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Per un museo dei mondi possibili

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2021 @ 01:45 In Cultura,Letture | No Comments

copertinadi Rosario Perricone

In tempo di pandemia alla chiusura a cui i musei sono stati costretti hanno supplito i libri e i contributi di idee che sono stati pubblicati in rete e a stampa. Tra i volumi editi recentemente spicca il bel testo di Vito Lattanzi Musei e Antropologia. Storia, esperienze, prospettive (Carocci, 2021), che muove dal presupposto che la missione del museo sia quella di “rappresentarsi rappresentando”. Questa postura riflessiva, che pernia tutto il volume, permette a Lattanzi di ripercorrere gli studi avviati in Italia da Pietro Clemente, già a partire dalla fine degli anni Ottanta, sul rinnovamento dei paradigmi del museo etnografico, che ha visto soprattutto nel volume Il terzo principio della museografia (1999) una svolta ermeneutica fondamentale per passare dal museo degli “altri” al museo del “sé”. Ed è proprio su questa isotopia che Lattanzi intreccia i saggi che compongono questo volume: museo come mappa del mondo, come casa dell’immaginario. Lattanzi sottolinea come il museo sia «uno strumento ideologico della memoria che allude a mondi che vengono percepiti come alterità, dove le cose si fanno in un altro modo e dove il passato è un paese straniero». Nel museo infatti, come icasticamente ricorda Clemente, se c’è un posto per il passato questo posto è il futuro e, aggiunge Lattanzi, citando Macedonio Fernandez, oggi c’è più passato di ieri, ed è proprio su queste diverse modalità di interpretazione e rappresentazione del passato che i primi capitoli del volume si innestano.

Lattanzi ricorda come la nascita dell’antropologia nell’800 sia indissolubilmente legata con la storia dei musei. Infatti, il primo campo di ricerca è stato il “campo del museo”, vale a dire è all’interno delle collezioni dei musei che gli antropologi iniziarono a pensare l’alterità, a ragionare sull’alterità ed è proprio a questo momento fondativo che ci si riconnette per rilanciare il ruolo del museo etnografico oggi, un ruolo che deve partire proprio dalle collezioni per passare però dagli oggetti che custodisce agli uomini che quelle collezioni oggi possono reinterpretare, sulle quali possono ragionare, attraverso la tecnica della catalogazione di comunità e con le comunità. Procedure che Clemente aveva indicato come metodo partecipativo di catalogazione per gli “oggetti d’affezione” proprio nel volume citato all’inizio.

Questo ”terzo principio della museografia” Lattanzi lo sviluppa con azioni pratiche sul campo del museo “Luigi Pigorini” di Roma, attraverso una serie di progetti europei con i quali vengono ideate e realizzate alcune mostre a carattere dialogico, coinvolgendo ad esempio alcune associazioni della diaspora romana e proponendo con loro una riflessione sugli oggetti del loro Paese d’origine che il museo custodisce. Riportandoli all’attenzione di quanti oggi vivono una realtà d’immigrazione, questi oggetti attivano un rapporto con la loro comunità di appartenenza, con i luoghi di provenienza, mediato dalla memoria del loro essere stati lì, dell’aver abitato e vissuto quei luoghi. Da qui la scelta di alcuni oggetti che diventano, per quelle comunità, elementi fondanti del loro essere oggi presenti nella realtà contemporanea di Roma. Questo processo partecipativo permette di sollecitare quella capacità riflessiva del museo postmoderno di rappresentarsi rappresentando il contemporaneo e consente ai musei etnografici, in particolare, di ridefinire la propria missione all’insegna della collaborazione e del dialogo con il pubblico.

Se è vero, com’è vero, che questo afflato dialogico è sentito come un obiettivo necessario, poiché la contemporaneità è un campo di rappresentazione abitato da oggetti e da storie, il museo si candida a diventare, sottolinea Lattanzi, un buon modello di riferimento per una società multiculturale dove la coscienza dei beni culturali materiali e immateriali non è più un fattore di esclusione per le minoranze, di qualsiasi tipo esse siano, ma una risorsa preziosa per lo sviluppo sostenibile e per l’inclusione sociale di tutte le minoranze sia diasporiche che endogene (quelle che Gramsci chiamava “culture subalterne all’interno della società occidentale”). Andare aldilà dei circoscritti limiti della nostra immaginazione, riconnettere, decostruire, comparare per differenziare, ci dice Lattanzi, può permetterci di pensare ai musei come luoghi di rappresentazione di mondi possibili.

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Roma, Sala del Museo Pigorini

Il volume nel suo complesso offre al lettore l’opportunità di conoscere gli approcci e i metodi dell’antropologia museale, sia del passato che contemporanei. Attraverso i sei capitoli l’autore ripercorre e connette le teorie antropologiche classiche e moderne con le sue esperienze di vita e di lavoro presso il Museo Pigorini di Roma e come funzionario presso la Direzione generale dei Musei del Ministero dei Beni culturali. Questo intreccio di studio, lavoro e vita professionale permette a Lattanzi di coniugare teorie antropologiche e decreti legge insieme alla pratica espositiva museale attraverso il suo sguardo expografico, per usare le sue parole.

Il volume inizia con la citazione della canzone dei Talking Heads, One in a Lifetime, che evoca il senso di smarrimento che dagli anni ‘80 del Novecento ha caratterizzato la cultura occidentale. Da questo esergo (Well… how did I get hehe?) si dipana il racconto di un’antropologia museale italiana, vissuta e sviluppata in prima persona dall’autore (si pensi alla sua partecipazione attiva alla rivista “Antropologia museale”, fondata e diretta da Vincenzo Padiglione, autore sempre presente nel libro come amico e sodale che nei passaggi programmatici del libro viene spesso evocato). In questo testo trovano spazio anche le esperienze e le competenze di antropologia storica di Lattanzi: si pensi al metodo storico comparativo di Pettazzoni richiamato come colui che emancipa l’oggetto della descrizione formale e lo interroga come testimone di storie, ad esempio nel famoso saggio sul rombo australiano.

La chiave di volta di tutto il libro sono le frequenti domande che l’autore si pone retoricamente prima di introdurre nuovi concetti o teorie. Domande che testualmente ripropongo, affinché si abbia un quadro completo delle problematiche indagate da questo dotto e godibile esempio di scrittura di e sui musei dell’oggi. Una delle prime questioni viene posta già nell’introduzione:

«Oggi che i musei sono sempre meno disciplinari, i rapporti con la ricerca e la comunicazione del sapere devono essere profondamente ripensati: qual è, per esempio, il posto delle collezioni storiche e il processo di costruzione dei saperi contemporanei? Come si costruiscono e si indirizzano le forme digitali della comunicazione dell’apprendimento?».

Lattanzi sottolinea come il museo sia passato da

«un paradigma che informava le strategie di diffusione-educazione, del tutto tipico di una politica ispirata all’esigenza di democratizzare la cultura, a un paradigma centrato sulla partecipazione-produzione, senz’altro più congeniale alle logiche della contemporanea democrazia culturale. (…) Il pubblico non si accontenta più di partecipare alla vita delle istituzioni culturali ma vuole essere coprotagonista della definizione stessa dei contenuti della cultura e della sua produzione».

Nel primo capitolo, Crisi del visualismo e modi della rappresentazione, Lattanzi afferma che se il museo è un modo di vedere, allora dobbiamo anzitutto fare i conti con il concetto di visualizzazione, e per avviare il ragionamento cita il racconto di Borges L’etnografo che, a suo dire, «può favorire la comprensione di questo aspetto nei suoi risvolti di umana riflessione sul rapporto tra soggetto e oggetto della rappresentazione». In questo racconto borgesiano, il cui protagonista è un etnologo americano, l’esperienza sul campo che lo aveva portato a conoscere da vicino i segreti degli indiani delle praterie cozza con l’impossibilità di tradurre questo sapere nel linguaggio della scienza. Il suo intero racconto etnografico era quindi misterioso perché muto patrimonio di una personalissima iniziazione antropologica con la quale egli aveva cominciato e terminato la sua carriera scientifico-accademica. Lattanzi sottolinea come il disagio incarnato dal personaggio di Borges traduca in modo esemplare il problema della rappresentazione etnografica, centrale nel discorso antropologico moderno, divenuto dominante del dibattito grazie al famoso libro Antropologia come critica culturale di Marcus e Fisher. Da qui – come è noto – muove l’orientamento di una generazione di antropologi, unita nel comune impegno per il rinnovamento sostanziale delle metodologie di ricerca attraverso l’adozione di nuovi criteri descrittivi e comunicativi: i musei etnografici secondo l’autore rientrano ovviamente all’interno di questo ragionamento dell’antropologia come critica culturale.

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Roma, Museo Pigorini, Sala Collegio Romano, vecchio allestimento

Se dietro la rappresentazione del museo, delle collezioni, delle esposizioni c’è sempre qualcuno che svela il proprio sguardo sul mondo, Lattanzi si chiede allora quale sia il senso, nella società postmoderna, dei musei che pretendono di congelare i valori delle tradizioni. «A che serve custodire feticci, archiviare oggetti, esibire idoli se non ridefiniamo la cornice (sociale, politica, ideologica, storica) entro cui i patrimoni hanno un senso?». Occorre domandarsi, continua, quale significato rivestono per la società attuale questi documenti o queste opere che il museo trasforma in beni buoni da consumare. E risponde alla domanda tirando in causa Marc Augé, perché «anche i musei fanno parte di quei luoghi in cui il senso cerca di resistere o di ridefinirsi, in cui la copresenza di soggetto e oggetto della rappresentazione culturale fa dell’evento che li riunisce un fenomeno del tutto contemporaneo».

Museo quindi anche come luogo di divertimento perché, dice Lattanzi, «se è vero, che la missione del museo non può prescindere dalle istanze e dalle aspettative del suo contesto sociale, dobbiamo allora condividere l’idea che questa istituzione sia ormai anche un luogo d’intrattenimento, capace di competere con altre attività imprenditoriali indirizzate alla cultura e al tempo libero». La trasformazione del rapporto fra museo e società, dato dalla condizione post-moderna, ha modificato lo statuto dell’istituzione museale: «da un lato, ha enfatizzato la sua funzione di servizio pubblico, essenziale per lo sviluppo della cultura; dall’altro ha portato in primo piano tre nodi fondamentali della sua missione contemporanea: l’accesso, la partecipazione e la rappresentazione». Il capitolo si conclude ricordandoci come per rendere più accessibili i musei a tutte le categorie di pubblico bisogna sviluppare delle strategie di partecipazione alle politiche di salvaguardia e di conoscenza, bisogna costruire una rappresentazione museale compatibile con l’immaginario dei fruitori: solo «accettando tale sfida si riesce a mantenere in equilibrio, e con elevati standard di performance, funzioni a volte pensate come concorrenti: quella scientifica e quella divulgativa, quella educativa e quella ludico-ricreativo».

Nel secondo capitolo, Memoria culturale e usi del passato, l’autore richiama il concetto filosofico di “epigonismo”, quale tendenza prevalente nella cultura occidentale ad accumulare il passato nel mondo contemporaneo. Questa tendenza si riconnette all’uso metatemporale del passato e della tradizione che tutte le culture individuano, selezionano, interpretano e trasmettono attraverso le generazioni per costruire una certa identità. Oggi molte società extraeuropee hanno preso a riordinare i propri archivi e a reinventare i propri beni facendo sempre più uso del concetto metatemporale, quasi astorico, di tradizione. Non è un caso quindi se mentre in Occidente l’immagine del museo come simulacro si indebolisce, declina e quindi si reclama una nuova apertura alla molteplicità degli sguardi e delle voci del presente, in molti contesti locali questa immagine del museo, afferma Lattanzi, guadagna invece forza, quella forza propria dei simboli del potere economico-politico: si pensi ai musei che nascono nei tanti Paesi extraeuropei ma anche ai tanti musei locali europei, dove la mediazione che l’istituto svolge fra tradizione e modernità nei processi di formazione simbolica delle coscienze etniche o nazionali è estremamente pregnante, tanto che in molti luoghi si attribuisce un valore patrimoniale a certi particolari paesaggi trasformati in monumenti aperti a visitatori esterni alla comunità.

La verità è che il ricorso alla storia nei più diversi mondi locali si configura come un rituale che oppone la comunità e la continuità, direi, della vita alle angosce del tempo e alla minaccia di morte. L’oggetto stesso della riflessione allora, osserva Lattanzi, è sostanzialmente mutato, non è più la tradizione come dato ma è la memoria culturale come un processo sociale creativo di interpretazione, appunto, della tradizione. In questa dimensione la parola ‘patrimonio’ è diventata la parola chiave della contemporanea riflessione antropologica attraverso uno spostamento dello sguardo dal patrimonio, che include soltanto monumenti e oggetti, ad un concetto più estensivo di qualcosa che ci appartiene, riassumibile nello slogan “il patrimonio siamo noi”, come nel caso della costruzione della nostra memoria, dei contenuti dei nostri scambi e delle sfumature dei nostri saperi nel cosiddetto patrimonio immateriale.

Allora scrive Lattanzi: «Il patrimonio può essere considerato un apparato ideologico della memoria che implica l’ordinamento del passato secondo scelte e processi di selezione ed esclusione differenziale gerarchici. Patrimonializzare, mettere in valore, esprime una tendenza sociale a trasformare la memoria in coscienza collettiva, in identità civile; indica un movimento di appropriazione del passato, un’attenzione al recupero di storia e di tradizioni per esercitare un controllo sociale sul tempo e, soprattutto sulle sue contemporanee accelerazioni». Attraverso questo approccio patrimoniale Lattanzi si chiede anche come la rappresentazione museale nell’era postcoloniale abbia fatto emergere le difficoltà di considerare il concetto di museo come un qualcosa di unicamente riferibile alla cultura occidentale, perché in alcune culture non occidentali ci sono sempre stati degli spazi tradizionali «in cui si conservano collezioni di oggetti con significato religioso o cerimoniale, che sono per certi aspetti analoghi al concetto occidentale di museo», come sottolinea Moira Simpson.

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Roma, Museo Pigorini

Richiamando il caso di un museo della baia di Hudson che il fondatore Inuit decise di chiamare Saputik, cioè la barriera, Lattanzi introduce il concetto di museo acculturativo che rimanda anche alle esperienze dell’antropologia italiana dei musei locali, sviluppatisi attraverso il recupero dei detriti del passato di una comunità e che integrano la nozione socioculturale di patrimonio in connessione col tessuto territoriale. La maggioranza di queste collezioni, di questi musei locali italiani sono «raccolte private, imprese personali di documentazione che manifestano – scrive  Lattanzi – le tracce di una mentalità museale e, attraverso approssimazioni più o meno esplicite all’idea storica di museo, esprimono la volontà di salvaguardare una certa memoria culturale». Pietro Clemente le ha classificate come forme “spontanee” di museografia locale: si pensi al Museo Ettore Guatelli; altrove sono stati etichettati come musei “nativi” o “indigeni” in modo da sottolineare l’autonomo impulso a recuperare la tradizione attraverso rappresentazioni a volte molto personali del passato e, dunque, per distinguerle da quei musei più strutturati dal punto di vista del servizio pubblico, che pure incorporano e utilizzano il punto di vista dei nativi, ma che offrono una rappresentazione scientifica delle culture e, proprio per questo, impersonale, secondo l’autore.

Nel terzo capitolo, Patrimoni, (eco)musei e sviluppo locale, Lattanzi citando Amitav Gosh sottolinea come «nell’era dell’antropocene è diventato impossibile tenere in piedi la finzione di una netta separazione tra ciò che è naturale e ciò che è culturale: le due cose oggi appaiono indissolubilmente intrecciate». Sottolinea quindi come la visione stratigrafica del loro manifestarsi sia una costruzione teorica della nostra cultura che Lévi-Strauss ha introdotto nel dibattito antropologico, per poi relativizzarla e oggi, grazie al lavoro del suo allievo Déscola, smontarla definitivamente. Recuperando l’ultimo intenso e innovativo libro di Vittorio Lanternari (Ecoantropologia, 2003), poco citato negli studi di settore, l’autore introduce la riflessione sugli ecomusei che sono diventati, anche in Italia, «una cartina al tornasole utile per verificare se l’idea di Ecomuseo sia una nostalgica sopravvivenza del ‘900, ovvero se la dilatazione semantica offerta dall’aggettivo “eco” con museale non permetta di rigenerare nei contenuti l’idea stessa di museo, consentendo, con una torsione prospettica, di opporre un’efficace resistenza alle perturbazioni che investono ogni prefisso eco nell’attuale epoca dell’Anthropocene». Lattanzi sottolinea come oggi sicuramente gli ecomusei siano un punto di osservazione delle aree di resilienza territoriale di fronte ai processi di cambiamento sociale ed economico contemporanei.

Infatti gli ecomusei oppongono allo schema fisso dei tre principali poli distintivi del museo classico, e cioè la triangolazione edificio-collezione-pubblico, i tre poli territorio-patrimonio-comunità, come de Varine scrisse nel 1979. Nell’idea di ecomuseo l’elemento caratterizzante è il legame con il territorio, la messa a sistema sia del paesaggio storico o naturale sia dell’insieme delle attività sociali ed economiche della comunità di abitanti, restando quest’ultima la base dell’idea di museo territoriale. Sono infatti strategiche per la costruzione di un Ecomuseo le mappe di comunità, strumento fondamentale per la rappresentazione della memoria locale, con l’obiettivo di coinvolgere le comunità in un esercizio di autorappresentazione identitaria e di riconoscimento dei valori tipici del luogo che si abita. È il cosiddetto genius loci ovvero il sens of place, lo spirito del luogo come oggi diciamo.

Lattanzi sottolinea come in Italia l’ecomuseo abbia incrociato la svolta museografica favorita dai musei etnoantropologici, che nelle nostre regioni iniziò subito dopo il convegno Museografia e folklore svoltosi a Palermo nel 1967 e che diede il via allo studio e alla realizzazione dei musei etnoantropologico locali in tutta Italia. Oggi su un totale di 4976 musei e istituti similari censiti dall’Istat nel 2015 la tipologia prevalente è ancora quella del museo etnoantropologico (il 16,6% del totale). Lattanzi attraverso l’analisi dei testi legislativi emanati dallo Stato e dalle Regioni connette il patrimonio dei musei etnografici con lo sviluppo degli ecomusei e, in particolare, ricorda come questo lavoro sia stato intrapreso in Francia.

L’ecomuseo è un laboratorio di sostenibilità, è un momento di riflessione critica sul nostro modello di sviluppo in cui il benessere è sempre meno lo stare bene e nel quale si avverte forte la necessità di comportamenti compatibili con la natura, il territorio, il paesaggio e cioè tutta una serie di prassi improntate a nuovi rapporti tra la comunità, la cultura e l’ambiente. Attraverso l’analisi degli ecomusei Lattanzi introduce il tema fondamentale della gestione partecipata del patrimonio culturale e si pone una serie di domande chiave: in questa versione, in questa modalità cosa resta dell’istituzione museale nella sua versione eco? Siamo sicuri, egli dice, di avere a che fare ancora con musei e non piuttosto con imprese culturali o agenzie di sviluppo territoriale? E si chiede ancora: se de Varine non abbia forse portato alle estreme conseguenze il ruolo sociale del museo moderno fino a demolirne le fondamenta, ovvero fino a suggerirne l’opportunità di rifondarne le funzioni?

2Sulla scorta di queste domande Lattanzi sviluppa un ragionamento sull’idea di comunità patrimoniale, oggi divenuta centrale nelle politiche del patrimonio, che a suo avviso spiegherebbe il successo attuale della formula ecomuseale. Anche se tende a smarcarsi, precisa Lattanzi, dal mondo museale, l’ecomuseo è uno dei frutti di quell’utopia e propone un processo di engagement territoriale che è in totale sintonia con gli attuali progetti di partecipatory museum raccomandati dalla museologia contemporanea per sostenere le sfide del XXI secolo. Proprio nell’ecomuseo, secondo Lattanzi, troviamo incarnato lo scarto tra la materialità dell’oggetto e l’immaterialità del fenomeno che più che una contraddizione è visto, anche alla luce del codice dei Beni Culturali, come uno spazio entro cui si realizza l’applicabilità della norma giuridica. Perché, dice Lattanzi, una volta riconosciuto il nesso esistente tra le cose e le persone, presupposto indispensabile a ogni processo di patrimonializzazione, l’azione di tutela viene lasciata alla libertà dell’interpretazione; e la dimensione intangibile dei beni culturali è sempre tutta da trasformare in valore poiché esiste nella realtà delle cose, è connaturata alla loro stessa materialità, all’essere beni culturali, ambientali, null’altro che oggetti del mondo reale.

In conclusione del capitolo Lattanzi ci ricorda come i musei italiani abbiano una indiscutibile radice territoriale, perché hanno un’origine e si alimentano dei beni che provengono da un contesto di prossimità e ne rispecchiano in vario modo la storia e le tradizioni; i musei traggono cioè la loro identità e forza dallo stretto rapporto con i luoghi di provenienza delle loro collezioni. Ecco perché l’idea di ecomuseo si va sempre più sviluppando in Italia ed ecco perché l’ICOM ha dedicato la sua conferenza generale, tenutasi a Milano nel 2016, a Musei e paesaggi culturali, a conclusione della quale si è deciso di avviare una riflessione sull’opportunità di aggiornare la stessa definizione di museo. La nuova definizione di museo proposta all’assemblea generale ICOM di Kyoto nel 2019 infatti recita:

«I musei sono spazi di democrazia, inclusivi e polifonici, dedicati al dialogo critico sul passato e il futuro. Nel riconoscere e affrontare i conflitti e le sfide del presente, hanno in custodia reperti ed esemplari per la società, salvaguardano le diverse memorie per le generazioni future e garantiscono uguali diritti e uguali possibilità di accesso al patrimonio a tutte le persone. I musei non hanno scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti, e lavorano in collaborazione attiva con e per le diverse comunità al fine di raccogliere, conservare, studiare, interpretare, esporre e migliorare la comprensione del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario».

Secondo Lattanzi giustamente il tono etico-politico che contraddistingue questa nuova definizione di museo, non ancora approvata definitivamente, traduce in modo molto chiaro ed esplicito lo spirito del cambiamento dei musei postmoderni.

Nel quarto capitolo, Verso la dissoluzione del museo etnologico, Lattanzi ci racconta come antropologia e musei etnografici siano da sempre stati una cifra della modernità e che il nesso tra musei e identità è costruito sui valori elitari della cultura rinascimentale. Sul filo della storia delle origini del museo in Occidente e lungo il percorso che porta anche alla nascita degli studi sull’uomo, a partire dal Settecento francese per passare agli enciclopedisti, fino all’istituzione, all’inizio dell’Ottocento, dei musei en plein air del Nord Europa, si snoda una cavalcata storica e antropologica che incrocia anche l’istituzione dei musei italiani, come il museo di antropologia di Mantegazza, che  esaltava l’importanza degli oggetti metamorfici, quelli cioè che riuniscono elementi del mondo selvaggio e dei popoli civili; o attraverso l’istituzione del museo Pigorini, che aveva proposto di allargare l’esposizione alle collezioni di oggetti demologici; o attraverso il Museo etnografico siciliano fondato da Giuseppe Pitrè o l’iniziativa su vasta scala intrapresa da Lamberto Loria in collaborazione con Mochi, promotori dell’Esposizione Internazionale di Roma nel 1911, in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia, per la quale avevano raccolto oggetti della cultura popolare italiana, per concludere con le esperienze del secondo dopoguerra grazie all’opera degli studiosi come Raffaele Pettazzoni, Ernesto de Martino e Giuseppe Cocchiara, i quali abbandonarono la concezione artistico-letteraria del folklore e orientarono la ricerca su altri campi di interesse, quali la vita sociale, i fenomeni rituali, la musica, la danza, la quotidianità, in poche parole la storia delle tradizioni popolari.

image-3Questo excursus permette a Lattanzi di ragionare anche sulle questioni e sugli scenari della definizione del museo etnologico e di come questa sia cambiata nel corso dell’ultimo secolo. Tra alti e bassi, tra ritorni e ricadute, in mostra tra scienza e arte, Lattanzi ricorda come dagli artefatti cerimoniali, attraverso un procedimento euristico che dall’oggetto rimanda al contesto che ha generato l’opera, si possa passare a comprendere l’importanza di questi oggetti custoditi dai musei all’interno dello spazio postmoderno. In questo capitolo Lattanzi riflette anche su come l’influsso delle Esposizioni universali sul settore dei musei etnografici sia stato fondamentale anche ai fini della costruzione di questi musei storici italiani, di cui prima abbiamo parlato, e riconnette tutto questo anche al ragionamento sull’art premier, sull’arte primitiva che è stata sempre più utilizzata nell’ultimo periodo, soprattutto in Francia, e che ha dato il via alla nascita anche di nuovi musei, come il Musée du quai Branly.

La rapida rassegna che Lattanzi enuclea ci guida nella comprensione dei concetti chiave dell’antropologia contemporanea come il coloniale, il primitivo, l’art premier, qui orientati in una prospettiva aperta alla dimensione, diremmo, dell’effimero, inteso quest’ultimo quale dispositivo della modernità. Lattanzi sottolinea infatti come questi concetti siano instabili e precari ma intimamente connessi alla storia dei Musei e delle Esposizioni universali che in vario modo li hanno alimentati. Si chiede, proprio a partire da questa riflessione sull’effimero, se non sia il caso di ragionare su nuovi musei che più che avere delle collezioni stabili abbiano delle esposizioni instabili, cioè siano luoghi dove esporre le culture, diremmo quasi, a rotazione, come d’altronde da millenni avviene in agricoltura dove, come è noto, per non fare inaridire il terreno si ha un ciclico ricambio, un’alternanza delle colture. Nel nostro caso specifico dei musei è bene che questo terreno, il terreno dei musei, diventi un terreno della rotazione expositiva in modo da dare spazio alle diverse culture endogene ed esogene.

Nel quinto capitolo, Il museo collaborativo e nel sesto e ultimo capitolo, Il museo dei mondi possibili, Lattanzi ragiona sul patrimonio interculturale, sulla didattica delle differenze e introduce l’idea del ritorno al museo come campo di ricerca, immagine proposta da Francesco Remotti qualche anno addietro, quindi di un museo come filedwork. L’autore racconta di una serie di mostre da lui organizzate al Museo Pigorini (ora Museo delle Civiltà) dove questo elemento del museo collaborativo viene concretamente sperimentato. Questo processo si ricollega all’espressione coniata da Clifford del museo come “zona di contatto”, come spazio di incontro, come luogo in cui le parti in causa interagiscono e pongono all’attenzione di tutti gli attori presenti differenti istanze; un museo come spazio di dialogo in cui tutte le diverse prospettive (istituzionali, della comunità, del museo stesso) sono coinvolte in un processo di riconoscimento e di contrattazione che fa del patrimonio, e quindi degli oggetti custoditi al museo, l’elemento di scontro politico e sociale e quindi di exposizione.

11Si chiede infatti Lattanzi: cos’è un museo se non un’arena culturale? Cosa vuol dire collaborazione se non c’è confronto? Dov’è il dialogo se c’è accordo? E dove sta l’intercultura se non si avvia un processo di scambio? Ecco, nel cercare di rispondere a queste domande l’antropologia, sostiene Lattanzi, cerca almeno parzialmente un riscatto dalla colpa di avere monumentalizzato il processo di colonizzazione: «ci piace considerare – scrive – il museo etnologico non un tempio del colonialismo ma un mezzo di comprensione del nostro modo di riconoscere la diversità, un utile antidoto contro le monologiche dell’eurocentrismo e un potente dispositivo di riduzione del conflitto interculturale». Sottolinea ancora Lattanzi come:

«mentre le funzioni classiche del museo, quelle che la tradizione illuminista ha radicato nelle ragioni politiche della conservazione, si indeboliscono, veniamo oggi chiamati a riflettere sulla diversa ricezione di un’idea concepita dalla nostra cultura per assicurare la salvaguardia e la fruizione pubblica del patrimonio, ma anche sull’uso che ne fanno i suoi principali promotori, i politici, le comunità locali e gli agenti di sviluppo territoriale».

L’idea stessa di Museo si è trasformata in un concetto buono da pensare e da usare in funzione del suo ruolo pubblico e dei processi identitari che alimenta o che è capace di innescare o di intercettare. Oggi il museo è un iperluogo che ha potenzialità sia di “nicchia” che di “arena“. In questo processo, che assegna al museo popolarità, ne moltiplica le tipologie e ne fa una istituzione di successo, la museografia antropologica contemporanea sembrerebbe, secondo Lattanzi, consapevole del fatto che le pratiche del collezionare (e poi del rappresentare) stanno dentro i traffici di fruizione culturale del mondo globalizzato e si alimentano delle tensioni proprie del sistema artistico culturale. Nel museo etnografico non sono più il gusto antiquariale e la maniacale ricerca degli ultimi oggetti autentici a definirne lo statuto, ma l’impegno rivolto a documentare la sua contemporaneità (che sarà dato storico in futuro) nelle forme perlopiù ibride in cui essa si esprime nei suoi specifici contesti.

«Dove il valore dell’oggetto della cultura materiale è una produzione che non recide il filo con la tradizione e al suo uso interno, ci si chiede quale significato rivestono i documenti che il museo conserva per la pubblica fruizione, quale è il rapporto con questo gran bazar delle telecomunicazioni che lo rende disponibile come oggetto di consumo? In che modo la messa in valore dei beni museali innesca nuovi processi identitari? In che senso il patrimonio culturale può essere considerato uno strumento identitario del XXI secolo?».

Molte delle risposte a queste domande cruciali, dice Lattanzi, sono connesse ai problemi dell’accesso, della partecipazione della rappresentazione nelle istituzioni preposte alla salvaguardia dei patrimoni. La rimozione delle barriere di accesso al museo rendono più democratica la conoscenza del patrimonio e possono coinvolgere, in qualità di agenti di promozione di sviluppo culturale, pubblici sempre più differenziati.

13Questa partecipazione allargata non esclude assolutamente di poter realizzare forme di progettazione condivisa di attività promozionali ed educative. Il museo infatti è il luogo della rappresentazione negoziata dei patrimoni che pone in questione i valori dominanti. Tutto ciò porta a presentare le collezioni etnografiche in modi radicalmente nuovi rispetto al passato, e Lattanzi racconta di alcune iniziative sviluppate da lui e dai suoi collaboratori all’interno di un progetto europeo di integrazione delle comunità straniere e quindi di azioni sulla diaspora. Questi esempi di ricerca-azione permettono a Lattanzi di ragionare su una nuova missione del museo postmoderno; si chiede infatti se il dialogo a più voci, sviluppato all’interno di questi progetti del museo Pigorini, sul senso da assegnare ai patrimoni culturali, sia ormai sentito come un obiettivo necessario poiché la contemporaneità è di fatto un campo di rappresentazioni abitato da oggetti e da storie e il museo va ormai considerato un luogo e un’opportunità per costruire identità culturali e relazionali, uno spazio per includere tutti i cittadini nei processi di patrimonializzazione. Ecco la nuova missione del museo:

«Trasformando i suoi diversi pubblici in agenti della promozione dello sviluppo culturale il museo allora si candida a diventare un buon modello di riferimento per un’Europa multiculturale, dove la coscienza dei beni culturali materiali e immateriali non sia più un fattore di esclusione per le minoranze ma una risorsa preziosa per lo sviluppo sostenibile».

Infine Lattanzi, partendo da una delle mostre organizzate al museo Pigorini (S)oggetti migranti Red-me 2, si interroga su come gli oggetti possano diventare testimoni, possano essere assunti come veicoli di appartenenza e di affettività, possano cioè diventare ambasciatori di una possibilità di dialogo interculturale. Enucleando il processo laboratoriale intrapreso all’interno di questa esperienza di mostra, Lattanzi dimostra che

«dal punto di vista expografico lo scarto conoscitivo esistente tra l’evidenza della traccia etnografica di un contesto culturale e l’appartenenza di una realtà trasfigurata dalla diaspora in uno stato d’animo contemporaneo, fatto di malinconia e di speranza, sta tutto nella possibilità di concepire la rappresentazione guardando oltre la dimensione originaria dell’oggetto, in modo da costruire quel campo etnografico nel quale la conoscenza deriva dal corpo a corpo tra diverse prospettive di osservazione dell’oggetto stesso. In questo campo interpretativo localizzato, aperto al gioco dell’ermeneutica, il testo expografico concede spazio al confronto tra differenti modalità di essere nel mondo reale, e rende possibile quella costruzione negoziata e partecipata del patrimonio culturale che oggi costituisce lo scopo ultimo del museo quale istituzione sociale».

Dunque, un “museo dei mondi possibili”, un “museo cantiere” che sceglie la logica della provvisorietà, facendo partecipare il pubblico attraverso la formula laboratoriale, che fa ritornare il museo luogo immaginario dei passati prossimi e dei futuri possibili.

 Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021

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Rosario Perricone, insegna Antropologia culturale e Museologia nell’Accademia delle Belle Arti di Palermo. È presidente dell’Associazione per la conservazione delle radizioni popolari e Direttore de Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” di Palermo. Ha scritto tra l’altro: Il volto del tempo. La ritrattistica nelle culture popolari (2000), I ricordi figurati: foto di famiglia in Sicilia (2006); Oralità dell’immagine. Etnografia visiva nelle comunità rurali siciliane (2018).

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