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Percorsi antropologici nel Giardino all’Acquasanta a Palermo
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2022 @ 01:37 In Cultura,Società | No Comments
di Laura Leto
Ripercorrendo i momenti salienti della mia formazione, mi sono resa conto di aver rivolto sovente le mie attenzioni al rapporto dell’uomo con la morte. Sulle prime due pagine della mia tesina erano riportati i geroglifici “änk” e “met” (vita vs morte) [1], due concetti impegnativi per una bambina che aveva già avuto a che fare con la perdita del suo caro nonno e che evidentemente ne era rimasta profondamente segnata, interrogandosi sul come gli uomini affrontassero questo evento nel corso della storia e come gli intellettuali tentassero di raccontarlo ed indagarlo.
Sulla terza pagina riportavo l’ode di Orazio:
L’ode illustra come la piramide, monumento funebre per eccellenza, trasmetta il valore del momento trascendentale del passaggio dalla vita alla morte, in un continuum volto all’eternizzazione del defunto. Non mi dilungherò di certo nel raccontare l’intero elaborato e i contributi del Foscolo, Pascoli, Montale e Ungaretti, ma mi colpisce come inconsapevolmente, dopo diciotto anni, mi ritrovi ad analizzare gli stessi temi… É come se si fosse chiuso un cerchio.
Seppur oggi il mio ambito di ricerca sia limitato all’analisi dell’attuale Cimitero acattolico “degli Inglesi” di Palermo, mi ritrovo ad indagare ancora il ‘fenomeno morte’ analizzato sia in chiave di coscienza collettiva, sia mediante i monumenti presenti in situ. Questi sono sì strumenti di indagine, ma non bisogna dimenticare il ruolo fondamentale che hanno avuto per le comunità straniere nel processo di elaborazione del lutto, aiutandole a rendere più tollerabile la perdita e a restituire un significato alla morte dei propri cari.
La nazionalità delle persone sepolte al Cimitero dell’Acquasanta è rivelata dall’eterogeneità architettonica che vi insiste. Le sue ridotte dimensioni e la sua forma irregolare testimoniano i mutamenti attuati nel corso dei secoli in relazione al contesto urbano che lo ha ospitato. Ad oggi rimane un luogo di contrasti, ferito dalla speculazione edilizia dell’Amministrazione comunale degli anni ’50 e un microcosmo dove sopravvivono specie vegetali dell’area mediterranea che si intrecciano con i monumenti di matrice inglese, americana, tedesca o prussiana, in un incontro tra vita e morte, tra natura e cultura, tra memoria individuale e memoria collettiva. Un recinto – come lo chiamavano i consoli inglesi dell’800 – destinato ai defunti, un ‘luogo del morire’ che dai suoi albori convive con i ‘luoghi dei vivi’, quello delle attività igienico-sanitarie, poi balneari ed infine industriali.
In un primo momento il sito era dedicato ad accogliere coloro che non superavano la malattia della quale erano affetti, non dev’essere stato semplice per i ricoverati in quarantena al Lazzaretto affacciarsi alla finestra ed avere il monito della loro fine. Eppure, oltre al senso di smarrimento ed impotenza che la morte incute nell’uomo, essa è intrinsecamente connessa alla ricerca del senso dell’esistenza, antropologicamente intesa sia in chiave spirituale che sociale. La morte – da comprendere come evento non esclusivamente biologico, bensì sociale – è uno degli elementi che più funge da collante all’interno di una comunità, ne rafforza l’identità e la coesione (Hertz 1978).
Nel 1839 a Palermo si dibatteva sulla problematica relativa alla collocazione dei defunti della Comunità inglese ivi abitante, i quali da morti non dovevano mischiarsi col resto della popolazione [3]. Il console Matteo Biscotto chiese al Governo di avere assegnato un’area cimiteriale separata da quella cattolica. La richiesta venne esaudita e all’interno del Camposanto di Santo Spirito gli venne concessa un’area distinta, ma a precise condizioni: oltre la somma di cinquanta onze, gli Inglesi dovevano rispettare determinati vincoli: «il detto pezzetto di terreno di canne quarantadue e palmi due quadrati» doveva essere delimitato da una grata di ferro con cancello e gli ornamenti architettonici dei monumenti funebri non avrebbero dovuto “offendere” – cito testualmente – il Culto della Religione Cattolica. Ciò valeva anche per la celebrazione dei riti funebri.
La questione non riguardava soltanto i cimiteri, ma anche gli altri luoghi del culto, infatti come ha scritto Michela D’Angelo, nel corso degli anni ’40 dell’Ottocento, la comunità inglese aveva difficoltà nel trovare fondi per garantire la presenza di un ministro della Chiesa d’Inghilterra che si occupasse del supporto spirituale e dell’istruzione religiosa. La presenza dei pastori anglicani era circostanziale alle navi che rimanevano in porto per un periodo limitato e ai viaggi di piacere che li conducevano sino in Sicilia. Gli atti di matrimonio che ho trovato nel tentativo di ricostruire la vita degli individui inumati all’Acquasanta e a Vergine Maria, celebrati a Malta o a Napoli, sono giustificati proprio da tale situazione [4]. Erano le famiglie di mercanti e banchieri, si pensi a quella di Rose, Whitaker e Seager, assieme ai consoli che coprivano più di un terzo delle spese. Il console John Goodwin ospitava presso la propria dimora, prima a Palazzo Lampedusa e poi a Palazzo Campofranco, una trentina di fedeli inglesi, americani e svizzeri che volevano partecipare alle celebrazioni religiose, inoltre scriveva periodicamente al Governo della necessità di fondi e dell’urgenza di un ministro che si trasferisse stabilmente in Città (D’Angelo 1995: 279-293).
La situazione migliorò decisamente quando nel 1872 Joseph Whitaker e Benjamin Ingham Junior affidarono il progetto agli architetti britannici William Barber e Henry Christian – quest’ultimo era il fratello della moglie Elisa Sophia Sanderson – per l’edificazione della chiesa anglicana Holy Cross.
Come già anticipato, se da vivi gli Inglesi erano perfettamente integrati nella società palermitana, da morti acquisivano – per quanto si evince dalla storia dei cimiteri acattolici in Città – un valore differente. Sebbene ufficialmente la prima sepoltura del Cimitero all’Acquasanta risalga al 1812 [5], sino al 1852 i rappresentanti delle cariche pubbliche palermitane parlano dei defunti inglesi in associazione ai militari [6], ma soprattutto ai suicidi e agli impenitenti.
Come sosteneva il sociologo Émile Durkheim, l’alienazione dalla società è da sempre la principale causa di suicidio e quest’ultimo storicamente – o meglio astoricamente – rappresenta un elemento che crea una frattura profonda tra una società “normale” e una considerata “patologica”[7]. Inoltre, dal momento che lo Stato era lontano dagli individui, con la sua «azione intermittente e discontinua», l’unica speranza rimaneva la solidarietà della comunità di appartenenza (Durkheim 2007). Pertanto, la coesione tra gli Inglesi e il possesso di luoghi di culto fortemente connotati erano questioni di vitale importanza, indipendentemente dall’accettazione che i Siciliani dimostrassero nei loro confronti e da quanta ricchezza potessero portare alla loro terra.
In una lettera del 1876, inviata dall’amministratore Guglielmo Rose all’Ingegnere municipale, viene denunciato il dispendio di “vistosissime somme” per il mantenimento della sezione acattolica del Cimitero di Santa Maria dei Rotoli, pur non avendone l’uso esclusivo dal momento che le Autorità municipali vi seppellivano individui di culto cattolico. Queste sono soltanto alcune delle considerazioni che venivano affrontate a proposito delle divergenze col Comune di Palermo nella gestione dei cimiteri acattolici. È tragico e allo stesso tempo grottesco che il legame che il Cimitero ha avuto col Comune, ancora oggi dopo secoli, rimanga conflittuale.
La mia ricerca non esamina esclusivamente il Cimitero come luogo fisico, ma ne analizza – oltre la sua storia – le costruzioni culturali operate. Per utilizzare le parole dell’antropologo Gianluca Ligi:
Il sito si presta perfettamente a questo tipo di analisi. Il Cimitero diviene un vero e proprio strumento che una determinata società utilizza per reagire all’azione distruttiva della stessa, in quanto annientatrice non soltanto della natura biologica dell’individuo ma del suo ‘essere sociale’ e pertanto minaccia alla coesione del gruppo. I monumenti funebri si fanno testimoni materiali identitari di ogni cultura considerata, dunque fonti da analizzare secondo un processo di narrazione dell’identità, utile alla ricostruzione del profilo delle varie culture.
A pensarci bene, il termine stesso umanità contiene in sé il verbo transitivo latino umàre (seppellire), il culto dei morti essendo alla base della civiltà umana, come sosteneva il filosofo napoletano Gianbattista Vico (1668-1744) nella sua Scienza Nuova:
Il luogo infatti rivela – certamente in cornici temporali differenti, analizzate diacronicamente – aspetti della cultura ospitante, nello specifico quella della Sicilia Borbonica e quella delle comunità straniere che per varie ragioni si trovavano sull’Isola.
L’organizzazione dello spazio è strettamente correlata alla rappresentazione culturale della morte e nonostante tutto, per la comunità inglese il Cimitero non era esclusivamente un ‘luogo del morire’. A tal proposito, ho voluto inserire nel titolo della mia tesi “Giardino svelato”[8] proprio per sottintendere un concetto che la nostra società non comprende appieno: la concezione di cimitero-giardino che affonda le radici nella tradizione paesaggistica di matrice inglese, forte sostenitrice dei parchi pubblici come elemento edificante per la città, sia da un punto di vista paesaggistico che didattico. I “giardini” vengono classificati come luoghi del ricordo, in quanto stimolano la mente e i sentimenti, luoghi dove trascorrere del tempo, leggere o passeggiare, spazi verdi integrati nella città, espressione della fusione di elementi storico-artistici e storico-architettonici che si fondono con ‘il verde’, il quale entrando in simbiosi con i monumenti, diviene espressione del ‘sentire’ di un’epoca.
A partire dal XVIII secolo il modello del cimitero-giardino si diffuse in tutta Europa, si pensi tra gli altri al Cimitero del Père-Lachaise di Parigi o al Dorotheenstädtischer Friedhof di Berlino o al Cimitero di Highgate di Londra. Il progetto di tutela e promozione del Cimitero acattolico all’Acquasanta si muove nella medesima direzione. Nella proposta progettuale che allegherò alla mia tesi e presenterò al Comune di Palermo, ho inserito volutamente la collocazione di panchine, validi strumenti di attivazione di narrazioni visive nei confronti del paesaggio che circonda lo spettatore (Jakob 2014). Auspico che venga restituita anche giustizia all’elemento vegetale al quale è stata negata ogni tutela. Non esistono più i gelsi, i cipressi e i mirti che con il loro profumo e la loro struttura costeggiavano i vialetti: sarebbe bello ripristinarli e affidare a mani esperte il compito di domarne la natura.
Analizzando il Cimitero come parte del Lazzaretto [9], non si può trascurare l’aspetto della ‘corporeità’, medium di relazione tra il proprio sé e il mondo esterno. La realtà che stiamo vivendo in questi anni di pandemia favorisce l’analisi antropologica del contesto medico-sanitario della realtà di allora, sebbene chi trasgrediva le regole rischiava ben più che una sanzione amministrativa. La stessa malattia che affliggeva il corpo si presta ad un’analisi di tipo antropologico. Essa pone il corpo al centro del processo di costruzione culturale, ma allo stesso tempo lo rende produttore di nuove conoscenze – in questo caso mediche – che lo spogliano della sua connotazione meramente biologica.
Ogni cultura ha il suo modo di definire la malattia, interpretarne i sintomi e offrire una immagine del corpo. L’analisi antropologica si pone l’obiettivo di contestualizzare il corpo a livello sociale e culturale, considerando le conoscenze relative alla malattia come profondamente connotate dalla cultura di appartenenza, interrogandosi su quali conseguenze esse producano (Geertz 1973)
Come ribadisce l’epistemologo francese Georges Canguilhem, il nucleo teorico-pratico della medicina sociale è costituito dalla triade: sanità, salubrità e sicurezza che si sovrappose, a partire dal XIX secolo, alla più vecchia concezione ippocratica: malattia-malato-medico, grazie all’intervento della società, delle strutture sanitarie e dell’assistenza pubblica (Canguilhem 1988: 15-29). Ciò ovviamente non squalifica la figura del medico, il quale assume però un ruolo nuovo, più indirizzato alla prevenzione piuttosto che alla cura, in un’ottica che vede l’abbattimento delle fonti di rischio come priorità, coadiuvato dalla presenza di nuove tecnologie sempre più specializzate che agiscono e controllano i corpi e lo spazio nel quale vivono.
La storia sanitaria di un determinato Paese va esaminata in continuità con la sua storia sociale e la malattia è considerata come struttura della società, rivelatrice della stessa. Questa è uno stato di disordine nel funzionamento del singolo, a livello microscopico, ma ciò che più interessa, della interazione tra individui. «L’identificazione delle istituzioni sanitarie, della loro architettura, del loro apparato burocratico-amministrativo […] è parte integrante della storia sociale» (Craxì 2013: 57) ed è proprio seguendo questo presupposto che lo studio del Lazzaretto di Palermo si inserisce nel contesto più ampio dello studio della società palermitana a partire dal XVI secolo sino a raggiungere il nostro presente. Esso acquisisce fondamentale importanza soprattutto per quanto riguarda il rapporto delle figure amministrative che lo gestirono e i rapporti col mondo esterno all’Isola, sia da un punto di vista sanitario che soprattutto commerciale. L’evolversi degli Uffici sanitari seguiva il ritmo delle epidemie, e la prevenzione, in quanto protezione da una minaccia esterna, era strettamente legata agli scambi commerciali.
A partire dal XVI secolo, la storia dell’originario Lazzaretto di Palermo è connessa al grande piano di crescita urbana ed economica della Città, finalizzato alla costruzione di una moderna capitale che sarebbe stata nota in tutto il mondo (Guidoni 1983). In particolare, l’evoluzione del porto a nord avrà un impatto determinante per il nuovo assetto urbanistico, il quale acquisirà connotazioni differenti nel corso nei secoli, affidando alla porzione di costa interessata un ruolo chiave nella visione identitaria della Città, come polo commerciale prima, turistico dopo e infine industriale. Oggi la borgata dell’Acquasanta si trova spogliata di tutte le peculiarità delle quali era portatrice, è stato spezzato l’eterno rapporto che la legava all’elemento ‘acqua’– sia marina che sorgiva – ingabbiandola nel ruolo di periferia, con tutte le connotazioni delle quali questo termine si fa portatore.
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