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Per una pietas delle storie di vita

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2015 @ 00:55 In Cultura,Letture | 1 Comment

 copertina clemente di Annamaria Clemente

«Ho prefato e postfato storie di anziani ospedalizzati, ho prefato e postfato storie di militanti della sinistra, ho discusso a Rovereto storie di contadini aretini che si erano scritti in diari e memoriali, contadini cui devo irreversibilmente la mia convinzione che gli scritti di memoria della gente comune sono opere letterarie bellissime e impreviste, e che il mondo letterario non ha la pietas, la teoria e la pazienza sufficiente per imparare a leggerle come io le leggo»

Nelle frasi estratte dal volume Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013, Pacini Editore, Pisa: 224), Pietro Clemente utilizza il sostantivo latino pietas. L’antropologo avrebbe potuto fare ricorso ad altri vocaboli, altri lessemi: invece no, usa pietas e non pietà, come se il corrispettivo italiano nella riplasmazione morfologica del significante si fosse opacizzato, divenendo sinonimo di misericordia e compassione, essendo caduta l’originaria accezione di dovere a cui la pietas era collegata, come impegno, obbligo e responsabilità nei confronti degli altri.

Pietro Clemente ha dedicato buona parte della sua vita, da uomo e da antropologo, a leggere le vite degli altri: li ha guardati, li ha osservati, ha dialogato con loro, ha trascritto, interpretato, scritto. Patrocinatore caparbio, ha perorato la causa dello statuto e del riconoscimento delle storie di vita come strumenti euristici essenziali, «prodotto conoscitivo [...] tra i più moderni e sofisticati che si possono trovare» (ivi:173). Transitando dall’essere genere al porsi come fonte, da documento a metodo, sono riserve inesauribili di riflessione epistemologica, linguistica, letteraria, semiologica, storica, antropologica, esse dischiudono lo sguardo ad una percezione della cultura mobile e dinamica, dispiegano panorami differenti e insperati, «[...] nel senso che arricchiscono i punti di vista su una società e un tempo e permettono all’antropologo di non avere da solo la responsabilità di capire un mondo standoci dentro e guardandolo senza esserci nato. [...] Queste “storie” aprono l’antropologia a modi molteplici di comprendere, a vedere i mondi culturali come arcipelaghi mobili, riaperti da ogni voce che li racconta» (ivi:155). In favore di una polifonia postmoderna, e contro ogni rigida autorialità monologica, Clemente esplora sentieri poco convenzionali, cerca un metodo fondato sulle parole degli altri, le prende «terribilmente sul serio», per fare la «differenza» e  «sollecitare prese di parola» (ivi:11), nella certezza che «[…] le storie di vita ci fanno assistere allo spettacolo meraviglioso (che mai potrebbe essere “osservato” dall’esterno da un antropologo), di una cultura vista dall’interno di una vita, e di una vita vista dall’interno di una cultura» (ivi: 155-156).

FOTO 1Muova dall’antropologia o dalla letteratura, Paolo Di Stefano si è certamente misurato con queste pagine di Pietro Clemente, di cui proponiamo la lettura in filigrana – come un corrimano di un percorso comune – con quelle del giornalista responsabile delle pagine del Corriere della Sera, autore di Ogni altra vita. Storie di italiani non illustri, edito da Il Saggiatore (2015). Di Stefano, posto di fronte alle vite degli altri, non ha saputo o potuto o voluto esimersi dal raccontare e,  restituendo quanto dovuto agli altri, ha recato offerte al tempio di Mnemosine, avviando con la Memoria circuiti di dialogo e scambio. Nato ad Avola nel 1956 ma cresciuto a Lugano, si è laureato in filologia romanza con Cesare Segre a Pavia. Si contano tra le pubblicazioni saggi filologici e critico-letterari, racconti, inchieste, poesie e romanzi. Di Stefano scrive e non solo per mestiere: «scrivo, come tanti,  per l’incapacità o per la paura di vivere, per il rifiuto di accettare la realtà così com’è», afferma in una intervista rilasciata a Barbara Basile, scrive per dipanare dedaliche memorie, per acquietare e dilazionare emozioni urgenti, «per decifrare gioia e dolore». Costante nella sua produzione è il rapporto tra memoria individuale e memoria collettiva: così ne La Catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956 (Sellerio 2011) in cui rievoca la tragedia dell’8 agosto 1956, quando neldistretto minerario di Charleroi in Belgio morirono nei pozzi del Bois du Cazier 262 minatori, di cui 136 italiani; così nel Giallo d’Avola (Sellerio 2013), romanzo-inchiesta che ricostruisce un fatto di cronaca accaduto negli anni sessanta nella cittadina siciliana. «In realtà mi interessa lavorare sulla memoria collettiva e individuale.  Nella tragedia di Marcinelle, che ho ricostruito ne La catastròfa (2011), sono rimasti sepolti frammenti di memoria, di risentimenti, di rabbia, di dolore rimasti inespressi per oltre mezzo secolo: scriverla è stato un atto di giustizia dovuto a quei morti e ai loro parenti.  Anche la storia dei fratelli Gallo, che occupò per settimane le prime pagine dei giornali nazionali, per l’enorme errore giudiziario che rivelò, è rimasta lì, senza nessuno che si prendesse la briga di recuperarla e ricostruirla nei suoi aspetti inquietanti. A me interessa lavorare su lacerti di cronaca che hanno potenzialità epiche: la letteratura agisce sui luoghi oscuri della psicologia umana e della storia dando loro una forma espressiva e stilistica il più possibile unica e irripetibile» (cfr. Antonio Prudenzano, Paolo Di Stefano racconta ’Giallo d’Avola’: Non volevo camilleggiare…).

Lembi di cronaca e storie dietro ai fatti assumono una potenza performativa per mezzo della scrittura. Per altre vie anche l’antropologo esaltava, sia sul piano del contenuto che della forma, le potenzialità insite nelle storie di vita. Nel luogo della scrittura, spazio sempre fondante e foriero di scoperte, uomini poco educati a coniugare grammatica e sintassi, poco avvezzi a utilizzare il codice linguistico, scritto o orale, plasmano un proprio linguaggio, forme espressive incerte ma uniche, scritture faticose e claudicanti, compresse nello sforzo di trasmettere messaggi e valori e per questo altamente morali. «C’è una grandezza in queste scritture, che i francesi chiamano “ordinarie” e noi “popolari”, ed è che in esse la forza della vita vissuta trova il modo di diventare messaggio, tradizione. C’è in questi testi una estetica letteraria costruita con le proprie mani eppure forte, per chi solo voglia distogliersi dalle convenzioni correnti» (Clemente 2013: 187). Una grandezza, trascesa dal contenuto che è separatezza: si sottrae il messaggio al tempo profano per restituirlo al tempo sacro, al tempio di Mnemosine: «La testimonianza della vita ha un valore di “sacro” perché [...] contiene il senso vissuto del tempo, quello che si può trasmettere come comprensione dell’esperienza di una forma di vita, e non la mera informazione o ricostruzione delle dinamiche degli eventi e dei protagonisti della storia» (ivi: 212). Sacri e come tali documenti da preservare dal 1984 esiste, a Pieve Santo Stefano, l’Archivio Diaristico Nazionale fondato da Saverio Tutino, in cui vengono raccolte e conservate testimonianze autobiografiche, diari, scritti di memoria ed epistolari. Da questo inestimabile tempio della Memoria hanno attinto entrambi gli autori.

da Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano

da Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano

Ogni altra vita. Storie di italiani non illustri è l’ultimo libro di Di Stefano, che reca già dal titolo il segno della pietas, denotata dall’illustre citazione di Saba: Questa voce sentiva/ gemere in una capra solitaria./ In una capra dal viso semita/ sentiva querelarsi ogni altro male/ ogni altra vita/. Sentimento empatico che antropomorfizza l’animale riconoscendo in quel sembiante ovino il dolore umano. «Bisognerebbe parlare, stare ad ascoltare, avere pazienza, tempo, fermarsi, e invece si cammina veloci a piccoli passi, in una sola giornata si sfiorano tante di quelle vite ignote, indaffarate, migliaia di vite», e Di Stefano si ferma, indugia, presta l’orecchio, si fa recipiente di vite altrui, si perde, annaspa nel fiume di parole, riemerge, si confronta, racconta con quella «cortesia cosmica» (Clemente 2013: 157) desiderata dall’antropologo quando si leggono le vite degli altri.

Pagine su pagine di piccole gioie e immensi dolori, tra Sicilia, Lombardia, Belgio, Australia, tra macro e micro migrazioni, incrociamo uomini e donne: si inizia da lontano con il diario del venditore di uova di Scicli Adriano Arrabito, nato nell’Ottocento, cristiano che coniuga la fede fervente con l’affidamento divinatorio alle verità dei sogni nelle scelte più importanti della vita. Segue Venerina Toscano e le sue mani che «[...] passano e ripassano sulla tovaglia fiorata del tavolo da cucina come se volessero spazzar via le briciole della memoria una volta per tutte», parole che raccontano degli anni della guerra, di una sfollata sartina che cuce vestiti con le stoffe di naylon dei paracadute. Raccontano poi Clelia e Glauco, una Giulietta fascista e un Romeo della Resistenza, che riguardano con occhi diversi il giorno della Liberazione, la mattina del 29 aprile 1945 e l’osceno spettacolo inscenato a piazzale Loreto. Ci accoglie nel suo orto il novantaduenne Carlone che non è «un eroe come lo intendono i libri di storia, ma è come se lo fosse», e mentre cura le «lattughine, le catalogne e le patate», ci legge le parole del documento rilasciato insieme alle medaglie che si guadagnò sul Don nel 1942, «scandendole con enfasi, come fosse davanti alla folla oceanica delle grandi occasioni, ma non siamo più di tre persone ad ascoltarlo», in un fiume di parole rievoca l’infausto percorso che l’ha condotto a Villa Trieste, ad avere a che fare con la banda Koch e l’avvocato Trinca, il quale decide di tenerlo con sé e salvarlo perchè dialettofono, utile ad origliare i discorsi degli altri, ma lui il Carlone non si piega e non racconta.

da Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano

da Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano

Ci imbattiamo nelle peregrinazioni di Fiorenza di Franco, che narra la sua storia e ricostruisce, da adulta, quella del padre Oscarre, «un fiumano, classe 1895, talmente italiano nell’animo da italianizzare anche il suo nome», un diplomatico che si ritrova a fianco di D’Annunzio durante l’impresa di Fiume, «omone di cento chili» emaciato dopo la detenzione a Mauthausen. Bambina coraggiosa, il cui destino sarà stravolto da un’indecisa Ungheria che «decide di non decidere» l’otto settembre 1943 e vivrà un’«odissea» in cui incontrerà Giorgio Perlasca, Rosa Bartolini scrive il suo diario «[…] lungo righe fittissime e quasi prive di margine, che confondono la messa a fuoco. Non c’è aria nei fogli, come nella sua vita». Nel diario di Antonio Sbirziola «Papa e Mamma sono sempre maiuscoli. [...]. Le sue sono pagine senza accenti, e spesso senza spazi bianchi tra le parole e ancora più spesso senza punteggiatura, solo punti fermi seminati qua e là. La grammatica non è il suo forte, l’espressività e il racconto sì»; pagine senza punteggiatura come la vita trascorsa in un incessante viaggio che lo conduce fino in Australia. Troppi punti, invece, nel diario di Flora Ritter: «Troppi scrupoli, troppe riflessioni, troppa obbedienza», una giovanne donna in potenza divisa tra le grandi rivoluzioni degli anni sessanta e settanta e sedute psicoanalitiche. Il minatore Lodovico Molari ci mostra quanto il destino possa essere beffardo: l’emigrazione, il dolore per la perdita di un fratello nella tragedia di Marcinelle, poi forse un po’ di respiro con il ritorno in patria e l’apertura dell’armeria e infine l’incontro con Roberto Savi e la banda della Uno bianca che manda in fumo la dignità di una vita costruita faticosamente. E ancora con Nuzzo Loreto leggiamo i disastri ambientali e umani delle industrie petrolchimiche, prendono piede tra le pagine i nuovi mostri che vagano folli nei nostri decenni, fatti di cronaca che giacciono impolverati e latenti negli angoli della memoria: sono Emanuele Scieri e Monica Trapani, ma ci sono anche le vittime dell’indifferenza, del giudizio degli altri, chi cerca se stesso spendendosi in eccessi e chi al contrario vorrebbe solo sposarsi.

Tante, tantissime voci, coreuti che partecipano al dramma storico, offrono lo spettacolo meraviglioso che è la cultura agita e negoziata, sperimentata ed esperita, mostrano le modalità in cui le regole condivise vengono giocate e orchestrate in combinazioni previste e inimmaginabili. Le storie di vita, in questo senso, sono opportunità preziose per gli studiosi, concedono la possibilità di una ricognizione attenta e profonda, si pongono come «lettura antropologica attiva», un virtuoso esercizio di analisi destinato ad allargare i propri orizzonti conoscitivi, nello sforzo di far dialogare i testi, di decostruire i riferimenti culturali, di favorire mozioni di empatia e pietas. Un viaggio che è una operazione di traduzione, di traslochi concettuali, una migrazione anche sentimentale che è l’unica via d’accesso per accogliere l’alterità. «Con le autobiografie si viaggia nelle storie delle persone, la loro conoscenza e comprensione è un viaggio continuo, è uno spostamento morale e conoscitivo. Si ha spesso l’impressione che è vera conoscenza quella che ti cambia, che ti fa dire: non sono più quello di prima» (Clemente:162-163).

E Di Stefano viaggia e permette di viaggiare tra le diciassette storie, vite abilmente rinarrate da un corifeo in affettuosa corrispondenza con la memoria, che non risparmia nulla alla performance, nemmeno se stesso. Il giornalista non tralascia di descrivere i dettagli delle interviste, restituisce con grazie e attenzione ogni particolare degli incontri con uomini e donne, rispettandone il pudore, il riserbo, il dolore. Ne descrive il tono, le pause, la prossemica, la gestualità, gli occhi: azzurri, verdi, marroni, neri, vispi, pietosi, buoni, terrorizzati, smarriti e «fissi sui ricordi». Sono la postura del ricordante, «[...] luogo di una “fondazione culturale” che dà senso [...] alle convenzioni fisico-geometriche della vita», scrive Clemente (243), una torsione del soggetto e del tempo che consente di raccontarsi e porre le basi per un dialogo intergenerazionale, la continuità che trapassa il tempo. «Gli occhi guardano il passato “dietro” di noi, ma all’apparenza essi guardano l’interlocutore, davanti a chi racconta, e le parole procedono verso il tempo futuro, al cui passato saranno poi consegnate. La “postura del ricordante” richiede una torsione della temporalità, tornare e insieme esserci, essere là ed essere qui, procedere verso il futuro, con la memoria di un passato» (ivi: 219). Procedere nel futuro guardando il passato, ma anche guardare al passato per cambiare il passato: le storie di vita, le biografie orali e scritte « [...] rendono il passato imprevedibile. Ecco un’altra torsione del tempo: le grandi narrazioni novecentesche hanno reso prevedibile la storia, il passato, disegnandone le condizioni di possibilità, le regole di comune obbedienza. Ogni racconto di vita, ogni ricordo che ricompare, invece smentisce questa intenzione e riapre la leggibilità del passato. Il passato sarà sempre futuro» (ivi: 225).

da Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano

da Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano

Affidarsi alle storie di vita significa disporsi ad una individuale leggibilità del passato, una nuova forma di conoscenza aperta alla molteplicità di visioni e interpretazioni, continuamente moltiplicata e incrementata da ogni singola testimonianza, dai racconti autobiografici, dai diari, dall’autobiografia orale, unici documenti capaci di restituire una Storia inedita, data da inquadrature e ottiche diverse, riposizionamenti dello sguardo orientati verso scorci inusuali, non troppo lontani dalle ricostruzioni storiche e sociali ufficiali ma difficilmente raggiungibili, territori da esplorare  gravidi di scoperte. «Ciò che ci offrono queste vite comuni è qualcosa che la storia non ci darà mai e che forse non vuole o ha paura di dare: una società vista straordinariamente da chi l’ha vissuta e ce la racconta, il racconto di un mondo. Questo racconto può essere anche di un fascista o di un antifascista, noi non vi cerchiamo la Verità, ma l’umanità, i valori morali, il senso della vita, il rapporto con le generazioni» (ivi: 213).

Ma nello sdoppiamento del soggetto che rievoca il proprio tempo, lo esternalizza e lo proietta verso una futura memoria, si produce un ulteriore cortocircuito, un gap che coinvolge lo stesso interlocutore. Come se nella deformazione dello spazio-tempo, nella torsione, si generasse un campo gravitazionale intenso, un buco nero, che disancora e travolge, avviando un nuovo viaggio nel tempo. «Una cosa interessante della lettura antropologica delle autobiografie è che entrando nella soggettività dell’altro, il lettore si sente lui stesso confrontato all’altro, guardato, oggettivato. Questo sguardo oggettivante su di sé, che si scopre immedesimandosi nell’altro, è il nucleo del moderno spirito riflessivo dell’antropologia. L’antropologia che ci “oggettiva attraverso lo sguardo dell’altro e che quindi ci fa sentire “altri” è quella che ci forma di più, anche rispetto a quella che ci manda altrove, che ci fa sentire altri “loro”. Quando entrando nella soggettività dell’altro ci sentiamo noi “oggetti” raccontabili e non solo soggetti protagonisti di vita, troviamo anche il nucleo del possibile racconto autobiografico nostro» (ivi:164-165).

Così si muove Di Stefano nelle scritture delle storie degli altri, entrando nelle loro soggettività, fino al punto di esserne travolto e disancorato, fino al punto di abbozzare un’autobiografia, di offrire se stesso e i suoi ricordi: il padre, Giovanni Di Stefano, Vannuzzo, professore di latino e greco, emigrato e siculocentrico con una fissazione per le etimologie e l’onomastica, il cui scopo « [...] era quello di ricondurre tutti indistintamente, che fossero ticinesi, italiani del Nord o del Sud, svizzero-tedeschi, svizzero-francesi, a un’unica origine: Avola e immediati dintorni. Comunque la Sicilia», perchè «[...] nessuno sfugge all’energia magnetica di Avola: per lui, da lì tutto partiva e lì, prima o poi, tutto arrivava. Anche lui è partito da lì e lì è approdato per sempre». Tra una vita e l’altra, in un rimando di corrispondenze ogni ricordo altrui si riverbera, illuminando quello contiguo, eventi e cose collegate da impercettibili e invisibili connessioni, «ci sono vite simili che si lambiscono soltanto», echi perentori a cui si deve rispondere con la propria voce, la propria storia.

da Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano

da Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano

Succede che guardando una periferia ed un cortile torni «[...] alla mente via generale Guisan, a Viganello, in cui ho vissuto la mia infanzia e la mia adolescenza» insieme ai giochi per strada. Le estati trascorse in Sicilia,  l’esperienza migratoria a Lugano dove «eravamo africani o quasi, in Svizzera: raramente terroni, più spesso ci chiamavano Africa bianca oppure, in dialetto ticinese, majaramina, cioè rosicchiatori, come topi, della ramina, della rete di confine» o ancora accade «[...] mentre leggevo il diario di Sbirziola, all’improvviso al suo volto si sovrapponeva quello di mio zio Pierino, che era nato nel 1933 e non era mai stato in Australia. Leggevo contemporaneamente una vita doppia [...]». Ma è soprattutto il ricordo di Claudio che ghermisce le pagine, il fratellino minore scomparso troppo presto e il commovente viaggio paterno per riportarne la salma ad Avola, un ricordo dolente ed intimo, donato alla Memoria per immortalare quella breve vita, un desiderio realizzato ed inverato nello spaesamento del piccolo Luca di fronte alla lapide, che ribalta e confonde passato, presente e futuro: ««Papà, ma allora quanti anni aveva Claudio quand’è nato?».

Paolo Di Stefano esercita il lettore a quella «immaginazione morale» auspicata da Clemente, una lettura che apra gli orizzonti del singolo premendolo verso la comprensione dell’Altro, condensa in queste pagine un secolo di Storia italiana. Consegnate alla Memoria collettiva esse sono destinate a  mostrare gli affanni e i crucci, le speranze e i dolori esistenziali che cambiano solo nella forma esteriore ma permangono gli stessi, da uomo a uomo, da donna a donna, in una catena generazionale infinita di corsi e ricorsi.

Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
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Annamaria Clemente, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e le reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni.

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