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Piccoli ‘collages’ d’agosto per piccoli paesi

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Ponte Taro, prov. Parma, da Territori spezzati (ph. Rosetta Bonatti)

di Pietro Clemente

Que viva el Presidente

Il 22 agosto L’Unione sarda ha pubblicato una intervista al Presidente della Repubblica, che era stato in vacanza a La Maddalena, in cui Mattarella – nel quadro drammatico del disastro del ponte di Genova – esprime autorevolmente la sua idea di una cittadinanza di uguali opportunità per tutti, ed insiste sul tema delle piccole isole e delle zone svantaggiate. Mette conto trascriverne dei passi:

«Non mi stanco mai di ripetere che i cittadini italiani hanno gli stessi diritti, indipendentemente dalla loro collocazione geografica. E di sollecitare l’attenzione e il sostegno degli organi centrali di governo nei confronti delle isole minori, dei territori montani e delle zone interne del nostro Paese: i loro abitanti – tenendo vivi e ben curati i loro luoghi- svolgono un ruolo fondamentale a beneficio di tutta la comunità nazionale. ..È indispensabile – per ragioni di eguaglianza e per interesse nazionale – assicurare agli abitanti di quelle località servizi non dissimili da quelli di cui possono avvalersi i loro concittadini delle grandi città» [1].

Ho comprato altri giornali lo stesso giorno, ma l’intervista è rimasta circoscritta alla Sardegna, anche se enuncia temi di larghissimo interesse. In un certo senso Mattarella delinea il senso del diritto di cittadinanza in una chiave tutto sommato molto diversa da quella di tante evidenze locali che conosciamo: chiusure di scuole, ospedali, uffici postali, linee di treni e di bus. Lo sento quasi come un manifesto dei diritti negati e un orizzonte per chi lotta per conquistarli.

L’estate sarda del 2018 è stata drammatica per i viaggi navali e aerei, disservizi e aumenti dei prezzi l’hanno caratterizzata, in disprezzo totale per le persone e i loro diritti. Il ponte di Genova getta una luce dolorosa su un mondo di profitti nel campo dei trasporti che dimentica la centralità dei cittadini. Vivere, muoversi, essere informati chiaramente e tempestivamente, poter decidere, scegliere, si misura e si confronta con convenzioni stipulate e con interessi aziendali che anziché partire da lì, dai diritti, di fatto subordinano questi a criteri propri e privatistici. Chissà dove sono finite le maledizioni dei sardi di tutte la generazioni verso la Tirrenia. Dal mio primo viaggio nel 1947 al più recente nel 2018 non ho visto miglioramenti vistosi né nei tempi dei viaggi, né nello stile di gestione, né nei rapporti con chi viaggia. Ora non c’è più nemmeno traccia di concorrenza tra compagnie di navigazione, né la Regione Sarda è in grado di imporre almeno ragionevolezza nei prezzi dei tre mesi d’estate.

Ma l’importante è che Mattarella abbia ribadito una idea di cittadinanza e di eguaglianza che sentiamo essere al centro della rete dei piccoli paesi, e  che dà al lavoro che si fa in questi luoghi del ritorno, del riabitare, dell’investire nelle zone interne e marginali, un valore di interesse nazionale, di beneficio per la comunità nazionale.

Io credo che sia giusto ricordare spesso queste parole. In tutti i piccoli paesi che hanno animato le pagine di Dialoghi Mediterranei e la sezione ‘Il centro in periferia’, ci sono state lotte per i servizi, la scuola, l’ospedale, la farmacia, il presidio medico, l’ufficio postale, per i mezzi pubblici di trasporto. A Monticchiello diversi spettacoli del Teatro Povero, hanno raccontato le crisi demografica, la lotta per i servizi, quella per l’ufficio postale, la critica verso le unioni quasi forzate di paesi. Le parole di Mattarella aiutano a pensare che sono state lotte per la democrazia, per poter vivere i diritti da eguali. Molti dei piccoli paesi ci hanno pensato da sé a costruire servizi per sopravvivere, ma non sempre e dappertutto è possibile. L’idea stessa che sia fuori tempo abitare nei paesi di montagna e nei paesi abbandonati della Calabria e della Sardegna è contraddetta dal Presidente quando riconosce il valore nazionale e di cura del comune territorio al lavoro di resistenza, anzi di resilienza, dei piccoli paesi. Alla fine, constatando un tendenza irreversibile, finivamo per essere tutti più realisti del re, finivamo per accettare la tendenza, o per pensare che toccava a chi voleva vivere nel posto risolversi da sé i problemi. Invece: «i loro abitanti – tenendo vivi e ben curati i loro luoghi – svolgono un ruolo fondamentale a beneficio di tutta la comunità nazionale».

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Il Presidente Mattarella con il sindaco di La Maddalena, Luca Carlo Montello

Storie di beni nostri

L’espressione usata dal Presidente Mattarella in fondo vuol dire che i piccoli paesi e le zone interne sono patrimonio culturale comune e che è compito comune che essi «cessino di consumarsi senza orizzonte di storia» [2].

Una delle principali trasformazioni dell’idea nazionale del patrimonio culturale, materiale e immateriale, negli ultimi dieci anni, è quello che lo vede come legato alla cittadinanza, difeso e promosso dalle comunità, fattore rilevante dello sviluppo sostenibile, centrale nella rinascita delle zone terremotate, e non più ‘campo’ di esperti raffinati e supersapienti. Il patrimonio inteso in questo senso comincia a ispirare il mondo creativo e l’arte. Pittori, registi, uomini e donne di teatro, fotografi alimentano e animano la vita dei luoghi marginali e cercano così di ‘porre il centro in periferia’.

Sempre il 22 agosto su La Repubblica, ho letto un articolo di Arianna Finos, Rubini custode della memoria di un paese tradito (pag.37). Racconta la storia narrata da un film che il regista Pippo Muzzopappa porterà a Venezia dal titolo Il bene mio. Il protagonista è l’attore Sergio Rubini e connette una storia di amore e di un paese abbandonato causa di un terremoto. Un paese che si chiama Provvidenza, come la barca dei Malavoglia di Verga. Dopo il terremoto tutti si sono trasferiti nel paese rifatto, a Provvidenza Nuova, salvo il protagonista che resta come custode di memorie, di luoghi in fedeltà al ricordo della moglie morta. Spopolamento, memoria, sentimenti, senso dei luoghi si connettono. Mi torna alla mente il film realizzato su Portis da Stefano Morandini, antropologo visivo friulano.

Il paese venne completamente distrutto dal terremoto dche colpì il Friuli nel 1976: l’intera popolazione fu evacuata e trasferita un po’ più a monte, dove venne fondato il 28 novembre 1981 il paese di Portis Nuova (ab.198, frazione del comune di Venzone), oggi nuovo centro della frazione. Il centro storico, invece, ora noto con il nome di Portis Vecchia, conserva ancora i ruderi dell’antica chiesa ed è considerato come un “paese fantasma”, in quanto gli edifici sono rimasti esattamente com’erano nel momento del definitivo abbandono. Attualmente il paese viene utilizzato dalla protezione civile e dai vigili de fuoco come luogo di esercitazione per calamità naturali (fonte Wikipedia).

Portis è un bel documentario di cinema antropologico sia per ricerca che per immagini. Al centro c’è il culto crescente, da parte della popolazione del paese nuovo, per i resti di quello vecchio. Un caso forte di sentimento del luogo e della memoria irreversibile della località vissuta. Spero che ne possiamo parlare presto in Dialoghi Mediterranei.

2Cooperative di comunità

Il 25 agosto sul programma televisivo Rai 24 al primo mattino, ho visto Davide Casamenti, Stefano e Maicol Mescolini, tre giovani, sui trent’anni, che parlavano del loro impegno a costruire una nuova vita a San Zeno, frazione di Galeata (Forli-Cesena) in Romagna. San Zeno ha circa 180 abitanti e la cooperativa si propone di rianimare questa frazione che ha avuto in passato fino a 2000 abitanti, con bar e servizi per dare ai cittadini quell’uguaglianza che la Costituzione stabilisce, che il Presidente della Repubblica segnala ai politici, che però si ottengono soprattutto se ci si rimboccano le maniche. Su Staff 4live del 10 agosto viene raccontata così:

«I tre giovani. lasciandosi ispirare dalle parole di Papa Francesco – dovete continuare a inventare nuove forme di cooperazione, perché anche per le cooperative vale il monito: quando l’albero mette  nuovi  rami, le radici sono vive e il tronco è forte! – hanno dato vita a questa iniziativa dalla forte valenza sociale. La cooperativa di Comunità San Zeno è un progetto che comincia con l’apertura di un locale pizzeria  nel  centro del paese e che intende diventare punto di riferimento per l’intera comunità. In cantiere moltissimi progetti a cominciare dal trasporto scolastico dei bambini residenti ma anche l’accompagnamento degli anziani alle visite mediche, la consegna di farmaci a domicilio e sventare la chiusura dell’unico   negozio  del paese (alimentari sali e tabacchi). A sostegno dei giovani imprenditori, oltre a Confcooperative Forlì- Cesena, anche Fondosviluppo, organismo di Confcooperative per la promozione di nuove forme di cooperazione, che ha creduto in questo progetto e ha deciso di sostenerlo economicamente».

Così ne parla Confcooperative (Romagna 30 luglio), che prosegue con determinazione il percorso verso l’innovazione con un occhio sempre attento ai territori e ai bisogni emergenti a seguito dei mutamenti sociali in atto. Un aspetto a questo proposito molto interessante sono le cooperative di comunità, organismi che nascono dal basso e che prendono spunto da valori tradizionali come quelli del buon vicinato, specie in piccoli paesi o quartieri cittadini.

«In effetti – spiega Mirco Coriaci, direttore di Confcooperative Forlì-Cesena – dopo aver approfondito adeguatamente questa opportunità, ci siamo resi conto che può rappresentare un valore aggiunto specie per le comunità decentrate del nostro territorio: penso ad alcuni paesi del nostro Appennino, che soffrono da tanti anni di spopolamento e che progressivamente perdono quei servizi essenziali per consentire la permanenza degli abitanti in loco».

A questo proposito è particolarmente interessante l’esperienza della storica cooperativa di comunità Valle dei Cavalieri sorta nel 1991 fa a Succiso, piccolo borgo dell’Appennino reggiano, con l’obiettivo di salvare un paese che, dopo la chiusura dell’ultimo negozio, era destinato a morire. Ebbene oggi a distanza di più di 25 anni la cooperativa gestisce il trasporto scolastico, rifornisce di medicinali gli anziani del paese, cura servizi di ricettività turistica, gestisce un’azienda agricola, un ristorante e un negozio di alimentari, offrendo, quindi, servizi utili alla collettività e creando anche posti di lavoro.

«L’esperienza di Succiso – continua Coriaci – è stata per noi uno stimolo per progettare qualcosa di analogo sul nostro territorio: nel mese di febbraio di quest’anno è stata, infatti, costituita per iniziativa di tre soci la cooperativa di comunità San Zeno, che ha sede nella frazioncina di Galeata, localizzata, però, nella valle del Rabbi».

Anche questo è un esempio di nuovi fermenti che aprono qualche speranza di reversibilità delle grandi tendenze. Molte volte nella rete dei piccoli paesi che anima la nostra rubrica, si è parlato di cooperative di comunità come strumento per costruire cittadinanza, per salvare il patrimonio culturale, per far vivere la cultura dei luoghi, per creare sviluppo. Auguri dunque a San Zeno, pronti ad accogliere le loro esperienze anche sulle nostre pagine.

 Cooperative di comunità, una scuola a Succito (RE)

Cooperative di comunità, una scuola a Succito (RE)

Parole chiave

In queste pagine presentiamo quattro articoli, sono testi molto diversi tra loro, anche se in tutti il “centro vien posto in periferia”. Propongono anche molte immagini, molto interessanti da confrontare per somiglianze e differenze. Essi suggeriscono varietà di mondi, ma a ben vedere segnalano piccoli sistemi, parole chiave, di più ampia prospettiva. I paesi di principale riferimento sono Padru, nella Sardegna del Nord est, alcuni paesi dell’Irpinia (Serino) e del Lazio (Roviano), nonché della Corsica del Nord Est (la Pieve di Serra e in particolare il paese di Pianellu), e un paese della Toscana: Pontito (vedi anche l’articolo di M. Fresta nel numero precedente di Dialoghi) in Toscana, un altro articolo ha carattere più generale e panoramico. Le storie diverse pongono però problemi e confronti comuni, e dialogano con il mondo di riferimento del testo più generale dedicato alla geografia delle zone di crisi, dei territori spezzati.

Forse le parole chiave che li possono riguardare trasversalmente sono turismo, abbandono e ritorno, comunità e democrazie del fare, paesaggio e memoria vissuta, pluralità dei modi di essere di un piccolo mondo. Ci lasciamo brevemente guidare da questi argomenti. Il tema del turismo è nel dibattito del Convegno Territori spezzati, qui proposto da Giancarlo Macchi Janica in Un dialogo sui territori spezzati. Ormai è acquisito che il turismo non è un nemico ma una risorsa, ma nel dibattito sembra cogliere il dubbio che possa essere una risorsa fondamentale e definitiva. Oggi anche chi non ama il turismo riconosce che la formula dei ‘cittadini temporanei’, dei cittadini ‘onorari’, di quelli che scelgono le piccole comunità come ‘patrie culturali’ o simboliche, può essere decisiva per creare visibilità attenzione, comunicazione ma in effetti è lo sviluppo locale che non sempre il turismo favorisce, almeno in forme plurali e differenziate che non dipendano solo da esso. Varrebbe la pena di discuterne, a tutto campo, tra discipline diverse, perché il turismo ha ormai studi importanti e applicativi che per lo più sono ignorati dai comuni e dalle comunità, che operano in questo campo in modo intuitivo e basato sul senso comune, sul domani e non sul dopodomani. Non ha senso che il turismo sia invocato e poi vissuto come un fenomeno meteorologico o mitico (tra panacea e catastrofe) , e non sociale da progettare e gestire.

Nel dibattito anche il tema del ritorno viene messo in questione: fino che punto è giusto riabitare e rianimare le comunità, non è uno spreco di risorse se non ci sono basi fondate per farlo? È bene anche qui uscire dalle ideologie e porsi tutte le domande possibili. Nella rete dei piccoli paesi tutti sono consapevoli della sfida e del possibile insuccesso in tempi medio-lunghi del riabitare, ed è orientarsi insieme nel farlo la missione comune. Ma è anche vero che non è sempre possibile nello stesso modo comunque. Speriamo di poter coinvolgere in questa riflessione quegli ecomusei che hanno più diretto coinvolgimento in processi di sviluppo locale, perché anch’essi sono una risorsa importante in questo scenario. Forse lo faremo già nel prossimo numero.

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da Territori spezzati (ph. Barbara Bergonzini)

Comunità e democrazie del fare sono temi lanciati rispettivamente da SIMBDEA (Società per la museografia e i beni demoetnoantropologici) e da SdT (Società dei Territorialisti), sono temi difficili. La rivista Antropologia Museale proponendo il tema delle comunità oggi nel n. 37/39, in specie quello delle comunità patrimoniali, ha accolto una ampia pluralità di prospettive. Nell’articolo Alessandra Broccolini Le “comunità di eredità” come democrazie del fare (vedi infra) mette in campo esperienze diverse, tra carnevali irpini, pupazze laziali e abruzzesi e confraternite corse. Credo che sia già un punto importante guardare a queste attività non più come ‘tradizioni’ ma come atti culturali, iniziative patrimoniali, che – in quanto richiedono impegno, organizzazione, gestione – sono cultura attiva, e nel produrre partecipazione sono anche forme di socialità propri della società civile, e quindi ‘democrazia attiva’ anche se parziale e internamente differenziata. Cosa connette una confraternita legata al mondo religioso con un carnevale o con una festa locale in cui vengono costruite delle ‘pupazze’ tra creatività artistica e racconti di fondazione? Forse più di quanto appaia. Le tradizioni e il folklore sono ancora visti spesso come animati da schemi arcaici in cui i cittadini agenti non sono attivi nella cultura presente, ma quasi fantasmi di culture passate. Basta cambiare sguardo per vedere che quella società civile italiana che Gramsci ci ha insegnato a leggere come ricca e articolata è fatta anche da queste pratiche di partecipazione ricche di simboli e di socialità.

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Ex acciaieria a Safau, Udine, da Territori spezzati (ph. Giovanni Bosciolo)

Il paesaggio e la memoria sono quasi le basi della coscienza di luogo, il racconto dei percorsi culturali fatti a Padru, è quasi paradigmatico. Quasi ovunque paesaggio e memoria si sono perduti con l’abbandono e le emigrazioni, e farli di nuovo ‘parlare’, evidenzia che la natura locale vissuta per secoli, trasformata e insieme costruttrice di stili e di saperi, è ancora attingibile. Prospettive per il controesodo di Corradino Seddaiu, racconta un imparare facendo, un rianimare camminando e infine un registrare le sonorità ambientali (la fonosfera), perché la memoria possa ancora rendere percepibili le diversità che si sono perdute, per riapprenderle o anche solo per saperle. Sono esperienze importanti da fare ovunque, anche coraggiose nel cercare il nesso difficile tra le generazioni dell’abbandono e quelle del ritorno.

Infine: De Simonis, Pontito, Svizzera Pesciatina, San Francisco: prese forma altrove l’angoscia per il qui è il racconto plurale, polivocale, delle connessioni che animano anche i paesi che sembrano non esserci più o apparire come deserti, un testo che da un lato sperimenta un sistema tra etnografie del vuoto ed etnografie del pieno (vedi anche Thin o thick description) se confrontato con il testo di Fresta su Pontito del numero scorso, ma che propone un modello anche di intensità del mondo documentario e di azioni che tra passato e futuro avvolge, infiltra mondi locali. Pontito per quanto deserta è piena di vita, quasi grondante come un frutto maturo, perché le azioni e le passioni che l’hanno segnata restano vive. Sottrarsi alla morte e al silenzio chiede solo attenzione, e – nelle pagine su Pontito, che possono essere stese a tanti altri paesi – ognuno con la sua differenza radicale, De Simonis mostra a chi li crede esausti i piccoli mondi locali come animati da vite straordinarie. Basta cambiare lo sguardo per ritrovare la coscienza di luogo, e l’unicità di ogni memoria storica del vissuto.

Anche le fotografie allegate a questi quattro testi costituiscono una sorta di mondo di immagini ricco di sfumature, tre di esse sono di un concorso fotografico e sono forse accomunate dai luoghi abbandonati come oggetti di ‘visioni’. Dotati di anime singolari e uniche. Negli altri testi una comparazione continua di forme, di colori, di generazioni e di età, di vero e di dipinto, di creativo e di documentario, di storico e di attuale aiuta ad avere un’idea dei piccoli paesi come forse noi li immaginiamo: non i deserti dell’abbandono, ma il fall aut dei colori e delle forme che restituiscono vivacità e immaginazione ai deserti urbani della socialità, del rapporto con la natura, dello sviluppo edilizio. Aiutano a vedere – dalla frontiera delle iniziative che dalle città guardano ai mondi delle periferie che si pongono al centro – la marginalità come nucleo futuro dei colori di un altro mondo possibile.

Dialoghi Mediterranei, n. 33, settembre 2018
Note
[1] Ivan Pisano, Mattarella: dare più diritti ai sardi, in L’Unione Sarda, 22.08.2018, pag. 3. Brutto titolo ma bella intervista di interesse generale.
[2] E. De Martino, Note lucane in Id. Furore, simbolo, valore, Milano, Feltrinelli, 2002. L’antropologo napoletano, che scelse la Basilicata come propria patria culturale, usò questa espressione riferendosi alla gente dei paesi della Basilicata poveri e marginalizzati.
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); direttore della rivista LARES, membro della redazione di Antropologia Museale, collabora con la  Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
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