Stampa Articolo

Perché gli antropologi non amano l’idea di civiltà

Dolui Basa, villaggio Santal (ph. Piergiorgio Solinas)

Nel cortile di una casa mahato, West Bengal  distretto di Bankura (ph. Piergiorgio Solinas)

di Piergiorgio Solinas [*]                                                                                                            La nostra disciplina, la nostra area di studi, vive da tempo una crisi di oggetti, di metodi, di orientamenti. Crisi d’identità scientifica, forse, in ogni caso crisi persistente, interna ed esterna (intendo, “fra noi” nel senso di penuria e confusione entro i campi che dovrebbero offrire occasioni di confronti, di cooperazione, etc., e “fuori di noi”, cioè nella risposta che i non antropologi si aspettano su questioni di interesse, attuali e non).

Non so dire se si tratti di una fase di difficoltà e turbamenti di gioventù, di adolescenza (in fondo, l’antropologia è apparsa sulla scena degli studi poco più di un secolo e mezzo fa), oppure all’opposto, di invecchiamento, di declino. Mi piace pensare che ancora la decadenza non sia alle porte, che la buona fama di cui godiamo, magari per merito dei nostri grandi vecchi, garantisca al nostro mestiere ancora altri margini di crescita. L’attrattiva che il nome e il taglio di studi sembrano promettere, l’approccio che i saperi e le esperienze legati alla “antropologia” sembrano offrire a chi cerca un diverso modo di guardare le cose, se non un mondo diverso, tutto questo fa pensare che non andiamo poi così male.

La parola, la parola antropologia gode oggi di crescente popolarità nella comunicazione. Quando si vuole dire che qualcuno o qualche tipo di persona (magari anche qualche tipo di gente) incorpora o rivela qualità, caratteri, orientamenti profondi si ricorre sempre più spesso ad aggettivi che declinano la radice antropo-: mutazione antropologica, carattere o orientamento antropologico e simili. È un po’ come dire qualcosa di costitutivo, o profondo, o essenziale. Un uso questo che ci lascia un po’ perplessi a dire il vero: se c’è una cosa che ancora sta in piedi nel nostro vocabolario di mestiere, e nelle nostre convinzioni di base, be’ questo è precisamente il fatto che non esistono identità “antropologicamente” essenziali, irreversibili.

Questioni di vocabolario, si potrebbe dire, una questione di parole…Possiamo accettare questo gioco nominalistico, il gioco effimero del discorso dell’antropologia su se stessa, dell’antropologo che fa dei suoi stessi discorsi argomento e oggetto d’antropologia? Benissimo, ma se lo facciamo, allora dobbiamo assumerne in pieno l’impegno. In un certo modo è lo scenario che propongo per la mia lezione conclusiva del corso di Antropologia culturale: una parola, un concetto, “civiltà”. Accettare in pieno l’impegno significa misurarsi con i significati, con le loro estensioni, con i loro carichi di valori, valori consumati o magari deteriorati, valori e significati sotterranei, o riemergenti, perfino con i loro silenzi, e i nostri silenzi. Sì, io penso che ci siano molti terreni abbandonati e silenti nella storia del nostro vocabolario di mestiere. E macerie.

Non molti mesi fa, a gennaio mi pare, ci siamo ritrovati in un bel seminario romano a discutere della proposta avanzata da un gruppo di giovani antropologi biologi, la proposta di cancellare il termine “razza” dalla Costituzione italiana (nell’articolo 3 che sancisce l’uguaglianza dei cittadini senza distinzione di «sesso, razza, lingua, religione …»). Parola compromessa ormai, quella di razza, lasciata ad arrugginirsi nel rottamaio delle molte fasi di ripensamenti (breve durata la nostra storia, ma quante svolte, revisioni, abbandoni!)

Il destino d’una quantità di termini sembra ripetere in forma meno drammatica la stessa parabola: così per etnia, tribù, forse oggi per lo stesso concetto di identità. Sembra una maledizione: più entrano nell’uso, più circolano, e più rapidamente si logorano (salvo poi vederli ricomparire in nuovi travestimenti: così per esempio stirpe, oggi riabilitato sotto la denominazione di «ancestry») Sta succedendo la stessa cosa per la parola che ho proposto per oggi, per l’idea di civiltà? Dobbiamo fermarci, pazientare e considerare con una certa attenzione, prima di liquidare un concetto che non si lascia chiudere troppo facilmente in gabbia, né pare tanto fragile come quelli che hanno avuto storie più effimere.

71wn2rua4flCominciamo con il dire che ben pochi sono gli studi, o gli studiosi, che in antropologia si sono dedicati alla civiltà, alla civiltà in quanto tale o a una civiltà [1]. Per quanto ne so, i più chiari riguardano l’Oriente, le civiltà orientali, l’India e la Cina. Cito qui solo due esempi, pochi, ma di peso più che consistente: Louis Dumont, autore d’un saggio (in realtà tre lezioni tenute a metà degli anni sessanta a Venezia) che si intitola appunto La civiltà indiana e noi, e un altro, una monografia molto conosciuta che si deve alla grande Madeleine Biardeau, L’Induismo, antropologia d’una civiltà. Curioso scambio di posizioni, fra l’altro, a proposito di questi due maestri: indologa e storica autorevolissima, la seconda si dedica a un’opera che ambisce apertamente a porsi come antropologia d’una civiltà; antropologo il primo, il più celebre e tuttora celebrato indianista (e altrettanto discusso) si proietta sulla dimensione della “civiltà indiana” incrociando antropologia, indologia, filosofia.  Torneremo su questi due casi[2].

Non mancano, è vero, le monumentali monografie che si dedicano a civiltà intere: La civiltà cinese di Marcel Granet o quella di Charles Fitzgerald, o La civiltà Maya di Eric Thompson… ma sono perlopiù lavori di carattere storico, fatti da storici di mestiere, o di carattere etno-storico e archeologico. Resta il fatto che tentare questo tipo di impresa, cercare di comprendere un’intera civilizzazione, continentale o sub-continentale, insomma pretendere di includere in una rappresentazione comprensiva l’intero mondo d’una civiltà, è cosa rara, certamente spericolata e normalmente sospetta. Un’ambizione “folle” – come scrive proprio Madeleine Biardeau all’inizio del suo libro. Chi può essere così superbo, e forse pure ingenuo, da arrischiarsi a scrivere l’antropologia della Cina, o l’antropologia dell’Islam, o l’antropologia dell’Occidente?

Ma la presunzione, o se volete la sfida, esprime un’urgenza: vedere e vedersi da una civiltà all’altra, ossia, prendere in parola (ancora!) la pretesa dell’Occidente, questa sì radicata e incorreggibile, di rappresentare nel Noi ciò che noi non siamo. Sfida necessaria, questa, e benefica, perché si rivolge non solo verso l’esterno, ma verso se stessa, percorrendo il rischio della sua stessa negazione. E infatti, il senso di quel “noi” di Dumont si svela quasi subito, anche per lui nelle prime pagine del volumetto: noi, una civiltà, e loro, un’altra civiltà:

«conviene in primo luogo stabilire un rapporto intellettuale corretto fra la nostra civiltà, che ci fornisce i nostri modi di pensiero, e la civiltà [quella dell’India] che ci sforziamo di comprendere» (Dumont  1985 [1975]: 15)

s-l1600Cioè accettare il fatto che esiste oltre i confini della nostra civiltà, oltre il mondo che diciamo (o dicevamo) dell’Occidente, un altro continente di identità e di pensiero, pieno, fertile e ricco del suo presente, una civiltà che non conosciamo e che si presenta (nel suo presente e nel nostro) appunto come problema di conoscenza, come mondo di pensiero.

Sto insistendo sul rapporto fra presente e conoscenza, perché il problema del comunicare fra mondi, il «rapporto intellettuale corretto» fra noi e la civilizzazione indiana, nelle parole di Dumont, riguarda proprio la questione del tempo e della storia. Nella cosmologia e nell’antropologia hindu, il tempo, come la storia e il suo mutare, non è fondamento, ma transito. L’ordine del mondo, il suo riprodursi, il suo decadere e ricostituirsi, include il destino e la coscienza degli uomini, e questi a loro volta, transitano, come in una scena che trascende l’irreversibilità dell’accadere, che si fa e si rifà senza concedere margini al desiderio di permanenza nella vita individuale.

Permettetemi un’altra (ultima) citazione, ora da Biardeau, che coglie anch’essa questo nodo, questo imperativo del comprendere il mondo altro secondo il suo interno – dell’altro – sistema di pensiero, e lo coglie a sua volta in primo luogo in base alla percezione del tempo e della storia che differenzia noi e loro:

«…l’India brahmanica – scrive Biardeau – ha continuato a fissarsi nelle sue norme, imperturbabilmente. I suoi pensatori, i suoi autori, tutti brahmani, ne hanno offerto un’immagine fondamentalmente atemporale, destinata, secondo la concezione loro, a vivere eternamente…. Si tratta quindi di adottare, per quanto possibile, questo linguaggio, d’immedesimarsi in questa visione del mondo, di scordare le proprie categorie per ritrovare quelle altrui, d’accettare che le linee di divisione non siano le nostre, che i valori siano disposti in modo del tutto inatteso» (Biardeau 1985: 17).

Entrare nei mondi altrui, immedesimarsi: sembrerebbe questo il compito dell’antropologo, dell’antropologo d’una civiltà, un antropologo che sente come una società intera concepisce se stessa e il cosmo, come fissa la propria identità, atemporale, persistente e confusa con l’ordine stesso della natura e dell’essere. Ora, proprio riguardo a questa professione di immutabilità, non possiamo fare a meno di interrogarci su quello che sembra un immenso, ripetuto auto-inganno che la “civiltà” induce su se stessa. L’inganno, o la censura, consiste nel fatto che quella civiltà (ed è forse una perversione nella quale incorre ogni civiltà, e perfino la civiltà umana…tutta intera) si pone insieme sia fuori che dentro l’ordine temporale del mondo. Fuori dal tempo mentre opera e si riproduce come sistema in continua conferma di se stesso, in quanto regime d’autorità che pretende d’essere definitivo, destino ultimo. Ma insieme ordine secolare, artefice di regole di condotta somministrate ai suoi membri (sudditi o cittadini che siano) completamente permeato di storia, di fatti che produce e riproduce nella temporalità.

Conoscete tutti, io credo il mito di fondazione hindu, il mito dell’adi puruṣa, l’uomo (il maschio) cosmico dal quale traggono origine tutte le cose, compresi gli uomini, i varna e le caste. Quest’essere fondatore, sorgente della vita e del genere umano, si propaga in creature diverse, in parti della natura (montagne, oceani, foreste, fiumi) e parti dell’umanità (sacerdoti, guerrieri, contadini, servi), dividendosi, smembrandosi nel sacrificio, sacrificio che costituisce l’esordio, il venire ad essere, big bang cosmico nato da divisione del corpo originario.

Mito, mito delle origini, diremmo secondo le vecchie categorie etnologiche. Ora, se si prende in parola, il mito, proprio perché fondatore, distrugge se stesso; le sue origini decretano anche l’annientamento dell’essere immutabile primordiale. In questo riscatto violento, autodistruttivo, ci aspetteremmo di cogliere l’inizio della storia, il passaggio dal non-essere all’essere e al fare. Invece, proprio il fondamento simbolico che incarna questo inizio, il sacrificio, si sottrae al suo seguito. Il corpo creatore si disintegra ma le sue parti conservano le proprietà che avevano quando erano fuse nel corpo matrice. Il potente vertice originario, il sacrificio creatore, si replica in ogni frammento a seguire, all’infinito, come se appunto il suo atto iniziale, fondatore e distruttore insieme, non si esaurisse mai.

Inquieti (ma anche attratti) per questo sottrarsi della civiltà hindu (brahmanica) alla coscienza della propria ideologia, dello sfuggire alla storia, diventiamo a nostra volta probabili complici dell’inganno: se vogliamo comprendere il mondo hindu, e l’uomo hindu, siamo costretti a nostra volta ad entrare in un universo che pretende di escludere la storia, dobbiamo fingerci a nostra volta collusi con la atemporalità che il nostro oggetto di studio instilla nelle sue creature.

80135916_maxChe lo condividiamo o no, comunque, il presupposto della indipendenza dal divenire e dal mutare che quella società e quella antropologia (ossia, quella ideologia dell’umano e del mondo) istituisce e riproduce ci pone di fronte a una specie principio che molti indianisti e indologi continuano a coltivare come lasciapassare d’ingresso nel loro mondo. E cioè il fatto che quella società abbia vissuto (o subìto) come regola generale del suo modo di vivere e del suo universo di salvezza l’irrilevanza della storia. Di più, il presupposto che una società “pensi” se stessa e si orienti in funzione di un certo modo d’intendere il mondo e il tempo, insomma, che un popolo intero, un continente si ponga pensandosi, appunto, come civiltà che non ha bisogno di divenire. Composta nella sua intera, immodificabile completezza di pensiero.

Sto esagerando, naturalmente. Quello della immutabilità, della indifferenza ai casi della storia è solo uno dei tratti affioranti nella complessa cosmo-antropologia indiana. Il pulsare della storia non manca di trovare attori e interpreti maestosi nella realtà del Continente, da lontano e da vicino. La ricerca, la storiografia indianistica e indiana ne danno ormai vigorosa testimonianza. Basti pensare, tanto per non mancare di riguardo alle eccellenze moderne, ai nostri colleghi contemporanei, al Ranajit Guha dei subaltern studies, a Romila Thapar fra gli storici, a studiosi dello spessore di Amartia Sen, o Anais Nandi…Non è possibile qui inoltrarsi in questi sentieri oggi sempre più ramificati, che ci porterebbero troppo lontano rispetto alle tracce che avevamo intravisto già solo con i concetti dumontiani.

Di sicuro, il paesaggio che quelle tracce promettono di assaporare si apre su ampiezze spettacolari: dalle alture di una civiltà si potrebbero vedere in lontananza altre emergenze diversamente orientate, società e continenti di cultura che “si pensano” in direzioni differenti. Così, se quella indiana ha scelto la neutralità della storia, altre, quella occidentale o quella islamica si affacciano come piattaforme in movimento, espansive, aggressive, niente affatto disposte a sospendersi nella stratosfera dell’imperturbabilità lontana dai casi terreni.

Gli antropologi possono inebriarsi all’idea di esperienze così vaste, ma quando si devono dedicare alle competenze di mestiere che sono loro proprie, la loro scala si restringe repentinamente. Essi sono in realtà piuttosto prudenti (o apparentemente prudenti) quando si tratta di confrontare una cultura con un’altra, perché sanno bene, e non smettono di predicarlo, che non è sul piano della totalità che si può raggiungere qualche risultato apprezzabile. Solo lavorando alla piccola scala dei sistemi ristretti, sui dettagli, per così dire, c’è speranza di cogliere, se davvero esistono, quelle divergenze di stile e spirito culturale che separano i popoli e i continenti d’ identità. Attaccamento ai piccoli mondi, dunque: gli antropologi soffrono di questa sindrome della micro-scala, la scala dei circuiti minimi di esperienza, di contatti, di conoscenza.

braudeDumont è un’eccezione. Per trovare occhi e penna che si assumano l’impresa di tracciare dei quadri d’insieme alla macro-scala delle “civilizzazioni”, è agli storici, allo storico principe delle discipline umane, Fernand Braudel, che bisogna chiedere udienza. Il mondo attuale, il trattato in tre volumi che lo storico delle Annales pubblicò ormai mezzo secolo fa, dedica decine e decine di pagine appunto alle civiltà, a quelle dell’Oriente, all’Islam, alla Cina, all’India. Attuale lo era quel mondo nell’epoca in cui ancora non si avvertiva la fine del millennio, all’epoca in cui il mondo era diviso in blocchi e il colonialismo cominciava a ritirarsi dal dominio diretto sui tre continenti del sud e dell’est. L’epoca, appunto, in cui la storia aveva appena svoltato e si tratteneva per riprendere fiato. Ma Braudel, come sappiamo, guardava alle persistenze, alla continuità. Continuità e spazio: il deserto e la città come caratteri di base della civiltà islamica, per esempio, civiltà «affamata d’uomini», e ancora, i grandi spazi dell’estremo Oriente e della Cina, la massa continentale, i fiumi, come tratti di fondo delle grandi civiltà orientali, «civiltà dei vegetali». Braudel pensava che cultura e civiltà non si equivalessero: le culture possono caratterizzare e nutrire formazioni localizzate, e ambiti etnici, mentre le civiltà trascendevano questo livello, inglobavano e «assorbivano» culture.

Che cosa resta di una distinzione come questa? Difficilmente la sottoscriveremmo, oggi: le culture valgono quanto le civiltà, anzi, noi antropologi preferiamo di gran lunga limitare alla piccola scala delle culture lo sguardo comparativo. Il mondo è fatto di culture, mentre quando si tratta di civiltà, il minimo che possiamo dire è che il concetto stesso contiene qualcosa di sospetto, un’aura d’orgoglio, di superiorità. Superiorità dei conquistatori, che risponde all’eco di esaltazioni imperiali, e che sopprime o tende a sopprimere la diversità.

Tuttavia, dire che un concetto non ci piace più non basta. Bisogna che troviamo una ragione solida per cambiare il nome alle cose: se vogliamo espungere del tutto il termine più aspro e sostituirlo con quello più tenue, o più ospitante o semplicemente meno impegnativo (come s’è fatto parecchie volte nella storia degli studi[3]) non basterà aver coniato l’etichetta più rassicurante e sovrapporla alla vecchia. Ci vorrà, io credo, un lavoro effettivo di dissolvimento del nome e dell’oggetto precedenti, e cioè cercare: qual era il significato del vecchio termine? Su che cosa si reggeva? E soprattutto: perché oggi non è più applicabile? (anche se, vedremo, molti e forse anche noi stessi ce ne serviamo, in modo esplicito o mascherato).

Dunque, civiltà: cives civilis, civile, civitas: la catena suggerisce passaggi, se non etimologicamente scrupolosi, accattivanti per le risonanze che si rinviano da un grumo semantico all’altro e per le somiglianze che invogliano ad avventure intuitive (da prendere con le pinze più circospette possibili: le etimologie facili sono, come si sa, piene di trabocchetti, e terreno fatto apposta per le brutte figure…).

E allora, credo proprio che passare in linea retta da civitas a civiltà sia piuttosto azzardato (non è la città in sé, ma la corte, il salotto civile del buon gusto quello in cui la cortesia si socializza e si propaga nello spazio urbano). Azzardato, ma interessante: in ogni caso l’immagine della città ci fa pensare alla comunione estesa della civi-lità, alla cittadinanza su larga scala, il laboratorio aperto della civiltà. La città si estende aldilà degli affetti naturali, oltre le identità della comunità di sangue, offre a tutti spazi comuni di vita, spazi di vita che pongono in relazione gli irrelati [4].

Mi piace ancora, ogni tanto, cedere al gioco agli opposti (vecchio vizio dello strutturalismo, per me malattia infantile dell’oggettivismo, o del realismo se volete). E allora, se nel diagramma delle opposizioni il concetto di civiltà ha una o più corrispondenze, naturalmente la prima che ci viene in mente (oggi poi, nella tempesta etica e geopolitica che ci circonda) sarà quella di barbarie: barbarie vs. civiltà. Notate bene, non selvaggio/civile, ma barbaro/civile. Il selvaggio non si oppone al civilizzato, semplicemente perché non rientra neppure nel campo di compatibilità dei contrasti. Il civile trascende il selvaggio, lo metabolizza e lo trasforma in una sorta di antenato fossile, antenato estremo, benigno e feroce insieme, innocente e primordiale. Il barbaro, la barbarie, invece sta lì come minaccia e alternativa: l’anti-civile è la sentina di abiezione che fermenta al disotto della crosta educata e umanista del nostro vivere secondo ragione e riguardo.

Io però cerco un altro opposto, quello che si può ripescare estraendo dalla (falsa?) etimologia di civitas: che cosa si oppone alla città, alla comunità urbana? Due cose, direi (abbiamo anche qui un sistema triangolare di contrasti). La prima è la campagna, o il deserto, o la foresta, insomma, lo spazio non abitato. La seconda è la comunità ristretta, il villaggio. Opposizioni, queste, che suonano molto più familiari agli antropologi, e che ci aiutano a capire un po’ meglio i loro timori, il timore di misurarsi con il concetto di civiltà. Il villaggio circonda il campo di relazione dell’etnografo come una veste che protegge e chiude dal rischio dell’infinito. Il villaggio è il guscio già pronto nel quale basta entrare, entrare immedesimandosi (o fingendo di immedesimarsi) con la dimensione spontanea nella quale vivono i suoi abitatori: basta entrare e indossare i costumi “interni” al circuito vitale del luogo per portare a compimento quell’esperienza di intimità che produrrà conoscenza, familiarità, pratica della cultura vissuta.

Come vedete, non mi nascondo le ipocrisie del mestiere. Ve ne do anzi testimonianza. Il “mio villaggio” (uno dei miei in realtà) ho cercato di racchiuderlo nel potere della penna, della carta; eccone un documento:

2Quello che ho incollato qui è un foglio del mio quaderno d’appunti di vent’anni fa: la pianta schizzata a penna d’un villaggio bengalese, Santal per la precisione, che io percorrevo continuamente (per diversi anni di seguito, qualche mese ogni volta) prendendo nota come vedete dei nomi di chi abitava in ognuna delle case del vicinato, e della carta genealogica (qui si intravede nel foglio di sinistra, tagliato nell’immagine) che descrive la composizione delle famiglie.

Lo spazio di cui facciamo esperienza e che crediamo di introiettare nel nostro cogliere i rapporti e le persone che ne sono attori è infatti uno spazio umano, uno spazio fatto di persone e di prossimità relazionali, di conoscenze reciproche, del conoscersi.  Questo esercizio di spazio condiviso, questa esperienza, esprime più di altri esempi il contrasto che dicevo, l’opposizione villaggio-città. È la divergenza, spessissimo la barriera, paese/città ciò che marca un gradino ulteriore, decisivo (e irreversibile) nella fenomenologia dei processi di civilizzazione. Paradossalmente, proprio nel suo aprire larghi spazi di relazione, la città neutralizza, dissolve la conoscenza e la relazione: è la comunità enormemente espansa degli irrelati, di tanti che non hanno rapporto fra loro.

Voglio tornare un momento a Dolui Basa, al “mio” villaggio. Ora vi propongo un altro schizzo ­– perdonerete questo usare me stesso come fonte – stavolta un punto dello spazio abitato, il “centro”, diciamo così (i villaggi Santal non hanno mai un vero centro), il pozzo, due o tre case che gli stanno vicino, insomma, quello che si dice uno scorcio.

3La penna e l’occhio hanno estratto qui – me ne rendo conto ora rivedendo il disegno – l’impressione dell’abitato immerso nell’assenza: l’immagine di un luogo umano senza uomini.  Impressione che serve a correggere e a completare quello che ho mostrato prima: lo spazio del villaggio (ato in santali, gram o para in bengalese) è sì di relazione, ma le relazioni possono essere anche di vuoto, di silenzio. Il silenzio in effetti governa parecchi di questi rapporti, rapporti di dissidenza, di rifiuto, di ostilità interna. Non c’è villaggio che io abbia frequentato o percorso nel quale non abbia incontrato in forma più o meno acuta una frattura, una divisione fra due fazioni, o più. La comunione di vita ospita molto spesso il negativo, la relazione di segno negativo: dispetto, inimicizia, invidia, “critica”.

Non è parola di poco conto la “critica”: qualcosa che mi riporta indietro, alla vita del paese, i paesi che conoscevo prima di passare alla città, dove sono nato e ho vissuto fino all’adolescenza. La critica rappresentava allora, non so se ancora, una sorta di censura collettiva ed anonima, incorporea, ubiqua, ineludibile. La voce pubblica diremmo, o con espressione più neutra, la voce del «controllo sociale». Una sorta di occhio scrutatore e immediato: giudizio che sanzionava all’istante, che poteva colpire da ogni parte e che difficilmente poteva esser sindacato. Critica di comportamenti, di attitudini, di caratteri, di superbie, voce silente ma chiarissima, non si poteva sbagliare.

Più tardi, ritornando in un paesino del Gerrei, in Sardegna, con un gruppo di studenti senesi per uno stage di addestramento alla ricerca, mi sono imbattuto in un costume (a dire la verità il ricordo d’un costume, non troppo lontano nel tempo, che le autorità d’ordine pubblico, il maresciallo dei carabinieri ed il prete avevano provveduto ad estirpare con metodi alquanto spicci) che materializzava la voce della critica, con un trucco beffardo e impietoso, nell’anonimato e nello scherno. Ecco come andavano le cose. L’uso, detto comunemente giogad’e giogada (gioca e gioca) voleva che in una notte serena, quando le famiglie s’erano ormai ritirate in casa e le strade deserte diventavano terreno incontrastato di cani randagi e di pochi passanti, un gruppo di ragazzi si allontanasse di un centinaio di metri dai margini dell’abitato, si raccogliesse in cima ad un cucuzzolo bene al riparo dietro rami fronzuti e cominciasse a chiamare in causa a voce alta questo o quel personaggio del paese: uomini e donne, ragazze e scapoloni, zitelle ed anziani. Si gridava il nome, e dopo il nome, appunto, «gioca e gioca!!», e poi di risposta: «con chi gioca?» e qui di seguito altri nomi, nomi di compagni di relazioni segrete, di tresche e piccoli scandali; pura maldicenza insomma

Ebbene, ho ritrovato qualcosa di simile in anni ancora più recenti, in India, nel mondo Santal, dove, un po’ come nel caso sardo, in occasioni stabilite (e con il permesso formale del capo-villaggio qui) i ragazzi del posto si riuniscono di notte a portata di voce, in campagna, fanno bisboccia con il cibo cucinato in casa dalle mamme e dalle sorelle e abbondante birra di riso, per intonare a gran voce strofe di provocazione che mettono in piazza le storie di amori segreti (Milua), di accoppiamenti inconfessabili, condite con la musica del buang (uno strumento a corda molto popolare da quelle parti) e rime piuttosto salaci. La provocazione, che suona nella notte come impersonale e lontana, quasi sorgesse dalle tenebre, è fatta apposta per raggiungere le orecchie dei paesani, ma si intende che non può ritenersi offensiva. L’imprimatur del capo fa sì che tutto ciò che di pungente sarà stato detto e ascoltato dovrà restare entro i confini innocui dello scherzo. L’indomani, al rientro dalla nottata scapestrata, un bagno nel fiume insieme ai consiglieri del capo e a lui stesso, sancirà la chiusura della parentesi.

Sfogo o valvola di compensazione che sia, sta di fatto che questi sistemi di pubblicità della critica nell’anonimato sono la spia di tensioni latenti e inestinguibili: piccoli spiragli nella cortina di silenzio che, lungi dall’essere prova di indifferenza, denuncia il rischio continuo di quelle che ho chiamato relazioni negative. È la parte sommersa dei valori (algebrici, fra più e meno di relazione) che spaziano nel campo dei vettori di con-presenza tra famiglie, persone, età, generi. Ignorarsi e chiudere lo scambio dice, e soprattutto fa, tanto se non più di quanto facciano le parole; e la disconoscenza dichiarata non sta affatto a significare puro vuoto ma negazione: ti conosco e sto dove stai tu, ma ti ignoro, ti nego…

Dimensione intrinseca del conoscersi dunque: il villaggio non ammette lacune, tutti si conoscono e il conoscersi impegna, nel bene (nel pieno) e nel male (nel vuoto, o piuttosto, nel negarsi) per il solo fatto di esserci, di far parte della comunità di vita.

freudTutto ciò si capovolge nel passare alla dimensione urbana, nella quale il presupposto non sta affatto nel conoscersi ma nel suo contrario nel non conoscere; e dove la prossimità e ancor più la contiguità di vita non implicano in nessun modo che fra un soggetto e l’altro passi qualche atto di scambio. Non si saluta lo sconosciuto che attraversa al semaforo insieme ad altri venti o cinquanta consorti di marciapiede, incontro a te e a cento altri con te. In ascensore, nel vagone della métro, sulla corsia del centro commerciale, o alla cassa, allineati a distanza di pochi centimetri l’uno dall’altro i clienti devono ignorarsi. Il codice di condotta più normale prevede silenzio, esclusione alla vista (se ti guardo un po’ più a lungo di quel che è normale per ogni cliente anonimo non faccio che creare imbarazzo, e sospetto) e adempimento il più rapido possibile alla funzione richiesta (raccogliere, pagare, passare…)

Il supermercato mette in scena l’estremo capolavoro dell’impersonalità e di quella antropologia del «soggetto fatto di oggetti» (Comaroff, Millennial Capitalism[5]) che pochi altri ambienti riescono a produrre con altrettanta efficacia. Si potrebbe parlare qui di commercio silenzioso moderno[6]. Così accade nel pellegrinaggio d’acquisto fra gli scaffali delle merci esposte. Prendo, non dico nulla a nessuno, e nessuno sta lì a dirti qualcosa, poso nel carrello qualcuna delle merci (dotate della virtù magica dell’inesauribilità: troverò immancabilmente la passata di pomodoro al posto in cui deve trovarsi, come se ad ogni prelievo sbucasse dal fondo dello scaffale la nuova bottiglia pronta a rimpiazzare quella prelevata). Proseguo il mio percorso (sempre in una sola direzione, dal tornello d’ingresso alle casse, non è previsto che si possa risalire all’indietro la pista prestabilita) e sempre senza dire nulla attraverso la barriera d’uscita una volta che il display elettronico della cassa ha decretato la somma da pagare e la tastiera di convalida della carta di credito ha rilasciato il permesso d’uscita.

Tutto questo usufruire in serie, dal servizio sanitario al fisco (tessere e codici numerici, posizioni e situazioni registrate nei database, etc.), queste identità alfanumeriche raccolte nel corredo dei nostri titoli di cittadinanza, queste quote di civiltà disponibili individualmente a certe condizioni (sei titolare di un conto corrente se hai un reddito, hai un reddito se sei cittadino e ti metti in offerta sul mercato del lavoro, etc.) ebbene tutto questo fa la nostra civiltà.

Tautologica, circolare: devi esserne parte per farne parte. Il tuo corredo di coordinate numeriche ti identifica, nel duplice senso che “riconosce” il tuo posto, la tua quota e la tua sostanza di unità individuale, e nello stesso tempo la istituisce; per fare d’un immigrato un residente legale ci vuole il permesso di soggiorno, e il permesso di soggiorno, mentre “riconosce”, pone in essere la nuova condizione.

Si interrompe qui il breve excursus sul terreno della antropologia urbana (anzi, si ferma prima ancora di avviarsi). Se mi interessa la città, e le implicazioni sul terreno dell’antropologia, è perché colgo in questa figura la metafora tanto densa quanto problematica su cui ho già richiamato la vostra attenzione. È questo il motivo che ispira il passaggio che segue, la lettura di una celebre congettura visiva, o storica, o archeologica che si incontra nelle prime pagine del Disagio della civiltà di Freud (1929) e che introduce – vedremo tra poco – la sua teoria della civiltà come processo analogo alla «inibizione alla meta» (più precisamente «movimento di inibizione alla meta»).

Per cercare di rappresentare l’universo della psiche, in questo libro, Freud propone al lettore di immaginare la lunga storia d’una città, Roma, la Città Eterna, attraverso le epoche della sua evoluzione urbana e architettonica, dalla Roma arcaica fino alla Roma moderna (alla sua epoca), cercando di vedere uno dopo l’altro gli strati successivi, i templi, i palazzi, le strade, etc. che nel corso del tempo hanno trasformato il volto della città. Una specie di storia compressa in cui ogni fase proietta sullo stesso schermo il suo tessuto urbano, ma con una clausola che fa dell’esperimento, appunto, una congettura del tutto astratta. Freud infatti vorrebbe mostrare, o cogliere, non le sostituzioni, ma le aggiunte (un palazzo che si costruisce al posto di un altro, presuppone che il primo sia stato distrutto, o che il nuovo cancelli il vecchio: due cose diverse non possono stare nello stesso posto senza che una sparisca). In modo tale che, appunto, ciò che viene prima si mantenga integro, e insieme si veda quel che arriva dopo, nello stesso posto. Un’ipotesi dell’irrealtà, diremmo, una finzione che mette in scena mondi impossibili, contrari alla logica del nostro comune ragionare.

Ma è appunto questa la prova che all’autore interessa far intravedere, perché è questa la forma e la dinamica della psiche, secondo lui. Un mondo nel quale ogni nuovo strato né elimina, né schiaccia i precedenti, ma li conserva, così che l’insieme contravviene – unico caso nel mondo reale ­– al principio più basilare del succedersi: una cosa subentra all’altra nello stesso spazio e nello stesso locus storico senza sopprimerla.  «Resta quindi assodato, conclude Freud, che soltanto nello psichico è possibile tale conservazione di tutti gli stadi anteriori accanto alla strutturazione finale, e che non siamo in grado di esprimere figurativamente questo fenomeno» (Freud, 1929: 206).

elias-noLa città metafora, la città che non rimuove i suoi strati sommersi ma li conserva integri ognuno nel posto dei precedenti e ognuno dei precedenti entro i successivi, dunque, è una città impossibile, fantastica. Ma l’immagine assurda serve a dare l’idea di ciò che nel mondo psichico assurdo non è: il passato che non passa e il presente che trattiene nella presenza il nuovo e il vecchio. Freud condivideva indubbiamente l’idea corrente allora di civiltà: una civiltà, la Civiltà, come complesso o sintesi unica, universale e concentrata nella sua espressione suprema, quella dell’Occidente. Idea che non è difficile trovare formulata con intransigenza piuttosto imbarazzante in uomini della grandezza di Thomas Mann e Norbert Elias. A quest’ultimo di sicuro dobbiamo una delle formulazioni più nette e meno ipocrite che capiti di leggere. Proprio nell’inizio del celeberrimo libro dedicato al tema del processo di civilizzazione, in italiano La civiltà delle buone maniere (1969), Norbert Elias imprime un inequivocabile sigillo di etnocentrismo al senso della parola:

«…se si esamina quale sia propriamente la funzione del concetto generale di “civiltà” si scoprirà un dato molto semplice: questo concetto esprime l’autocoscienza, e si potrebbe anche dire la coscienza nazionale dell’Occidente» (Elias, 1982: 113).

La severità della formula viene attenuata dalla sfumatura vagamente scettica che sopraggiunge poco dopo («con questo concetto la società occidentale cerca di indicare quella peculiarità di cui tanto si vanta…»). Una chiosa, una confessione piuttosto, che gli antropologi potrebbero far propria, per sentirsi giustificati a loro volta nel loro scetticismo, e nel loro disdegno. Dunque è così! diranno, è proprio quello che sospettavamo: la parola e l’idea di civiltà non fanno che incarnare il vessillo della boria, la boria dei portatori stessi dell’insegna. Noi non ci stiamo, noi facciamo altro, noi ci tiriamo fuori.

E infatti, ognuno parte, ognuno va a cercare pieghe e recessi dove questa orgogliosa pretesa di superiorità senza rivali non riesca ad arrivare, o almeno, risulti più debole. E dove non si esprima nella presunzione del dovere, il dovere di civilizzare chi non ha abbastanza civiltà, dovere e missione che sembra un fatto di deduzione più che di decisione, una sorta di necessità che deriva proprio dallo scompenso tra i più e i meno progrediti, tra i più e i meno emancipati dalla miseria culturale.

Sì, perché, a differenza di quel che accade per il concetto di cultura, quello di civiltà è impregnato di misura, di gradazioni, di dislivelli. Difficilmente si dice che un popolo possiede più o meno cultura, che ha un “grado di cultura” maggiore o minore: non solo suonerebbe fastidioso affermarlo, ma risulterebbe piuttosto difficoltoso specificarne i tratti e le scale, anche per chi fosse convinto di poter giudicare diversi “gradi di cultura”.

Al contrario, quando si dice civiltà, la scala di misura del più o del meno affiora immancabilmente, spesso istintivamente e magari senza esplicita intenzione di giudicare. Il “grado di civiltà” si attribuisce come qualcosa di intuitivo, di soft evidenza a questa o a quella popolazione, a questa o a quell’epoca (una civiltà ha bisogno appunto di un’epoca per distendersi e figurare nella sua ampiezza), in funzione tra l’altro di una sorta di cripto-evoluzionismo mai del tutto epurato dal sentire comune. Il parametro della civiltà e dei suoi livelli va di pari passo con la declinazione del suo aggettivo, civile, e con la esplicita evocazione di qualità che questo predicato reca con sé: modi civili, forma civile, costumi, mores, appunto più o meno civili. E la sua caduta nel negativo (incivile, poco civile), il degradarsi, anzi il pervertirsi, la perdita di civiltà insomma, continuano a parlarci di alto e basso, di umano e disumano, di maggiore o minore valore delle persone, della loro vita, delle opere che essi inventano ed emettono oltre la superficie inerte del loro vivere elementare. L’“imbarbarimento” dei costumi o dei rapporti non indica tanto un processo regressivo, quanto la deformazione, il disordine generato dalla estrema facilità dei modi di utilizzare e consumare i beni della civiltà. Forse, un eccesso, un’ipertrofia dell’avere e del consumare…

Ecco, agli antropologi è dato di sentire un bisogno di uscita, di estraniarsi dalla bolla artificiale di illusione che circonda la moderna volontà di possesso e di potere. Per parecchio tempo negli ultimi anni sono stati proprio loro a mitizzare la dimensione della alterità, ben sapendo di giocare con una nuova illusione: anzi un illusionismo. “Altro” infatti, o “l’Altro”, il fratello senza volto se non quello della differenza, il con-genere che compare al confine delle nostre pienezze come un’ipotesi di persona in attesa di riconoscimento. Ebbene questa alterità sostantiva che ispira tanti discorsi edificanti della sinistra (la “paura” e il “rispetto”, la “identità” e il “margine”, sempre riferito a “l’altro”) non riesce a emanciparsi dalla sua stessa definizione, ossia quella della differenza. Resta ancora in sostanza, come persona-in-potenza, che sta tra l’essere e il non essere o in quanto identità negativa-riflessa (ciò che noi-non-siamo), o, ancora, come identità che si riempie via via secondo un processo continuo di contagio o assimilazione dell’identità-specchio alla quale cerca di assimilarsi: ancora una volta la nostra.

Non se ne esce in realtà. La parola del resto, la stessa parola, contiene criptata una alternativa chiusa senza uscita: puoi dire “altro” nel senso di un non (un altro mondo è possibile vuol dire appunto un mondo che non sia questo), ma puoi dirlo anche nel senso di una replica nella stessa serie: ho preso un gelato e poi un altro… Oltre questi due esiti non si va: l’alterità o è diversità che si correla al suo punto di riferimento noto, come corrispondente negativo, oppure ripete quel che già c’è ( in inglese, se non mi sbaglio tra other, else, e one more si distingue più sottilmente proprio su questo piano).

Ebbene, che frutto possiamo pretendere di offrire al nostro interlocutore, al nostro nativo, quando, assicurandogli di avere tutte le buone intenzioni di riconoscerlo nel pieno della sua identità, gli assegniamo come etichetta proprio questa nomina? So chi tu sei, sei “altro” da me (o da noi), quando non giungiamo a dirgli, semplicemente che per riconoscersi deve pensarsi come personificazione dell’alterità.

Ricordo un episodio che mi ha lasciato una certa impressione nel corso delle mie missioni d’inchiesta. Lo racconto in poche parole. Immaginate una corte, un cortile d’una famiglia semi-adivasi (“semi-tribale” si direbbe), sempre in India, nel West Bengal; tanta gente riunita, per una cerimonia funebre, molti uomini in dhoti candido, alcuni rasati e compunti, mentre il brahmano chiamato per celebrare il rito va avanti con le sue benedizioni. Io sono lì, da ore, mentre seguo i gesti, le preghiere, le unzioni, le offerte. A un certo punto, qualcuno mi fa arrivare di nascosto, con un passamano inavvertito, un opuscolo, poco più di un dépliant a stampa, il resoconto di un pronunciamento della corte di giustizia del capoluogo del distretto, una sentenza che risaliva al 1941 e che dirimeva una controversia in materia di compravendita, vendita d’un minuscolo appezzamento di terreno.

71ue8rgmu4lIl querelante chiedeva l’annullamento di un atto, che risaliva a sua volta a un decennio prima, sostenendo che la vendita in questione era inficiata da un vizio sostanziale, dato che il venditore, un Deswali Manji, appunto, doveva essere considerato un adivasi, un “tribale” , e per legge nessuno poteva acquistare della terra da un adivasi. Il giudice dunque doveva pronunciarsi sulla questione: sono o no adivasi i Deswali (cioè sono Santal, o come Santal?) Un quesito d’ordine squisitamente etnico, il riconoscimento o meno d’una identità culturale (e razziale, a quell’epoca le cose andavano di pari passo).

Il giudice, dopo attento studio e ponderazione si pronuncia in senso favorevole alla richiesta: i Deswali devono essere considerati Santal, anche se di questa identità hanno perduto la lingua, la religione, in parte i costumi. Su che cosa si basa la sua valutazione? Bene, il riferimento, esplicito e decisivo, la fonte d’autorità che sancisce la classe d’identità nella varietà bengalese è un trattato dei più classici, il classico della letteratura etnografica coloniale, cioè l’Herbert Risley di Tribù e caste del Bengala[7], pubblicato cinquant’anni prima e assunto come paradigma delle appartenenze etniche. Il giudice lo cita espressamente e fa di questo testo la base del suo decreto di attribuzione del torto e della ragione.

Come a dire, per sapere chi siamo, per sancire pubblicamente l’identità, il se stessi, occorre riferirsi a quel che restituisce l’occhio che studia e che governa (Risley era un importante funzionario governativo, un vero e proprio antropologo di Stato che soprintendeva al censimento e inventariava distretto per distretto i gruppi, le caste, le “sette” e le “tribù” presenti), occorre rimettersi alle figure che lo sguardo sovrano assegna ai suoi “altri”. Non tocca a noi sudditi dell’Impero doverti rivelare chi siamo (chi noi siamo o che cosa siamo): proprio questo anzi apprenderemo da te, da te che ci vedi e che ci sovrasti, che ci cogli proprio dal di fuori, illuminato dal potere della diversità verticale che ci distanzia. Siamo noi sconosciuti a noi stessi che aspettiamo da te il “riconoscimento” della nostra identità, la quale non potrà dunque che esser formulata come alterità: io sono il tuo altro.

Identità subìta, potremmo dire, identità d’ufficio, forse surrogata: comunque, marcata dallo scarto di valore che la fonte erogatrice di nomi e di titoli istituisce fra sé e i suoi oggetti proprio perché è lei, l’autorità che classifica senza auto-classificarsi, l’io che non ha nome e che decide i nomi degli altri, è questa asimmetria che decide della irriducibilità fra centro e cerchio, fra chi assegna il nome e chi lo riceve e lo fa suo.

Lo fa suo, in effetti: nel villaggio Deswali che mi circonda il vecchio titolo di inferiorità (tribali, santal, non-hindu etc.) razziale e marginale in origine, acquista oggi il la forza e il pregio di un manifesto. Il decreto etnico, due volte sancito, dalla scienza coloniale in origine e dal giudizio della corte di giustizia cinquant’anni più tardi, diventa fondamento e pratica pubblica d’auto-riconoscimento.

Proprio l’identità di infimo valore, quella che ci fu attribuita assegnandoci un posto di margine nel ventaglio delle caste e dei gruppi inferiori, proprio quella oggi rivendichiamo, ne pretendiamo il rispetto e ne affermiamo fieramente l’intimo spirito. La retorica dell’identificazione, tuttavia, non è neppur essa innocente, neppure quando, caricandosi dello stigma che ha dovuto interiorizzare, trasforma questo in un simbolo di riscatto. Non è innocente perché in realtà proprio il disvalore, proprio l’inferiorità pubblicamente sancita oggi, nell’India fiera di sé e della sua grandezza (great India!) fornisce a chi ne è stato vittima un titolo di compensazione. L’ingiustizia subìta per generazioni giustifica il diritto storico al risarcimento; perciò essere o non essere riconosciuti come tribali significa accedere o no ai benefici che la politica delle quote prevede per i gruppi, le caste e le classi che hanno vissuto lungo tutta la storia del Paese in stato di umiliazione, asservimento, esclusione. Oggi, diranno i più cinici, vedersi riconosciuto lo status di oppressi (dalit) conviene, diventa un gioco di speculazione al ribasso.

Tutto ciò ha il compito salutare e comunque inevitabile, di ricordarci che anche quel che di più profondo, intimo e nobile riguarda l’essere e il sentire collettivi, come appunto la cruciale questione del capire “chi siamo” non dipende solamente da radici, da essenze o destini trascendenti, ma altrettanto, forse più, dalla pratica della concorrenza per le posizioni di status, dall’abilità nel trasformare lo stigma in un affare e dal combinare insieme il vecchio (la inferiorità rituale) e il nuovo, la scommessa sul mercato del valore sociale.

Il disagio della civiltà di cui soffrono gli antropologi, allora, più che in un dilemma morale, o in una nostalgia inappagata, va cercato nell’incerto confine tra il sacro e il profano. Il sacro, voglio dire, della missione, di quella uscita da sé che i più ingenui, nella fase dell’esotismo come malattia infantile dell’etnologia, si sforzano di mettere in scena nel teatro della propria esperienza, interpretando, o allestendo, il dramma dell’alterità. E il profano, ossia la coscienza che noi stessi siamo attori del gioco che rinneghiamo, o che non vogliamo confessare.

4

Gioco seduttivo e dissipatore: cercare di unire nella stessa esperienza la visione dall’esterno e quella dall’interno non è mai un’acrobazia agevole. In questo caso, poi, il passaggio dall’una all’altra dimensione è complicato dal fatto che, nell’ambizione d’etnonauti, quali crediamo di essere, non vorremmo soggiacere alle regole del prima e del poi, ma appunto, ci affascina la trappola della simultaneità: fare “come se” ci trovassimo a vivere la stessa cultura che studiamo, e insieme ad esserne visitatori estranei per pensiero e grandezza di percezione. Ma è complicata dal fatto, questo alla fine davvero estremo, di praticare l’illusione della città-psiche di cui diceva Freud. Vale a dire, muoversi attraverso gli scarti di potenziale, attraverso scale di razionalità incommensurabili: nel “pensiero selvaggio” nel momento stesso in cui per estrarne le regole e le forme ci serviamo e ci identifichiamo con quello, il pensiero, più “civile”, e irrimediabilmente profano.

Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
[*] Testo della lezione conclusiva del corso di Antropologia culturale, martedì 28 aprile 2015 ore 12 aula H, università  di Siena. I disegni sono dell’autore, tratti dal quaderno di note etnografiche intorno ad una ricerca sul villaggio bengalese Santal, nel 2001.
Note
[1] Si possono trovare numerose rassegne che trattano, più o mano compiutamente degli usi del concetto, delle sue estensioni (in rapporto a “cultura”, “società” etc.). Fra queste mi sembra ancora particolarmente interessante Kroeber “Cultura della realtà e dei valori” che risale al 1952 (A.L. Kroeber La natura della cultura, Il Mulino, Bologna 1976, pp 267-294 (“Reality Culture and Value Culture”, in, The Nature of  Culture, The University of Chicago Press, 1968 [1952]) , e ancora, in Enciclopaedia Universalis uno scritto di A. Burguière particolarmente attento alla storia del concetto nella cultura francese)
[2] Non si può dimenticare di citare, ancora, il lavoro dell’«antropologo fra gli storici», Bernard F.  Cohn, India: The Social Anthropology of a Civilization, Englewood Cliffs, Prentice-Hall 1971, tanto più notevole proprio per il ruolo che questo studioso ebbe nella notissima raccolta sulla “invenzione della tradizione”, con Hobsbawm e Ranger.
[3] Ho già detto per quel che riguarda “razza” e per “etnia”: qualcosa di simile si va annunciando per “identità” (si evolve in “appartenenza”?), magari per il concetto stesso di cultura, non per tutti ormai allo stesso modo accettabile.
[4] Recentemente il libro di James C. Scott, Le origini della civiltà- Una controstoria, Einaudi, Torino 2018 riprende e critica con puntigliosa severità la tesi della città come nodo evolutivo, come origine della civiltà e dello stato (e dello stato come fondatore di civiltà)
[5] Millennial Capitalism and the Culture of Neoliberalism, a cura di Jean e John L. Comaroff, Durham e Londra: Duke University Press, 2001
[6] Il “silent trade” che compare in molti trattati d’antropologia economica come archetipo della transazione di scambio mercantile: depositare un oggetto, allontanarsi, attendere che l’altro si avvicini lo esamini, decida di prenderlo o no, e nel caso ritornare a vedere che cosa è stato lasciato in cambio dal partner silenzioso, senza incontro, senza contrattazione, senza rapporto diretto tra persone.
[7] H. Risley Tribes and Castes of Bengal, 4 voll. Calcutta, Bengal Secretariat Press,1891

_____________________________________________________________

Pier Giorgio Solinas, ha insegnato per molti anni Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università di Siena, e in diverse Università all’estero. Ha lavorato e pubblicato soprattutto sulla parentela, l’antropologia economica, l’etno-demografia e la cultura materiale, con ricerche sulla mezzadria toscana, sui pastori sardi immigrati in Toscana, sulle forme recenti di famiglia. Tra le sue ultime pubblicazioni: Colore di pelle colore di casta. Persona rituale, società in India (2015); Ancestry. Parentele elettroniche e linguaggi genetici (2015); Lettere dagli antenati. Famiglie, genti, identità (2020).

_____________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>