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Pompeo Colajanni: da Partigiano a Sottosegretario alla Guerra
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2022 @ 01:33 In Letture,Politica | No Comments
di Francesco Butticè
Per chi volesse oggi condurre uno studio sulla figura del partigiano leggendario Pompeo Colajanni, non può che prendere in esame i documenti raccolti all’interno del Fondo Pompeo Colajanni, custodito presso l’Istituto Gramsci Siciliano di Palermo. Il Fondo Colajanni contiene 183 buste, e rispecchia la vulcanicità del personaggio, che durante la sua lunga vita condusse innumerevoli battaglie per il popolo siciliano, diventando così una delle icone più rappresentative del PCI isolano.
I documenti contenuti nel Fondo, attraversano le tre fasi della vita politica di Pompeo Colajanni: Cospiratore e Partigiano, Politico Nazionale e Regionale, Dirigente e membro dell’A.N.P.I.
Dallo studio del carteggio riaffiora, in modo preponderante, l’esperienza partigiana di cui Colajanni si servì anche nei suoi innumerevoli discorsi pronunciati nella sala di Palazzo Ercole, sede del Parlamento regionale Siciliano. Nonostante i suoi ideali fossero apertamente di sinistra, Colajanni nacque, nel 1906 a Caltanissetta, da una famiglia nobile, con ideali repubblicani. Furono proprio questi ideali, trasmessegli dallo zio Napoleone Colajanni, a forgiare in un primo momento lo spirito del giovane Pompeo, che iscrittosi al PRI divenne uno dei più giovani dirigenti di partito. Fu però nel 1921, con le istanze rivoluzionarie trasportate dal vento della Rivoluzione Russa, che il giovane Pompeo si avvicinò al Partito Comunista d’Italia divenendo in poco tempo uno dei contestatori più intransigenti del nascente fascismo nisseno. L’atteggiamento assunto nei confronti del fascismo gli costò molto, soprattutto quando, dopo la laurea in Giurisprudenza, venne chiamato a svolgere il servizio militare nel reparto Cavalleggeri di Palermo: per i suoi ideali, infatti, non andò oltre al grado di tenente, cosa abbastanza insolita visto il retaggio nobiliare e il percorso di studi intrapreso. Finita la leva ritornò a Caltanissetta dove dedicò anima e corpo alla creazione di una prima rete cospirativa antifascista, in cui confluirono non solo comunisti, ma anche anarchici, repubblicani, socialisti e monarchici. Nacque così il Fronte Unitario Antifascista, FUAI, che in questa prima fase servì a forgiare le giovani leve che dal giugno 1940 iniziarono ad essere inviati sui vari fronti del Secondo conflitto mondiale, così ricorderà Colajanni quel periodo:
Tale attività, raccontata da Colajanni nelle tante interviste rese ai vari giornali italiani, porterà alla nascita dell’Alleanza Militare Italia Libera (A.M.I.L), ma minerà ancora una volta la sua carriera militare. Infatti, nel 1942 la Procura di Caltanissetta aprì un fascicolo nei suoi confronti, che gli costò il trasferimento in Piemonte, più precisamente a Pinerolo. Non c’è da stupirsi se il tenente Colajanni riuscì ad ambientarsi anche in quel nuovo contesto, più freddo ma carico di vitalità politica contraria al regime. In quegli ultimi mesi di dittatura fascista, il tenente di cavalleria allaccerà rapporti con i compagni piemontesi, e con i colleghi di altri reggimenti ostili al fascismo, come avvenne per il professore Augusto Monti, con cui Colajanni strinse una durevole amicizia che gli consenti di entrare in contatto con i dirigenti del PCI piemontese.
La complessità degli eventi, che si innescarono a partire dal 10 luglio 1943, giocò a favore degli antifascisti italiani: con lo sbarco alleato in Sicilia la guerra arrivò anche nella penisola italiana, e questo favorì l’ala meno intransigente all’interno del Partito fascista, che – come è noto – il 25 luglio in una seduta del Gran Consiglio votò le dimissioni di Mussolini. Con la scomparsa di Mussolini dalla scena politica nazionale, il nuovo capo del governo, il generale Pietro Badoglio, in un primo momento rinnovò l’alleanza con i tedeschi, mentre iniziava per gli alleati la lunga liberazione della penisola, che sarebbe culminata con l’armistizio dell’8 settembre 1943, e avrebbe favorito il consolidarsi di una solida resistenza militare e civile, con al centro il Comitato di Liberazione Nazionale. Malgrado le aspettative creatasi a partire da quella data, la risposta tedesca non tardò ad arrivare. Infatti, i tedeschi discesero la penisola occupando le principali città italiane, da Torino a Roma.
L’8 settembre venne percepito, quindi, dagli italiani di quel periodo con lo stesso animo con cui i cittadini dell’Impero romano percepirono il sacco di Roma del 410 d.C, ovvero come una frattura, tra il vecchio e il nuovo che si andava costruendo giorno dopo giorno e a cui tutti, anche gli indifferenti, avrebbero preso parte. In questo senso, la scelta era obbligatoria ed essenziale, come spiega bene Giovanni De Luna nel libro La Resistenza perfetta:
La stessa sensazione di libertà accompagnò Pompeo Colajanni, che nella notte del 10 settembre del 1943, riunì ufficiali e sottoufficiali e si diresse a Barge, dove iniziò la scalata verso le Alpi Cozie. Colajanni «scelse come nome di battaglia quello di Nicola Barbato – nel ricordo del fiero sindacalista che, nel 1894, aveva animato la rivolta dei Fasci siciliani – diventando naturalmente, irresistibilmente un capo partigiano al punto da incarnarne quasi il prototipo» [3].
Come il Comandante Barbato, molti erano i soldati meridionali che, dopo la proclamazione dell’armistizio, restarono intrappolati in quel marasma creatosi a cause delle rovinose ambiguità di Badoglio. Questi soldati ingrossarono le file partigiane, e sul finire della guerra ebbero ben pochi riconoscimenti. Oltre ai soldati sbandati, il nucleo più consistente, che affiancò il gruppo di Barbato fu quello costituito dal Partito comunista torinese. Infatti:
Con questo primo gruppo, consolidatosi già verso la fine di settembre, Colajanni creò la prima banda partigiana, la “Carlo Pisacane” che in seguito, con la nascita del CLN, confluirà nelle bande Garibaldine, con il nome di IV Brigata Garibaldi. Malgrado le prime avvisaglie di libertà, dopo i 22 anni di dittatura, si delineava uno scenario disastroso che sarebbe durato per ben due anni: con “L’Operazione Quercia”, infatti, attuata dalle SS, il 12 settembre 1943, venne liberato al Gran Sasso Mussolini, cui seguì la nascita della Repubblica Sociale Italiana, costituitasi il 23 settembre 1943. Da qui l’avvio alla guerra civile, combattuta nel settentrione italiano. Nei due anni di guerra che si delinearono, le torture e gli eccidi attuati nei confronti dei partigiani e della popolazione civile dalle SS e dai repubblichini furono innumerevoli, come racconta tristemente lo stesso Colajanni, nel libro Le cospirazioni parallele, curato da Maurizio Rizza:
Gli eccidi e le atrocità non fermarono, però, le speranze di chi aveva intrapreso la guerra partigiana, e per prevenirli era opportuno cambiare le strategie di attacco. Da questo punto di vista: giocò un ruolo fondamentale la per ben due anni. Alle vittorie, riportate sui vari fronti piemontesi, e ai sacrifici e alle privazioni, seguì l’eroica liberazione di Torino che ebbe inizio il 18 aprile 1945, con l’annuncio dello sciopero generale e con la conseguente occupazione delle fabbriche da parte degli operai, e con gli attacchi dei Gap alle postazioni tedesche. preparazione culturale e militare di Colajanni. Diversamente dagli altri ufficiali il Comandante Barbato, sapeva che la guerra in montagna doveva svolgersi con tattiche diverse da quelle sperimentate in precedenza: in montagna erano di fondamentale importanza la discrezione e la rapidità dell’attacco. Iniziò il periodo del sabotaggio e della guerriglia in tutta la pianura piemontese che per la sua portata paralizzò l’esercito tedesco,
Nel frattempo i partigiani della IV Divisione Garibaldi liberarono Chieri. Gli operai e i Gap resistevano ai contrattacchi tedeschi: per sei giorni difesero le postazioni dando filo da torcere alle armate della Wehrmacht e delle SS, prima che venisse diramato il piano insurrezionale E27. Tuttavia, mentre Milano veniva liberata, a Torino nella notte del 25 Aprile il comando alleato fermò l’insurrezione: il Colonello Stevens decise, a causa dello squilibrio creatosi tra i due schieramenti, di ritirare l’ordine d’insurrezione, generando una vera e propria paralisi tra le truppe impegnate nei combattimenti. Il Comandante Barbato, raccontando successivamente questo episodio, così descrive quelle ore prima della liberazione della prima capitale d’Italia:
Eppure non era il momento di disperare: in quelle ore di sconforto Colajanni decise di assumersi la responsabilità, dando l’ordine a “Petralia” [7] di continuare l’attacco non solo in periferia ma in tutte quelle zone della città in cui erano presenti gli avamposti delle forze germaniche. Malgrado le avversità dopo tre giorni di combattimenti, il 28 aprile la città di Torino era libera, come ricorderà Colajanni: «il patriottismo e la capacità dei dirigenti politici e militari dell’insurrezione, il generoso slancio degli operai, del popolo, il valore e l’iniziativa dei partigiani ebbero ragione di ogni intrigo, di ogni difficolta ed assicurarono al Piemonte, all’Italia la gloria di quelle giornate memorabili»[8].
Il Sottosegretario alla Guerra: La smobilitazione e l’amnistia Togliatti
A guerra conclusa divenne una figura leggendaria per tutto l’alto comando militare e per gli apparati del CLN: aveva fatto una notevole esperienza e creato dei forti legami con uomini politici e militari, durante gli anni della cospirazione e della Resistenza e, come tutti i partigiani, considererà la Liberazione come il giorno più bello della sua esistenza. È forse anche per questa ragione che durante le interviste dedicate a questo tema, alla narrazione di questi avvenimenti, Colajanni mostrava un sorriso che negli ultimi anni era intriso di rimpianti e amarezze per la “Resistenza tradita”. Deposte le armi, il CLN gli affidò un primo incarico come vice Questore di Torino e, in seguito, come Sottosegretario alla guerra nel governo Parri e nel primo governo De Gasperi.
In questa prima fase all’interno della vita politica del Paese, Colajanni si occuperà della smobilitazione dell’esercito partigiano e in seguito dell’amnistia Togliatti. I due governi di Unità Nazionale dovettero affrontare numerosi problemi di natura sociale ed economica: la produzione industriale era calata a meno di un terzo rispetto a quella postbellica mentre l’inflazione era aumentata vertiginosamente, facendo diminuire il potere di acquisto dei cittadini. Tuttavia, il problema più grave restava quello degli sfollati: migliaia di persone che, a causa dei bombardamenti, avevano perso la casa e tutti i loro effetti. Come conseguenza diretta del razionamento si registrò, da parte della popolazione, una marcata propensione nei confronti del mercato nero che in molti casi, specialmente nel sud, aveva accesso ai beni razionati. Il conflitto, che dilagò in quel periodo, ebbe tratti anche politici, differenti nelle diverse zone della penisola: nella parte settentrionale furono frequenti i casi di giustizia sommaria, attuati dai partigiani nei confronti di ex esponenti del partito fascista che, nel ventennio e durante la guerra, avevano sistematicamente vessato gli oppositori del regime e, non di rado, appoggiato gli occupatori nazisti; nel sud Italia e nelle isole riprese l’occupazione delle terre, adesso, sostenute dal decreto Gullo e appoggiate dal PCI.
Era questa la situazione in cui l’Italia versava nell’estate del 1945, quando Pompeo Colajanni iniziò il suo lavoro al Ministero della Guerra: uno dei primi incarichi assegnatogli dal Governo di Unità Nazionale, fu la “smobilitazione dell’esercito partigiano”. Dovute sono alcune precisazioni relative alla composizione dell’esercito italiano dopo l’armistizio: certamente, era formato da soldati e ufficiali che, dopo l’8 settembre, decisero per ragioni diverse di unirsi ai civili, anch’essi restii a prestare servizio nell’esercito repubblichino perché antifascisti, abbandonarono le precedenti vite e andarono in montagna. Smobilitare significava, quindi, rimandare nelle proprie regioni milioni di soldati. Questo era un grosso problema, visto che mancavano i mezzi di trasporto e le stesse vie di comunicazione erano del tutto distrutte, come distrutta era la prospettiva di vita futura di milioni di loro. Per porre rimedio ad alcune di queste incongruenze, che la smobilitazione stava aggravando, venne promulgato il Decreto Legislativo Luogotenenziale 21 agosto 1945 n 518 [9], che aveva la finalità di creare delle commissioni territoriali che riconoscessero la qualifica di partigiano combattente, e, a sua volta, assegnassero delle ricompense a tutti i patrioti che avevano combattuto per liberare l’Italia, così da facilitare il ritorno alla vita civile. Eppure, le reali condizioni in cui versavano i partigiani differivano dalla semplicità con cui il governo cercò di risolvere la complessità del problema: i soldi ricevuti come ricompensa furono pochi, e di certo non bastarono per agevolare il ritorno alla vita civile. E con queste premesse ognuno reagì a suo modo, come si legge nel memoriale recapitato a Colajanni dal generale Alessandro Trabucchi [10] , riguardo alla smobilitazione avviata in Piemonte a partire dal 30 maggio 1945:
Tuttavia, la fretta che accompagnò il provvedimento aveva varie ragioni: in primo luogo, serviva a porre fine al problema della “giustizia partigiana” contro i residui del fascismo; in secondo luogo, un motivo non meno rilevante poteva rintracciarsi nella pressione esercitata dagli alleati sul governo, insistenza, che aveva lo scopo di evitare ogni possibile prosecuzione del conflitto in chiave “rivoluzionaria” come già era successo in Grecia. Su questo ultimo punto è interessante ciò che afferma, nuovamente, il generale Trabucchi: «la smobilitazione del C.V.L. Piemonte si è svolta sotto l’urgenza del Comando Militare Alleato che, preoccupato di accelerare comunque il ritiro delle armi, si è disinteressato della sistemazione del personale»[12].
Sin dai primi mesi, il Comandante Barbato, cercò di portare avanti la causa della ricostruzione dell’esercito sulla base dell’accoglimento di quegli elementi entrati durante il periodo della Resistenza. L’idea di fondo che accompagnò questo suo progetto, risiedeva nella visione di introdurre all’interno dell’esercito tutti quei partigiani che volessero rimanere a prestare servizio. Le difficoltà che sorgevano da questa misura erano tutte di carattere puramente pratico; durante la Resistenza le azioni partigiane differivano molto da quelle di un esercito permanente: i partigiani, nei fatti, mettevano in atto vere e proprie azioni di guerriglia, ma nel far ciò «molti comandanti partigiani hanno dato [diedero] prova non soltanto di ardire e di coraggio, ma ancora di encomiabilissima capacità organizzativa» [13]. Secondo Colajanni e altri ufficiali, quindi, era necessario creare dei corsi di addestramento, così da garantire la necessaria cultura militare per aspirare alla carica di ufficiale.
Tuttavia, l’obiettivo non secondario che accompagnò questo progetto mirava alla democratizzazione dell’esercito; questa prospettiva aveva due finalità: la prima risiedeva nella speranza di garantire un’alternativa ai patrioti e, quindi, un futuro dignitoso; in secondo luogo permetteva di ricostruire l’esercito sulla base dei valori della Resistenza. A testimonianza, però, dei sentimenti che imperavano tra le file partigiane in quel momento, Colajanni scriverà:
Se il primo passo, la smobilitazione e il rifacimento dell’esercito, turbò gli animi di Colajanni instillando in lui un senso d’amarezza e di insoddisfazione, le speranze di tutti coloro che combatterono per la liberazione della penisola, risiedevano, ancora in quel primo periodo, nella rinascita dell’Italia su basi democratiche. Era necessario ripartire da zero, ricostruendo tutto l’apparato economico e amministrativo ed epurando tutti gli ufficiali e i funzionari che in precedenza avevano giurato fedeltà al regime. Maggiore importanza assumeva, in quel periodo, la ricostruzione delle strutture governative modellate sulla stesura di una Costituzione che desse un giusto riconoscimento alla Resistenza, così da non ricadere nuovamente nello squallore del fascismo e nella mortificazione della sconfitta. A tal proposito è utile rileggere ciò che ne pensava il Sottosegretario alla guerra:
Tuttavia, in Italia non ci fu mai nessun “Processo di Norimberga” e le ragioni di ciò hanno mutevole e controversa natura: alcune sono solo il frutto di decisioni politiche nazionali, mentre altre derivano da alcune ingerenze da parte degli alleati. Nel primo caso, le colpe del fascismo furono lavate già a partire dal 1943 quando, dopo l’armistizio di Cassibile, gli italiani divennero alleati degli Anglo-americani e iniziò a circolare la retorica degli “Italiani brava gente”, argomento di cui ampiamente si discute nell’opera intitolata Il cattivo tedesco e il bravo italiano dove l’autore, Filippo Focardi, sottolinea come:
La seconda ragione affondava le sue radici nel panico e nella paura che gli alleati avevano nei confronti del PCI, uscito dalla guerra ancora più rafforzato e con maggiori sostenitori: è possibile che gli americani vedessero in alcuni ex fascisti un futuro strumento deterrente contro una “riscossa comunista”. Il desiderio di Colajanni di «riparare le rovine materiali e spirituali del fascismo ed eliminare le cause politiche e sociali del fascismo» venne quindi meno e fu in questa ottica che si inserì anche “L’amnistia Togliatti”, per la quale collaborò insieme a Luigi Chatrian, allora anch’egli Sottosegretario alla guerra della DC. Lo scopo di questa legge, entrata in vigore il 22 giugno 1946, era quello di condonare i reati minori o diminuire le pene a seconda dei crimini commessi durante l’occupazione nazista. La seconda parte prevedeva l’epurazione di giudici, funzionari e di graduati dell’esercito che avevano aderito alla Repubblica di Salò dopo l’8 settembre. Nel provvedimento rientravano anche le accuse di diserzione dei soldati italiani che avevano abbandonato l’esercito per unirsi ai partigiani, come si legge nell’articolo 3 del decreto legge del 6 aprile 1946, allegato all’amnistia:
Colajanni che per l’appunto, era Sottosegretario alla guerra, contribuì maggiormente su questa parte della legge e, tramite una lettera inviata a Togliatti [18], fece includere nel provvedimento anche i soldati italiani che, sul fronte Jugoslavo, disertarono per unirsi alla Resistenza Titina. Sul finire del I Governo De Gasperi, e dopo essersi candidato per la Costituente senza essere eletto, “Barbato” decise di far ritorno in Sicilia. Questi anni di Sottosegretario alla guerra lasciarono l’amaro in bocca: furono molte «le resistenze al suo desiderio di dare un giusto riconoscimento a tutti coloro che avevano partecipato alla guerra partigiana» [19] e, del resto, l’ex Comandante Barbato intuì come la lotta partigiana fosse passata in secondo piano, sia dentro la DC che nel suo partito. Per capire meglio questi sentimenti bisogna riprendere, nuovamente, un passo dal memoriale del generale Trabucchi che, già nel 1945, percepì le stesse emozioni provate da Colajanni nei confronti dei patrioti piemontesi:
Con l’insediamento del II Governo De Gasperi, avvenuto nel luglio 1946, Colajanni chiese a Togliatti di poter ritornare in Sicilia, dove già divampava la lotta contadina sostenuta dal rinato partito comunista.
In conclusione il nome di Pompeo Colajanni oggi riecheggia nelle pagine della storia italiana. Uomo poliedrico, politico determinato, il nisseno Colajanni, ritornato in Sicilia, abbraccerà le lotte che divamparono sull’isola, per l’autonomia e la riforma agraria, e per questo suo aspetto di politico instancabile e vulcanico saprà districarsi per ben 22 anni nelle dispute politiche sorte all’interno del Parlamento siciliano.
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