “ostensorio” o quale ecclesiologia è disegnata tra le rose e i gigli ricamati di una “pianeta”, di una “dalmatica” o di un “piviale” serve più che considerare la datità di un manufatto artistico; vuol dire contestualizzarlo in un habitat culturale che ha mostrato Dio in una determinata maniera, e possibilmente, può darsi il caso, in maniera diversa da come lo ha mostrato Gesù Cristo stesso. Uno storico dell’arte serio, se vuole occuparsi di arte cristiana deve studiare a fondo la Bibbia, la liturgia e la teologia per non incappare in strafalcioni di marca sacrale e generalizzazioni livellanti e indebite; per comprendere rettamente, e non arroccarsi su posizioni di sterile archeologismo e scialba ermeneutica che si fanno passare per critica acuta.

Raffaello, Disputa del sacramento, 1509, Stanze del Vaticano

Raffaello, Disputa del sacramento, 1509, Stanze del Vaticano

La fede cristiana è novità perenne e il suo segreto, da duemila anni, è l’inculturazione, sul modello del Verbo fatto carne. In certi periodi storici più di altri è capitato che l’inculturazione si è invertita e che le visioni sacrali e pagane sono entrate a far parte del bagaglio culturale della Chiesa. Ci sono peccati che sappiamo riconoscere da soli ormai e le interpretazioni di tipo sacrale o le letture di stampo folkloristico fatte con superficialità, non si sa se in maniera mirata o incosciente, non aiutano proprio ad inquadrare il fenomeno sacrale. C’è una dignità dell’arte cristiana, oserei dire una coerenza estetica polarizzatasi laddove il Vangelo è stato norma esistenziale di comunità intere, che non possono essere sbiadite da superficiali valutazioni che si autolegittimano con etichette di scientificità di matrice ideologica. Sia chiaro che il “sacro” non è il “cristiano” e che le varianti superano le somiglianze. Uno scavo archeologico tra le stratificazioni culturali conduce normalmente, e nella fattispecie per il Cristianesimo, ad una fonte che ha saputo fornire indicazioni estetiche all’umanità aprendole gli occhi e consentendole di focalizzare il mistero dell’esistenza accanto a quello di Dio. L’estetica cristiana è percezione del reale alla luce del trascendente che non lo irradia da fuori ma da dentro. Una visione del mondo, dell’uomo, di Dio totalmente altra rispetto a quelle dell’istintualità religiosa che è un modo di vedere ma non senz’altro il più acuto.

Raffaello, Parnaso, Stanze del Vaticano

Raffaello, Parnaso, 1510, Stanze del Vaticano

Che l’estetica cristiana sia stata poi confusa e mescolata con altre estetiche è un discorso diverso. D’altronde sappiamo che anche in teologia abbiamo fatto mescolamenti indebiti quando abbiamo preteso di incasellare Dio negli schemi aristotelici con la presunzione di rendere lapalissiano il mistero. E lo dico riferendomi alla “teoria della visione” cristiana, perché la contemplazione della luce pura è cecità e buio, e la mistica insegna che il “puro vedere” è vedere nulla. Ecco perché il filtro dell’Incarnazione: la Luce che è Dio promana dal Cristo e dice di sé quanto è possibile all’uomo recepire, secondo l’aforisma agostiniano: «Quidquid reciputur ad modum recipientis recipitur». Non per nulla il mistero della Trasfigurazione è il mistero che presiede alla divinizzazione lenta e progressiva dei sensi dell’uomo, nel cenacolo della liturgia, perché della liturgia è icona paradigmatica.

Si può guardare dunque agli splendidi manufatti dell’arte cristiana nella diacronia dei secoli come a testimonianze di tradizione ma anche di tradimenti. La fede in Gesù Cristo e nel suo Vangelo è stata riflessa, sì, anche nei secoli tra il Rinascimento e il Barocco nelle opere d’arte, ma in maniera non sempre del tutto splendente, e specularmente almeno, rispetto allo splendore formale dei manufatti artistici. Anche il tempio di Gerusalemme era fatto di “belle pietre”, di materiali pregiati e di oggetti di culto superbi nella loro ricchezza; e Gesù dichiarò apertamente che quel modo di rendere culto a Dio serviva a poco. Si trattava di un orgoglio culturale pago soltanto di se stesso e che strumentalizzava Dio rendendolo paravento per nascondere la propria vacuità e un nazionalistico orgoglio. Senza dubbio anche tra Rinascimento e Barocco ci sono stati Santi che hanno cercato Dio con cuore sincero e hanno accettato con semplicità moduli culturali, dei quali non erano troppo convinti, nello spirito delle Beatitudini. Santa Teresa d’Avila, che leggeva il Vangelo di nascosto, perché a quei tempi la Chiesa non riteneva opportuno che tutti lo leggessero, specie le donne, non immaginava di certo di dover diventare celebre a causa della scultura del Bernini invece che per i suoi scritti spirituali. Tutti la conoscono per la celebre scultura ma pochi per i suoi scritti mistici che anticiparono di qualche secolo posizioni teologiche, ecclesiologiche e liturgiche. Tanti altri, che cristiani si sentivano e auspicavano una maggior coerenza evangelica dalla Chiesa istituzione, nei periodi rinascimentale e barocco, forse perché dissero in maniera meno mistica le stesse cose di Santa Tersa d’Avila, andarono al rogo dell’Inquisizione. Intanto sorgevano splendidi edifici, orgoglio della “cattolicità romana”, già mentre il Beato Angelico, alle soglie del Rinascimento, era “felicemente in ritardo” non solo rispetto ai moduli artistici ma anche rispetto a quelli iconologici dell’arte cristiana del suo tempo. La sua “Trasfigurazione” in San Marco a Firenze, non ha sicuramente la possanza e la magnificità estetica del Giudizio Universale di Michelangelo, ma il Cristo con le braccia spalancate, in posizione cruciforme, è frutto dell’esegesi liturgica dei racconti sinottici, mentre il Cristo-Ercole di Michelangelo è affermazione di forza e di vittoria contro i nemici della Chiesa e di Giulio II per il quale, questo ripropositore dell’arte apollinea, scolpirà il Mosè nella postura di un Giove olimpico.

Raffaello, Sposalizio Maria e Giuseppe, 1504

Raffaello, Sposalizio di Maria e Giuseppe, 1504

Il sacro può illudersi ed illudere di ammaliare Dio con gli ori, gli argenti, i gioielli, i dipinti apollinei, le belle forme levigate, gli splendidi tessuti, risultato di processi di acculturazione fecondissimi per l’arte ma che hanno anche prodotto, parallelamente, fenomeni in campo sociale, politico e religioso non proprio esemplari di eticità cristiana. La bellezza cristiana splende della luminosità della croce ed è verità, svelamento di bontà e giustizia. Ciò è peculiarmente cristiano!

Sento di dover concludere questo discorso che potrebbe avere l’ampiezza dei cerchi che si allargano nell’acqua, con la consapevolezza di aver lanciato soltanto un sasso. Un sasso che provochi una più osmotica relazione tra studiosi di discipline umane, teologi, artisti ed esteti. Il nostro passato lo dobbiamo saper leggere bene, e duemila anni di cultura cristiana non sono uno scherzo. Personalmente è da tempo che ho preso le distanze dall’assunto crociano per cui «non possiamo non dirci cristiani»; è semplicemente falso. Non è per la Divina Commedia né per Michelangelo né per Bernini né per Palestrina che siamo cristiani, solo per Gesù Cristo. È stato lui ad abolire la sacralità sconfessando il tempio e le sue recinzioni, abbattendo gli steccati di separazione sacrale dietro i quali si sono nascoste, nel corso della storia, tutte le astuzie dell’iniquità. Se leggiamo attentamente il suo messaggio ci accorgiamo che è stato lui a farci osservare che “il re è nudo” e che basta toglierci le lenti culturali per accorgerci che i suoi paludamenti sacrali sono inesistenti. Alla fin fine tutta l’arte è sacra, in quanto espressione di un ancestrale anelito antropico che non trova requie se non nel rappresentare e simbolizzare. L’uomo è animale simbolico. Ma se tutta l’arte è sacra, se tutto è naturalmente sacro, non c’è neanche il profano, perché non ha senso quella maledetta e condizionante astrazione dualistica, retaggio della filosofia greca, che ha pervaso sin nelle fibre più minute tutta la cultura dell’Occidente, cristianesimo compreso. Portando a separare ciò che è unito: «corpo e spirito, uomo e donna, particolare e universale, carità e logos, eros e agape, morte e vita, rinuncia e pienezza» sacro e profano, e ritenendo che «uno dei due elementi sia superiore, che debba prevalere e dominare l’altro e magari anche cancellarlo se occorre. Questo non è cristiano, e ancor prima non è umano» [9].

C’è l’arte, quale risposta a quella tensione metafisica dell’essere umano che grida e si sprigiona dal suo “profondo”, celebrata dai singoli e dalle religioni; tra queste c’è anche l’arte cristiana che ha focalizzato in Gesù Cristo lo scioglimento e l’esito di tale tensione nella luce. La prima non è da demonizzare né è inferiore per dignità e bellezza alla seconda. Ambedue prodotte dall’essere umano come «concreto vivente, né pura materia né puro spirito, impastato di terra e di cielo; capace nella sua libertà, di tracciare una via nella tensione tra dimensioni diverse […] capace di coltivare e custodire il legame reciproco con il mondo, con il mistero che ci abita» [10]. L’arte produce e ri-produce le immagini del sogno che emerge dalla notte, e da esse nascono i miti e i riti e la ricerca di senso per una vita ben vissuta. Non da una realtà oggettiva esterna all’uomo cui si dà il nome di sacro, ma dall’interno, a partire da quell’immagine che fa dell’uomo un capolavoro tra le opere d’arte e che secondo il cristianesimo gli è stata impressa da Dio. Per Pavel Florenskij quanto si dice del sogno può essere detto della creazione artistica dove «l’anima è sollevata dal mondo terreno ed entra nel mondo celeste» [11], anche se lui distingue «immagini della salita» e «immagini della discesa». Ma questo è un altro discorso che può riguardare il rapporto tra sacro e divino. 

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022 
Note
[1] Cf R. Otto, Il sacro, traduzione di Ernesto Buonaiuti, SE ed, Milano 2009: 150-153
[2] Questi aspetti vengono messi in luce nell’opera giovanile e quasi dimenticata di Hans Urs von Balthasar, Apocalisse dell’anima tedesca, in cui sono poste le fondamenta della sua estetica teologica: Apokalypse der deutschen Seele, Salzburg 1937.
[3] Importante l’opera pionieristica sul rapporto tra religioni mitiche e cristianesimo di Jean Daniélou, Miti pagani e mistero cristiano, ed Paoline, Catania 1968.
[4] Institutio Generalis Missalis Romani, Ex editione typica tertia cura et studio Congregationis de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum excepta, Lib. Ed. Vaticana, 2000: 1.
[5] Cf. il mio articolo su Dialoghi Mediterranei, n. 54 (marzo 2022): Arte normanna in Sicilia. Proiezione simbolica di modelli teologico-politici.
[6] I due aspetti li ho ampiamente trattati nei miei due volumi: Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano, per il ritorno ad una liturgia più evangelica, Feeria ed., Panzano in Chianti-Firenze 2003; Liturgia medievale per la chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del rito romano, Feeria ed., Panzano in Chianti-Firenze 2013.
[7] Saggi di considerevole spessore sono quelli di: B. Berenson, Piero della Francesca o dell’arte non eloquente, Abscondita, Milano 2007; C. Ginzburg, Indagini su Piero. Il Battesimo, il ciclo di Arezzo, la flagellazione di Urbino, Einaudi, Torino 1994; tra quelli di storici e saggisti spiccano: B. Roeck, Piero della Francesca e l’assassino, Bollati Boringhieri, Torino 2008; S. Ronchey, L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella narrazione di un grande quadro, Rizzoli, Milano 2006.
[8] F. Zeri, Dieci in Battesimo, quattro in Flagellazione, in Id., Il cannocchiale del critico, TEA, Milano 1993: 39-42.
[9] Sono le ultime battute di un libro appassionato per la riscoperta del cristianesimo che pretende «di avere qualcosa di inaudito da dire a questo tempo»: C. Giaccardi – M. Magatti, La scommessa cattolica, il Mulino, Bologna 2019: 188-189.
[10] Ivi: 189. 191.
[11] P. Florenskij, Le porte regali, Adelphi, Milano 19812 :34
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Attualmente è Referente diocesano per il Sinodo dei Vescovi. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).

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