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Per un nuovo ambientalismo. La lezione delle culture native

9788833021539_0_536_0_75di Valeria Dell’Orzo

[…] Vide da lontano un busto grandissimo, che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse.

Natura – Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?

Islandese – Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.

Natura – Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.

Islandese – La Natura?

Natura – Non altri.

Islandese – Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.

Natura – Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi? […] 

G. Leopardi, Operette morali, Dialogo della Natura e di un Islandese

Nel mondo dell’umanità globalizzata, la costruzione dei luoghi del vivere e dell’abitare ha compensato le difficoltà della nostra specie di adattarsi a una condizione per noi, forse, più ostica rispetto a molte altre. Che l’uomo non sia capace di adattare se stesso al pari di gran parte del regno animale è evidente dalle minime trasformazioni che segnano il nostro percorso evolutivo ma, in un gioco di specchi, la capacità umana di manipolare a suo comodo, o sarebbe meglio dire a sua immagine, la realtà che lo accoglie, ha reso quasi del tutto inutile l’attuarsi di grandi evoluzioni nella nostra specie.

A segnare però uno spartiacque nella massa fluttuante dell’umanità, troviamo la differente percezione dell’io sociale entro la Natura, la posizione che i gruppi umani si danno all’interno e in relazione al naturale che fa da sostrato al vivere umano. Adattare se stessi all’ambiente risulta, molte volte, eticamente impegnativo per la specie umana così manchevole fisicamente e così fiera della sua capacità antropocentrica di riformulare il tutto sulla base del sé. Si sono così affastellate nuove creazioni geografiche, in un intreccio serrato di distruzioni aggrappate alla realtà naturale, spesso recalcitrante di fronte al proprio annientamento.

Il mondo del progresso a tutti i costi non si è arrestato alle prime, evidenti, avvisaglie che il pianeta ha spesso lanciato: non l’hanno arrestato le frane, le esondazioni, le desertificazioni, le trasformazioni climatiche, l’estinzione di piante e animali intorno a noi. Ci siamo mossi per generazioni, e continuiamo insulsamente, in una corsa cieca e forsennata sulle macerie naturali che noi stessi lasciamo al nostro invasivo passaggio.

9788858426463_0_536_0_75«Quando il mondo non era ancora trop plein o surriscaldato, esistevano limiti alla quantità di danni che gli esseri umani potevano infliggere al proprio ambiente. Da un punto di vista locale le conseguenze indesiderate sotto forma di inquinamento potevano essere enormi», ci spiega T. H. Eriksen (2017: 140); ci siamo così illusi che bastasse riempire delle scorie del progresso industrializzato e massificato, quelle zone della Terra che abbiamo preteso essere lontane abbastanza da non intaccare il nostro vivere quotidiano. Quell’immediato è però finito e la corrosione del pianeta si palesa, nei suoi effetti, anche a quella fetta di umanità che pensava di potersi sottrarre alla sua stessa unione col diffuso sistema Mondo. « […] adesso stiamo finendo gli spazi vuoti nei quali i rifiuti possono essere facilmente abbandonati»  continua Eriksen (ivi: 141) – il pianeta « […] è diventato un luogo in cui lo spazio, scarso, deve essere allocato», poiché sempre meno sono i luoghi di cui è possibile appropriarsi, nella supponenza che siano spazi vuoti, e le politiche ambientali da baluardi della sopravvivenza si sono trasformate in politiche elettorali, i circuiti ecologici si sono riformulati e l’intervallo che fa di un prodotto un rifiuto si è assottigliato sotto la spinta delle contrazioni del produrre e consumare globale. Il mondo ricco consuma a un ritmo insostenibile, che rende esasperata la produzione e soffocante la quantità dello scarto.

Le differenti percezioni del rapporto che lega ogni forma di vita alla natura globale hanno a lungo seguito una distinzione sociale, spesso ghettizzata, svilita e pressata in spazi sempre più corrosi lungo i bordi dall’avanzata dello sfruttamento economico, capace di assumere plurime e mostruose forme di espressione; oggi il mondo dei più giovani si è riappropriato dell’etica ambientale e lotta per riconquistare un rispettoso dialogo con la natura, si è fatto carico dei disastri accumulatisi per secoli, ostenta tutta la sua insofferenza verso la cecità di un modus vivendi superficiale e egoista, incapace di valutare e rispettare le interconnessioni che legano il tutto in un unicum vitale.

9788832853667_0_500_0_75Come sottolinea Tim Ingold (2020), l’intervento umano fatto di industrializzazione, sfruttamento delle risorse, uso massiccio di combustibili fossili, della produzione esponenziale di rifiuti che vengono spesso occultati agli occhi del mondo ricco, per ammassarsi nelle zone più povere del grande globalismo che ci fagocita, genera una diffusa realtà di indebolimento della natura, di avvelenamento del pianeta e conseguentemente innalza il nostro stato di rischio e precarietà, ci espone a disastri ambientali, all’incremento di malattie legate all’inquinamento, alla famelica prevaricazione dei popoli coinvolti nella corsa alle risorse, agli spazi da sfruttare, agli anfratti dove abbandonare i propri rifiuti in ammassi creduti invisibili per distrazione.

Pur essendo sommersi dall’informazione, che dovrebbe permettere lo sviluppo della consapevolezza, questa sembra aver coinvolto, emotivamente e in alcuni casi attivamente, solo le ultime generazioni, offese dalla cecità dimostrata dai loro genitori nei confronti dell’intero pianeta e degli equilibri necessari alla sopravvivenza comune.  Correndo su quegli stessi canali social che luccicano del globalismo che le ha generate, si espandono nuove ondate di conoscenza e coscienza, si agita la ribellione giovanile che, conscia del disastro, si scontra col mondo adulto di chi ha depauperato l’ambiente con la corrosione dell’inquinamento, con la ferocia della distruzione, della cementificazione, della conversione dello spazio in chiave antropo-utilitaristica.

I più giovani membri della società del mondo massificato, hanno fatto dell’impegno contro le pratiche di compromissione ambientale la loro bandiera e il punto di incontro tra culture, lingue, abitudini e esperienze. Legati dalla condivisione di un atto di consapevolezza e impegno costante, i giovani hanno assunto il ruolo di sentinelle ambientali all’interno di una società che li ha invece cresciuti all’ombra di un esaltato egocentrismo umano, a lungo convinti di essere padroni del mondo, avvinti in quella rete di relazioni continue e mobili che sorregge il tutto attraverso il perdurare di un’interdipendenza, della quale troppe volte non abbiamo tenuto conto.

il-sapore-del-mondo-843Figli della globalizzazione, utilizzatori esperti di quei canali emblema della massificazione, le ultime generazioni hanno fatto della tutela ambientale una nuova dimensione di coesione, di unione trasversale, hanno declinato un codice non solo comunicativo ma anche comportamentale, rivelando un’attenzione e un rigore di cui difficilmente vengono ritenuti capaci. Sono consapevoli, informati e delusi. Di questa nuova sensibilità e di questo nuovo più maturo ambientalismo scrive Emanuela Borgnino nel Le ecologie native (Elèuthera 2022) che ci accompagna lungo un percorso di comprensione, ascolto e riflessione, in uno scenario umano e naturale a noi distante, ci descrive il profilo di uno stile di vita capace di sottrarsi alla schiavitù dell’utile immediato, del comodo imprudente, della prevaricazione distruttiva dell’uomo sul tutto che lo circonda e di cui è parte. La rete di riferimenti storici e antropologici, estrapolati in chiave sincronica e diacronica al tempo stesso, che l’autrice tesse per noi è fitta, solida e permette di attraversare quella realtà e quella verità storica e ambientale, che la ritrosia verso la consapevolezza dei nostri errori ci ha spesso reso oscure.

La via dello sguardo nativo che ci mostra l’autrice è quella della cosciente interdipendenza che lega ogni cosa, che attraversa lo spazio, il tempo, e ci pone su un piano di vicinanza e di comunione, permettendoci di riconoscere il potenziale autodistruttivo dell’uomo sulla natura, ma anche di imparare a ascoltare il suono sordo della Terra, che soffia e sbuffa, borbotta, esplode, smotta le montagne, scuote il suolo e gonfia i mari, in risposta a tutti i maltrattamenti ricevuti. «Le nostre società sono attualmente immerse in una diffusa volontà di saturazione dello spazio e del tempo proprio attraverso una produzione sonora senza requie. […] Se il silenzio è spesso causa di angoscia ai giorni nostri è perché a spaventare è qualsiasi forma di interiorità, in opposizione a una logica produttiva e di mercato che vede l’interiorità come inutile, che non serve a niente», ci spiega Le Breton (2016: 20).

Il silenzio della Natura ha un suono che l’Occidente ha disimparato a ascoltare ma che veicola significati a coloro che, per cultura e acume, sanno porsi in un ascolto dialogante; è «un dialogo, quello con l’ambiente, che la maggior parte delle culture native ha continuato ad avere con lingue e pratiche distinte che tuttavia esprimono, in modi diversi, la non separazione tra esseri umani e natura», afferma l’antropologa Borgnino: «[…] spesso si parla di esseri umani senza prendere in considerazione che il 5% dell’umanità ha dato e continua a dare risposte diverse alla crisi ecologica odierna, questo 5% è costituito dalle culture native» che difendono la loro marginalità dal sistema fagocitante antropocentrico.

i__id9077_mw600__1x«L’etnocentrismo occidentale ha creduto per secoli all’universalità delle sue concezioni dell’immagine e della prospettiva, attribuendo le difficoltà a comprenderle da parte di altri gruppi sociali a un’inferiorità culturale o intellettuale. In realtà, l’occidentale per parte sua viveva una situazione simmetrica e inversa, incapace com’era di cogliere il significato delle immagini […] elaborate da quelle società per cui nutriva solo disprezzo» (Le Breton, 2007: 73); ecco che il rapporto con la Natura, entità temuta dal progresso quale specchio del selvatico da addomesticare, così come è vissuta dai nativi di cui ci parla Ecologie native di Emanuela Borgnino, è risultato ottuso e privo di senso per coloro i quali hanno vissuto e vivono ancora sospinti dal crescente consumismo.

«Credo che per comprendere come si esprima la responsabilità ecologica sia fondamentale comprendere le tensioni e le criticità che circondano gli eccessi e le pratiche culturali», eppure è proprio in seno alle culture occidentali di prevaricazione che la coscienza giovanile ha trovato, nella difesa dell’ambiente e nella critica all’indecente sfruttamento del pianeta, la sua forma di coesione generazionale, di risposta alla stoltezza del mondo adulto, sempre troppo indietro, generazione dopo generazione, rispetto al passo lungo e alla freschezza percettiva e immaginativa di quei soggetti della società nascente che ancora non sono stati risucchiati dall’interesse dell’utile immediato e che coltivano, invece, la fermezza e la coerenza dei princìpi, anche quando questi risultano meno agevoli dell’ignavia.

oltre-natura-e-cultura-3434«Non è il progresso tecnico in sé che trasforma i rapporti che gli umani intrattengono tra loro e con il mondo, sono piuttosto le modifiche a volte tenui di questi rapporti che rendono possibile un tipo di azione giudicato prima irrealizzabile su o con una certa categoria di esistenti. […] Perché una tecnica nuova appaia o sia fatta propria con qualche chance di successo, bisogna quindi che presenti un’utilità reale o immaginaria e che sia compatibile con le altre caratteristiche del sistema dove prende luogo». Così Descola (2014: 380) ampiamente citato dalla Borgnino. La via di attenzione e riduzione del danno che le nuove generazioni promuovono risulta, con evidenza, in linea con quel principio fondante dell’utile che muove l’agire, pur rimanendo imbrigliate nelle maglie del consumismo dalle quali sono nate. «Vivere – scrive Tim Ingold (2021: 11) – è questione di decidere come si vive, e racchiude in ogni momento il potenziale diramarsi in molteplici direzioni, nessuna delle quali è più normale o naturale delle altre. Così come il sentiero nasce camminando, allo stesso modo dobbiamo continuamente improvvisare modi di vita per andare avanti, cambiando rotta anche quando seguiamo le orme dei predecessori».

Più fluido appare invece il pensiero agito delle realtà native che hanno fatto della vita nel rispetto della natura un baluardo della resistenza all’erosione consumistica del mondo, alla vacuità di un regime di vita che ancor più si mostra tale al cospetto di una cultura di dialogo con l’ambiente e la natura che ci ospita. Tuttavia, seguendo le riflessioni di David Le Breton (2017: 38), «Le nostre società […] non sono le prime a interrogarsi sulla fine del mondo o sulle proprie vulnerabilità […]. Alcuni storici ricordano che le potenti civilizzazioni sono crollate nel tempo esaurendo le proprie risorse», è una condizione della quale siamo consapevoli, conosciamo le forme espressive che anticipano il disastro, tra le pagine di Diamond (2014) troviamo deforestazione, cambiamenti climatici erosione del suolo, poliedrico sfruttamento indiscriminato delle risorse e della capacità di resilienza che in molti casi il pianeta dimostra e che al suo venir meno trascina con sé popoli e culture, e che oggi, nel globalismo uniformizzante, rappresenta una minaccia universale e non particolare per la singola comunità più vulnerabile.

514f7ntaprl-_sx319_bo1204203200_Ciò che appare assente, in una larga fetta di popolazione mondiale, è quella capacità di ascolto globale attraverso i sensi, «ossia la capacità di ricevere e percepire stimoli dal mondo terrestre, marino e metafisico rispondendo a questi stimoli sensoriali con atteggiamenti che contribuiscono all’elaborazione del mondo. Questa comunicazione permette di comprendere e accettare la responsabilità che gli esseri umani hanno nel meccanismo omeostatico dell’ecosistema di cui fanno parte» (Borgnino, 2022:185)

Ricchissima di spunti di riflessione, densa di riferimenti e suggerimenti, la ricerca di Emanuela Borgnino, che ci apre alla conoscenza delle culture native hawaiane, ci guida all’assunzione di responsabilità, svela ai nostri occhi quanto rimuoviamo, ignoriamo o fingiamo di non capire del mondo della Natura, di cui come Sapiens – scrive Adriano Favole nella prefazione – saremmo «i protagonisti di una sorta di salto “quantico” che ci avrebbe posti fuori o oltre gli altri esseri del pianeta». La verità è che non siamo fuori dalla Natura, essa è consustanziale alle nostre relazioni, non è spazio di occupazione e usurpazione, non è affatto luogo da piegare all’esclusività di un utile, quello umano, che ha la pretesa di potersi ergere al disopra del tutto quando invece ne è parte, al pari del tutto che lo circonda, lo sostenta, lo protegge e può sopprimerlo, rispondendo solo alla necessità di spegnersi e sottrarsi alla violenza efferata, quanto sciocca, che l’uomo globale continua a riversare sulla Terra.

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022 
Riferimenti bibliografici
Borgnino E., Ecologie Native, Elèuthera, Milano, 2022.
Descola P., Oltre natura e cultura, SEID Ed., Firenze, 2014.
Diamond J., Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino, 2014.
Eriksen T. H., Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato, Einaudi, Torino, 2017.
Ingold T., Antropologia, Meltemi, Milano, 2020.
Ingold T., Corrispondenze, Raffaello Cortina Ed., Milano, 2021.
Le Breton D., Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina Ed., Milano, 2007.
Le Breton D., Sovranità del silenzio, Mimesis Ed., Milano, 2016.
Le Breton D., Sociologia del rischio, Mimesis Ed., Milano, 2017.
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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.

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