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Per un po’ di memoria su riforme, leggi e vecchi vizi della scuola italiana

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per la scuola

di Piero Di Giorgi

L’articolo di Fabio Dei, sul numero 53 del primo gennaio 2022 di Dialoghi Mediterranei, relativo alla critica del libro dei coniugi Paola Mastrocola, ex insegnante di scuola media secondaria, e Luca Ricolfi, docente universitario di sociologia, autori del libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La nave di Teseo, 2021), mi ha molto intrigato, lo condivido pressoché interamente e confesso che ho provato una reazione di rabbia nella lettura di quel libro.

É vero che è avvenuto un abbassamento della qualità dell’istruzione che danneggia in primis le classi popolari e marginali. Ed è vero anche che gran parte degli studenti arrivino all’università privi delle necessarie competenze di base. L’ho constatato anch’io, sia nella mia esperienza d’insegnamento alla Sapienza di Roma e successivamente all’Università di Palermo. Inoltre, tutto ciò ha generato la scomparsa del ruolo di ascensore sociale della scuola e incide altresì sulla qualità della formazione dei nuovi insegnanti.

Dove non si può consentire con gli autori de Il danno scolastico è quando attribuiscono la causa e la responsabilità del decadimento della scuola alle riforme volute dai governi progressisti e dei democratici, a partire dalla riforma del 1962, che ha introdotto la Scuola media unificata. Ma ancora più grave e scandaloso è che gli autori rimpiangano la scuola selettiva e ne vorrebbero in pratica la restaurazione.

In primo luogo, occorre dire che, prima della riforma del 1962, il sistema scolastico italiano era retto dalla più organica delle riforme, che portava il nome del castelvetranese Giovanni Gentile, rimasta in vigore, almeno nella sua struttura portante e soprattutto per quanto riguarda la scuola secondaria di secondo grado, fino alla fine degli anni novanta. Nel suo impianto fondamentale, risentiva di una concezione aristocratica e classista sin dalle elementari, perché introduceva, dopo gli esami di quinta, una biforcazione, che incanalava i figli della borghesia e delle classi dirigenti verso i licei, attraverso un esame di ammissione alla scuola media, e avviava alla formazione professionale, si chiamava per l’appunto Avviamento, i figli delle classi subalterne.

Grazie alla legge sulla scuola media unica n. 1859/62, criticata dalla coppia Mastrocola-Ricolfi e coerentemente con l’art. 3 della Costituzione sulla pari dignità di tutti i cittadini di fronte alla legge, veniva posto un argine all’orientamento classista contenuto nella riforma Gentile. Non solo, questa legge ha rappresentato il corollario organico di alcune leggi fondamentali, approvate sull’onda lunga dei movimenti del ’68-69, come i nuovi Orientamenti didattici per la scuola dell’infanzia del 1969, che pongono il bambino al centro del progetto educativo e soggetto di diritto a una formazione integrale; la legge 820/1971, che ha introdotto il tempo pieno, la legge 517/1977, che ha prodotto una piccola rivoluzione tanto da essere nota come miniriforma della scuola, in quanto affronta il rapporto tra diversità ed uguaglianza, abolisce le classi differenziali e introduce l’integrazione per le diversità.

s-l1600L’ultima riforma degna di questo nome, almeno per quanto riguarda la scuola elementare, è stata emanata con il D.P.R. n. 204 Programmi didattici del 1985: «La scuola elementare, nell’ambito dell’istruzione obbligatoria, concorre alla formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla costituzione e nella valorizzazione delle diversità individuali, sociali e culturali». Essa ha rappresentato un processo di rinnovamento culturale, pedagogico, metodologico e didattico e di conseguente riorganizzazione della scuola elementare, con decisi tratti di discontinuità rispetto all’impianto gentiliano. Vi hanno partecipato i maggiori e più autorevoli pedagogisti e qualche psicologo. Il vero animatore e coordinatore dei lavori è stato Mauro Laeng che, nella sua veste di vice-presidente, ha saputo realizzare al più alto livello culturale e professionale le necessarie “mediazioni” tra le molteplici (e talvolta contrapposte) posizioni, ispirazioni e ideologie rappresentate nella Commissione. Parliamo di Dario Antiseri, Raffaele Laporta, Roberto Maragliano, Ferdinando Montuschi, Michele Pellerey, Clotilde Piperno Pontecorvo, Cesare Scurati, Gioacchino Petracchi, Ennio Drachicchio, Alberto Alberti, Matilde Parenti, Paolo Calidoni, ai quali successivamente si aggiunsero Giacomo Cives, Franco Frabboni, Amelia Vetere Amatucci, Nando Filograsso, Caterina Gioberti, Guido Petter, Mario Riboldi.

I nuovi programmi erano improntati al pluralismo culturale e mettevano a fondamento la cultura scientifica e un impegno pedagogico diretto a realizzare e valorizzare la formazione civica, sociale e morale delle nuove generazioni. Prefiguravano, cioè, una scuola come ambiente educativo di apprendimento, attenta alle diversità, alle situazioni di handicap e di svantaggio culturale, sulla base del principio che ciascuno è diverso dagli altri. Affermavano che l’insegnante doveva partire dall’identità culturale del singolo e approntare percorsi personalizzati nel rispetto del ritmo di crescita individuale. Veniva, inoltre, sottolineata la continuità del processo educativo, la necessità di una collaborazione-interazione scuola-famiglia.

Sull’onda dei nuovi programmi della scuola elementare del 1985 e della successiva legge di riforma 148/ 1990, nel 1991 sono stati approvati i Nuovi Orientamenti della scuola dell’infanzia che, finalmente, veniva riconosciuta come una vera e propria scuola e come primo gradino all’interno dell’unitarietà della scuola di base. Inoltre, è avvenuto il passaggio dalla classe monade al “modulo”, cioè il maestro unico veniva sostituito da un team docenti, si operava l’accorpamento delle discipline per ambiti disciplinari e si istituiva un piano straordinario pluriennale di aggiornamento di tutto il personale docente, direttivo e ispettivo.

Sono, forse, queste le leggi che i coniugi Mastrocola-Ricolfi vogliono abrogare? Se proprio si vuole trovare una riforma di un ministro cosiddetto di sinistra, che si può, a mio modesto avviso, criticare, è stata quella di Luigi Berlinguer che, attraverso la legge 10 dicembre 1997, n. 425, ha modificato la disciplina dell’esame di maturità e, con la legge-quadro 10 febbraio 2000 n. 30, ha riformato i cicli dell’istruzione superiore. La mia critica, tuttavia, va soprattutto alla riforma dell’università basata sul tre+2, ancora vigente, con l’intento dichiarato di anticipare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. In verità, ha avuto come esito l’aumento di un anno di università, perché se lo studente non prende la laurea specialistica, gli sono preclusi certi concorsi o non può progredire nella carriera fino alla dirigenza. Casomai, il tre + due avrebbe avuto un senso se il biennio fosse stato concepito come esperienza di pratica professionale. E comunque una cosa positiva c’era di certo e cioè la riforma prevedeva, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, un piano di riqualificazione degli insegnanti.

In ogni caso, a cominciare dall’inizio del nuovo millennio, negli ultimi due decenni, anche a causa della nuova fase d’instabilità politica, ogni governo, di centro-destra o di centro-sinistra, ha fatto la sua riforma, cancellando pezzi di quella precedente e ha avuto come obiettivo principale ed esiziale la riduzione della spesa pubblica. Quella di Berlinguer è stata modificata e sostituita dalla riforma Moratti del 53/2003, seguita dal 2008 al 2010 dalla cosiddetta riforma Gelmini durante il quarto governo Berlusconi, cui è seguita quella del governo Renzi, nota come “la buona scuola” con la legge 107/2015. Sarebbe troppo lungo soffermarmi sulle singole riforme, ma qualche cenno voglio fare sulla cosiddetta riforma Gelmini che, in verità, non è stata una riforma ma un decreto, che ha tagliato in maniera indiscriminata risorse per la scuola pubblica pari a 8 miliardi di euro e ha ridotto l’organico di 130 mila unità tra insegnanti e personale ATA assegnato a ogni istituto, aumentando enormemente il precariato,  accorpando gli istituti con meno di 500 alunni e aumentando il numero degli alunni per classe, abolendo infine il modulo con il ritorno al maestro unico, così da ridurre il tempo-scuola a 24 ore settimanali nelle elementari, 29 nella scuola media, 30 nei licei e 32 negli istituti tecnici, con l’abolizione del tempo pieno e l’accorpamento delle classi di concorso non omogenee. Un vero e proprio disastro.

51gvswfss2l-_sx373_bo1204203200_L’avvicendarsi dissennato delle riforme ha determinato disarmonie tra i vari livelli e percorsi scolastici, ma soprattutto non si è intervenuto su aspetti sostanziali, quali la formazione iniziale e continua degli insegnanti, non si è fatto nulla per rendere attrattiva la funzione docente, ridando la massima dignità a questa professione anche in termini di retribuzione, e soprattutto niente è stato fatto sulla necessità e l’urgenza del cambiamento delle metodologie didattiche.

Ed è stato tutto ciò, semmai, che ha prodotto effetti non trascurabili sulla qualità dell’istruzione e della formazione, sotto la spinta dei ministri della Pubblica Istruzione via via succeduti che hanno ignorato che la conoscenza è oggi il maggiore fattore di produzione, tanto più che perfino Adam Smith aveva sostenuto che la conoscenza rappresentava la nuova ricchezza delle nazioni. A conferma della scarsa importanza che è stata data alla scuola e alla ricerca, secondo l’Eurostat, nel periodo 2009-2018, la spesa pubblica per l’istruzione è scesa dal 4,6% al 3,8 per l’Italia, mentre è diminuita dal 5,2% al 4,6% nella media europea.

Mastrocola e Ricolfi se la prendono anche con il ’68 e perfino con don Lorenzo Milani, il quale, invece, denunciava che la scuola continuava a essere classista e la paragonava a un ospedale che cura i sani e manda a casa i malati. Non a caso nella scuola di Barbiana si dava consapevolezza agli alunni e li si stimolava all’impegno e allo studio, insegnando loro che chi sapeva cento parole era destinato a obbedire, mentre chi ne conosceva mille era candidato a comandare o a sapersi difendere da chi abusa del potere. D’altronde, sono tantissime le ricerche che dimostrano che il patrimonio linguistico dei bambini dei ceti meno abbienti è molto più scarso di quello dei bambini di classe media e alta. É ciò che si usa chiamare barriera linguistica. Come ci ha insegnato Lev Vygotskij, il linguaggio, da mezzo di comunicazione esterna, diviene linguaggio interno e cioè funzione mentale, che fornisce i mezzi fondamentali al pensiero del bambino per simbolizzare la realtà. Detto altrimenti, il linguaggio è la base del pensiero e l’eredità culturale è il primo fattore di disuguaglianza iniziale del bambino.

81129hjpfllI coniugi Mastrocola e Ricolfi rimpiangono la selettività e sorvolano sul fatto che la dispersione scolastica è ancora una piaga che colpisce le classi marginali e che è la vera patologia della scuola. Un’indagine della rivista Tuttoscuola del 1998, dal titolo La scuola colabrodo, mette in luce il fallimento del sistema educativo che ha causato dal 1995 in poi la dispersione di oltre tre milioni e mezzo di studenti, senza considerare quelli che vengono depistati nella scuola media e nelle elementari; non solo, la percentuale degli alunni depistati è ancora più grande nel Meridione, come bene evidenzia Antonio Pioletti nel suo articolo, corredato da tanti dati, pubblicato nello scorso numero di Dialoghi Mediterranei.

In buona sostanza, ancora oggi il sistema scolastico è funzionale alla riproduzione sociale. Non è cambiato nulla da quando cinquanta anni fa Pierre Bourdieu e Claude Passeron, con la loro teoria della riproduzione sociale, avevano sviluppato un’analisi molto critica verso il sistema educativo, il quale riproduce la struttura sociale esistente e non la mobilità sociale. Gli autori hanno studiato i modi in cui una determinata classe sociale è in grado di riprodursi, trasmettendo ai propri discendenti i privilegi dei quali gode. Non si può non concordare con loro quando scrivono che «il funzionamento latente dell’apparato educativo, a dispetto della libertà di accesso e del funzionamento formale, determina di fatto una selezione basata sui criteri culturali della classe dominante».

Anziché formulare giudizi assertivi e avere nostalgia della scuola classista e selettiva del passato, ci si dovrebbe interrogare seriamente su quelle che, a mio modesto avviso, sono le cause vere della crisi della scuola e che cercherò di elencare. Quel che è certo è che la scuola così come è oggi appare noiosa, demotivante e non piace ai bambini e nemmeno ai giovani. Penso che chiunque abbia figli e nipoti può confermarlo. La metodologia scolastica si fonda su un sapere trasmissivo e già confezionato, che rende passivi i discenti, un sapere nozionistico e astratto, staccato e lontano dalla vita reale; non è attenta alle problematiche e ai bisogni dei giovani. La scuola, in sostanza, tarpa sovente le energie, la curiosità e gli interessi dei bambini e dei ragazzi, non li stimola a pensare e a essere autonomi e capaci di scegliere e di criticare.

41p1eeunbrl-_sx306_bo1204203200_Il diritto allo studio può realmente essere attuato se diviene diritto al successo, ma ciò può realizzarsi se la scuola muta radicalmente nei suoi metodi, se è attenta ai bisogni e ai vissuti esperienziali di ciascuno, se riparte dai linguaggi personali e sociali e dagli interessi di ogni alunno e lo rende protagonista del suo processo di apprendimento. Per realizzare ciò, innanzitutto, occorre assicurare il tempo pieno, cioè tutto il lavoro deve avvenire dentro la scuola, una scuola senza voti e interrogazioni né compiti e ricerche a casa. I primi due sono fattori di competizione e di ansia, i compiti a casa discriminano i bambini e i ragazzi che non hanno genitori colti e librerie in casa da quelli che possono fruire di questi aiuti. In tal modo si sconfiggono le differenze sociali e culturali di provenienza.

 La seconda precondizione per un efficace azione educativa è che la scuola deve essere, sin da quella dell’infanzia e per tutto l’itinerario scolastico, gioiosa e stimolante la curiosità degli alunni, deve essere un luogo in cui regna un’atmosfera allegra, in cui l’educatore deve essere in grado di stemperare le tensioni, di mettersi in gioco, capace di ironia, di empatia, di disponibilità allo scherzo. I bambini sono curiosi di sapere. Sia Freud che Piaget hanno messo in luce questa peculiarità, parlando di una vera e propria pulsione di sapere. I bambini si meravigliano di ogni cosa che scoprono intorno a loro. E spesso siamo noi adulti a spegnere la loro curiosità. E perciò è importante che la scuola la attivi e la stimoli durante tutto l’itinerario scolastico. Ciò significa creare un clima positivo, relazionale e partecipativo, basato su lealtà ed autenticità da parte degli educatori, per garantirsi l’interesse, l’attenzione e l’ascolto degli alunni, in un ambiente in cui le emozioni non vengano espulse dal rapporto educativo ma siano premessa per un’efficace azione educativa. Ogni alunno ha diritto di trovare nella scuola un’atmosfera rassicurante e accogliente. Se la scuola rende piacevole lo star bene insieme, se non è solo luogo d’istruzione ma anche di esperienza e di vita collettiva, può essere uno strumento fondamentale di eguaglianza, di prevenzione della marginalità e di antidoto all’esclusione sociale.

La scuola, oltre a essere attenta alle relazioni, deve soprattutto mirare ad un’educazione onnicomprensiva: affettivo-emotiva, intellettiva e sociale. Dalla scuola, purtroppo, sono state espulse, in linea generale, le emozioni e si è invece enfatizzato l’aspetto cognitivo. Dopo Freud, la grande maggioranza degli psicologi, da Piaget a Vygotskij e a Bruner, hanno messo in luce che l’affettività è il motore dell’apprendimento. L’affetto è il primo linguaggio che l’uomo conosce, la forma primitiva della conoscenza, è il lievito attraverso il quale passano tutte le conoscenze, l’energia che fa germinare i semi di ogni conoscenza, che mobilita le risorse, la motivazione e lo sviluppo dei processi di pensiero. Questo si costruisce nelle prime relazioni con gli oggetti d’amore primari. Sin dai primi mesi di vita, attraverso le interazioni affettive, le gratificazioni e frustrazioni che il bambino sperimenta con i suoi genitori, egli instaura un sistema comunicativo a livello inconscio, fondato su un codice affettivo comune, che continua nel corso dello sviluppo e lo aiuterà nel corso della sua vita. É attraverso questi primi legami che il bambino si rappresenta il mondo. I genitori rappresentano una sorta di calco, uno schema-base del sistema-mente. Le prime relazioni sono il prototipo di ciò che mettiamo in scena successivamente. I primi apprendimenti lasciano una traccia indelebile proprio perché impastati di profonde risonanze emotive. L’educazione affettiva-emotiva aiuta a elaborare e a diluire le emozioni, a riflettere su se stessi, è una condizione per uno sviluppo psichico più equilibrato ed armonico.

s-l1600-1In un’epoca caratterizzata da un‘accelerazione dei cambiamenti, è fondamentale insegnare non soltanto i contenuti del sapere ma l’acquisizione di abilità di ricercare, documentarsi, osservare, confrontare dati, imparare ad imparare. A scuola, generalmente, non s’insegna a pensare. Educare a pensare significa, invece, abituare all’esplorazione, stimolare l’attenzione, mettere in relazione per avere una visione globale di un problema. Significa riconoscere i nessi tra cause ed effetti, ma è anche riduttivo pensare che vi sia una sola causa a determinare un dato fenomeno o escludere che l’effetto, a sua volta, non possa agire sulla causa. Bisogna anche abituare il discente a cercare di vedere qual è l’origine del proprio punto di vista, a prendere in considerazione altri punti di vista, mettersi nei panni del punto di vista dell’altro. Educare a un pensiero divergente, cioè critico e originale, significa stimolare l’alunno a prendere l’iniziativa, a non subire le posizioni degli altri, a essere responsabile, a porsi interrogativi, a esplorare le novità. Ciò implica che l’educatore sia una persona empatica, in grado di immedesimazione organica, di comprendere i desideri del bambino/ragazzo, d’infondergli fiducia e sicurezza, incoraggiandolo anziché frustrarlo, enfatizzando gli aspetti positivi piuttosto che stigmatizzare gli errori.

Inoltre, nella scuola che abbiamo frequentato noi, tanto rimpianta dagli autori del libro Il danno scolastico, venivano insegnate le singole discipline in modo separato dal resto del sapere, come se la realtà fosse spezzettata e non unitaria. Nel corso della storia, i saperi si sono sempre più specializzati, suddividendosi in singole discipline, che a loro volta, approfondiscono aspetti parziali della stessa, fino a diventare separati, disgiunti. Questo processo è cominciato soprattutto nel XIX secolo con la nota divisione, già evidenziata da William Dilthey, tra naturalwissenschaften (scienze della natura) e geistwissenschaften (scienze umane). Le prime studiano i fenomeni, i fatti, che si presentano alla coscienza estrinsecamente. Le seconde, invece, si mostrano intrinsecamente alla coscienza. Se, da una parte, ciò ha prodotto un approfondimento maggiore di aspetti parziali della realtà, dall’altra, la superspecializzazione ha fatto perdere di vista l’unitarietà del reale, impedendo di vedere il contesto, la multidimensionalità dei fenomeni e dei problemi e la stessa globalità. La specializzazione del sapere ha portato non solo ad una netta separazione tra scienze umane e scienze naturali, ma anche ad una scissione tra i diversi saperi.

Il nostro sistema educativo, sin dalla scuola primaria e fino all’università, c’insegna a separare e disgiungere i problemi, a separare le discipline. I giovani perdono di vista l’unitarietà del reale e la dimensione olistica dei saperi e non sono messi in grado di contestualizzarli e d’integrarli, e ciò confligge con le caratteristiche della nostra mente che tende a integrare, a generalizzare, contestualizzare, astrarre e globalizzare.

Per rispondere alla sfida della complessità, si è venuta formando un’epistemologia e una scienza della complessità, caratterizzata dalla interdisciplinarità, dall’interazione-integrazione delle diverse discipline, dei diversi ambiti di ricerca. Di conseguenza, la sola formazione che si può dare alle nuove generazioni è quella che deriva da un sapere sistemico e non a compartimento stagno e separato, dal pieno sviluppo delle loro capacità, dal possesso di metodi d’indagine, di giudizio critico, in maniera che possano padroneggiare qualsiasi realtà e contesto in cui si vengano a trovare.

71gi0qrfvlNelle società complesse, non ci può essere più posto per una scuola nozionistica, verbalistica e trasmissiva, l’alunno non è un recipiente da riempire con nozioni trasmesse dall’educatore. Ciò vuol dire che è necessario che la conoscenza, il sapere, da trasmissione catechistica si trasformi in appropriazione attiva da parte degli allievi. Significa abbandonare la pratica diffusa dell’erudizione incerta e nozionistica, priva di concretezza, che considera i discenti come semplici ricettori, che accettano passivamente ciò che trasmette l’insegnante, per imboccare, invece, una metodologia scientifica, in cui nulla è dato per scontato, punti sulla problematizzazione della realtà, abituando i giovani al pensiero critico e creativo, insegnando loro a contrastare i pregiudizi, a sviluppare le capacità relazionali e il lavoro cooperativo in gruppo.

L’essenza di un sistema formativo deve essere quello di riuscire a formare persone critiche e con autonomia di pensiero, in cui il sapere viene ricercato, elaborato e costruito, in cui si coniughi la libertà con la responsabilità. Ciò configura una scuola in cui non vi siano saperi già definiti e prefabbricati, ma dove si parta sempre dal dubbio. Non riempire, in sostanza la testa di nozioni ma formare una “testa ben fatta” per dirla col titolo di un saggio di Edgar Morin che, in un altro libro, ha scritto che «la conoscenza è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze».  Insomma, si tratta di costruire una scuola che forma persone capaci di pensare con la propria testa e di essere in grado di cercare nuove informazioni, di giungere a scoperte personali, di dubitare delle verità imposte, di rispettare le opinioni degli altri, di contestualizzare i saperi.

L’insegnamento deve partire da ipotesi, nella consapevolezza che esistono certezze e incertezze, che ci muoviamo, nella conoscenza, sul terreno delle probabilità e che, secondo le informazioni raccolte, può mutare l’ipotesi iniziale. La scuola si trasforma, in tal modo, in un ambiente di ricerca, dove ciascuno è stimolato a esporre il proprio punto di vista e, con adeguate motivazioni, viene guidato alla riflessione autonoma, diviene consapevole che ogni scelta ha conseguenze diverse e diversi sono i punti di vista possibili. L’obiettivo deve essere quello di rendere ciascuno capace di formulare problemi, ipotesi, verificarle e cercare soluzioni, ciò che Jerome Bruner chiama un insegnamento ipotetico. Esattamente il contrario di un insegnamento tradizionale, espositivo, autoritario, basato sulla lezione e su un sapere basato su domande di cui si conoscono già le risposte, tenendo invece presente anche l’interrogativo di Heinz Von Foerster: «non sarebbe più affascinante un sistema educativo con domande di cui non si conoscono le risposte?». L’insegnante può anche proporre un problema, un evento della vita quotidiana e suscitare una discussione.

Ciò significa un vero e proprio cambio di paradigma, un passaggio dal modello trasmissivo a quello relazionale, partecipativo, euristico, che favorisce lo sviluppo di capacità decisionale, di analisi e di giudizio degli alunni, la loro consapevolezza e responsabilità. Dismettendo il ruolo di trasmettitore, l’insegnante si trasforma in un attivatore di conoscenze, la scuola in un luogo dove si apprende l’arte di vivere. Una scuola officina di ricerca, dove ci si libera dal mantello delle certezze e si parte dal dubbio metodologico e sistematico, “vediamo cosa succede se…”

41momkur8jl-_sx322_bo1204203200_La nuova scuola, oltre a trasformarsi in centro di cultura e di ricerca, allo stesso tempo, diventa una palestra di confronto, di dibattito e di democrazia. Come laboratorio, dove si ricerca il sapere, un luogo basato sull’orizzontalità/circolarità della relazione, che abitua alla cooperazione, al confronto, alla democrazia. La scuola autoritaria si fonda su un’epistemologia causale-lineare, informativa-trasmissiva e selettiva; la scuola laboratorio privilegia l’epistemologia circolare, formativa, orientativa e creativa. Il metodo in questo caso non può non essere quello del confronto e del dialogo, partecipi tutti i soggetti del processo conoscitivo. In questo modo l’insegnante non è più il trasmettitore del sapere, arroccato dietro la fortezza della sua cattedra, che parla ad un gruppo-classe passivo, che ascolta e i cui membri non comunicano tra di loro, seduti in banchi ordinati in fila nei quali i compagni seduti dietro guardano le spalle di quelli seduti davanti. Cambia lo spazio e l’aula viene disposta in senso circolare e gli alunni e gli insegnanti si possono guardare in faccia, interagire e comunicare tra loro.

Soltanto se la scuola si trasforma in officina di ricerca è possibile creare personalità libere e critiche. Come ha scritto Einstein, l’arte suprema dell’insegnante è risvegliare la gioia della creatività e della conoscenza. In verità, l’intelligenza dell’uomo non è contenuta nella sua testa, in quanto il logos è innanzitutto dialogos. Ne deriva che il processo di conoscenza non si travasa attraverso il suo trasferimento da una fonte all’altra, ma esso emerge dall’incontro tra due e più interlocutori. Come dice Jerome Bruner, il logos contiene in sé gli strumenti, le relazioni, gli amplificatori culturali. Il processo d’insegnamento-apprendimento diviene condivisione e crescita comune. Il sapere si costruisce cooperativamente, attraverso l’interazione delle competenze dell’insegnante e i modelli di mondo elaborati dagli alunni. Ciò può essere vissuto come una ferita narcisistica dall’insegnante, ma anche interpretato come una risorsa preziosa, se ella-egli rinuncia al delirio di onnipotenza ed accetta di considerare l’imprevisto come un’occasione per apprendere qualcosa che non sa, ponendo anche domande di cui neanche ella-egli sa le risposte. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Riferimenti bibliografici 
Bourdieu P.-Passerò J. C., La riproduzione, trad. it. Guaraldi, Firenze 1972.
Bruner J., Verso una teoria dell’istruzione, trad. it. Armando, Roma 1967.
Bruner J., Lo sviluppo cognitivo, trad. it. Armando, Roma 1994.
Dilthey W., Introduzione alle scienze dello spirito, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1974.
Foerster H. Von, Costruire una realtà. in P. Watzlawick (a cura di), La realtà inventata. Contributi di costruttivismo, trad. it. Feltrinelli, Milano 1988.
Milani Lorenzo e La scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Ed. Fiorentina, Firenze 1968.
Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e del pensiero, trad. it. Cortina, Milano 2000.
Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, trad. it. Cortina, Milano 2001.
Vygotskij Lev, Pensiero e linguaggio, trad. it. Laterza, Bari 1990.

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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014); Siamo tutti politici (2018); Scuola ed educazione alla democrazia (2021).

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